La Cop27 ha aperto i battenti per affrontare le sfide sui cambiamenti climatici, ma quest’anno a Sharm el-Sheikh si respira – tanto per restare in tema – un’aria difficile.
I motivi sono noti: i grandi assenti, non solo Cina, India (e la Russia che ha invaso l’Ucraina), ma anche gli attivisti che accusano la Cop27 di greenwashing.
La Cop 27 dovrebbe rispondere innanzitutto alla sfida di movimentare i 100 miliardi annuali promessi dal 2020, e mai elargiti, alle comunità più colpite dai disastri ambientali causati dai cambiamenti climatici. “Da una decade l’impatto della Cop 27 sta scemando di anno in anno”, commenta Livio De Santoli, prorettore alla sostenibilità dell’Università La Sapienza di Roma, ma “potrebbe almeno pareggiare i conti se finalmente rispettasse le promesse fatte e non ancora mantenute”.
Tuttavia dall’Egitto arrivano anche notizie rassicuranti: dopo solo un anno di vita, la First Movers Coalition, la partnership pubblico-privata per commercializzare tecnologie pulite innovative, ha siglato accordi per 12 miliardi di dollari. Qualcosa si muove nel verso giusto, per decarbonizzare interi settori economici responsabili di un terzo delle emissioni globali.
Questo Cop27 è stato giudicato da vari esperti piuttosto fattivo nel provare a implementare i percorsi di riduzione emissioni (mitigation) e anche strategie di adattamento climatico.
Cop27 e le sfide dei cambiamenti climatici
L’accordo di Parigi, alla Cop21 nel 2015, è arrivato al terzo Summit sul clima, dopo il protocollo di Kyoto del 1997 e la conferenza di Copenhagen del 2009.
Ma ora Cop27 a Sharm-el-Sheikh appare in tutte le contraddizioni: l’abuso dei jet privati (emblema dei i super ricchi: Oxfam accusa i Paperoni di inquinare un milione di volte di più di qualunque cittadino appartenente al 90% della fascia più povera della popolazione mondiale); la repressione del dissenso (anche ecologico) da parte del governo del Cairo, già responsabile del tragico caso Regeni; la scarsa disponibilità di acqua e l’impatto climatico della logistica del summit. L’altisonante richiamo del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres “Siamo su un’autostrada per l’inferno” cade nel vuoto.
Infatti, come spiega il professor De Santoli, sarebbe già un piccolo successo se venissero fuori i 100 miliardi di dollari da dare ai più poveri: 84 miliardi sono già impegnati, ma gli erogati sono solo una frazione. Tuttavia non è facile ricevere i progetti, alla fine manca il tempo di valutarli e approvarli.
Ma i ritardi non si contano solo in questo campo, ma anche negli investimenti per mitigare le conseguenze dei cambiamenti climatici.
Italia in ritardo
Per esempio il Piano nazionale italiano di adattamento è ancora in forma di bozza: ferma al 2017, nonostante l’impegno profuso dall’ex ministro Enrico Giovannini. Ma non è un caso: oggi, anche, sotto il profilo lessicale, il ministero per la transizione energetica cede il passo alla sicurezza energetica, mentre le aziende hanno scoperto che essere green conviene e che chi investe in sostenibilità ha più energia buon mercato, crea più lavoro, ha un costo del capitale inferiore, va meglio a livello economico e fidelizza meglio la clientela perché “sostenibile è bello”.
First Movers Coalition raggiunge i primi ambiziosi obiettivi
Spingere acquisti di tecnologie innovative, contro i cambi climatici, per creare un mercato che altrimenti stenterebbe a partire. Questo è il fine della First Movers Coalition, che al Cop27 ha fatto i primi importanti passi avanti.
First Movers Coalition adesso include 65 aziende e per valore di mercato rappresenta oltre il 10% del Fortune 2000 globale, oltre a dieci partner governativi. I nuovi membri corporate comprendono General Motors, PepsiCo e Rio Tinto.
Le nuove commesse sul cemento e calcestruzzo imporranno alle aziende di acquistare entro il 2030 almeno il 10% di cemento e calcestruzzo quasi-zero carbon. I due materiali detengono il 7% delle emissioni globali attuali e raggiungeranno il 9% dal 2050. Questi ambiziosi piani dei membri di First Movers Coalition members stimoleranno investimenti nelle tecnologie di prossima generazione per decarbonizzare cemento e calcestruzzo.
I membri aziendali della coalizione totalizzano 12 miliardi di dollari, la più forte domanda per portare a scala le innovazioni emergenti. I prossimi passaggi riguarderanno investimento nell’acciaio green, nell’alluminio pulito, cemento; carburanti near-zero carbon per l’aviazione; camion e navigazione a zero emissioni; rimozione della CO2. Il progetto consiste nel decarbonizzare i settori dell’economia global che producono un terzo delle emissioni globali.
La linea rossa è l’aumento di 1.5°C dell’accordo di Parigi
James Fletcher di St Lucia ricorda che gli stati Caraibici hanno le idee chiare: “La linea rossa è l’aumento di 1.5°C (stabilito dall’accordo di Parigi, ndr). Senza una conferma di questo obiettivo, siamo pronti ad abbandonare le trattative”, ha spiegato all’Economist.
Numerose isole hanno fissato questa stessa linea rossa. Il motivo è semplice: per le Maldive, con oltre l’80% della terra un metro sotto il livello del mare, il riscaldamento globale non può superare l’aumento di temperatura di 1.5°C (2.7°F) senza vedere sparire sott’acqua la maggior parte del territorio sovrano.
Ma non ci sono solo le isole a esprimere pessimismo. Alcuni Paesi continentali si percepiscono a rischio o comunque, per un forte senso di solidarietà, abbracciano la causa della linea rossa.
Nel 1992 veniva negoziato Framework Convention on Climate Change (unfccc), ma aveva un difetto, non indicava una temperatura obiettivo.
Il limite che molti Paesi vorrebbero accettare, compre i responsabili delle grandi emissioni, era quello dei 2°C. Ma il limite fissato a 1.5°C è stato una delle rare vittorie dei Paesi poveri.
Tuttavia in questi anni dopo l’accordo di Parigi, il limite di 1.5°C è diventato un totem. Al processo ha contribuito il report pubblicato dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) nel 2018 che ebbe il merito di mettere a confronto cosa succederebbe con un aumento di 1.5°C rispetto a ciò che accadrebbe con un incremento di 2°C.
Ai profani sembra solo la differenza di temperatura di mezzo grado, ma gli impatti e i rischi sono in realtà enormi. In uno scenario con un aumento di 2°C world, altre 420 milioni di persone sarebbero esposte a temperature di caldo record. Milioni di persone vedrebbero stravolta la loro vita dall’innalzamento dei mari. Lo scioglimento dei ghiacci nell’Artico avverrebbe nell’arco di un decennio e non di un secolo, sconquassando tutti i piani per mitigare i danni.
Il report del 2018 non prendeva in esame solo gli impatti, ma anche i percorsi di emissione. Le sue conclusioni hanno formalizzato che l’obiettivo di 1.5°C è compatibile con l’azzerare le emissioni per il 2050. Il mantra “Net-zero entro il 2050” ha galvanizzato politici, business e attivisti.
Nel 2019 l’iniziativa Science Based Targets, progetto non-profit che fornisce a settori corporate e finanziari guide e assistenza tecnica sui loro plani dedicati al climate action, ha lanciato la campagna “Business ambition for 1.5°C” con 28 early adopter. Si sono unite 1,558 aziende.
Nel 2019 gli impegni delle zero emissioni hanno riguardato il 16% dell’economia globale. Dal 2021 gli impegni net-zero-entro-il-2050 sono saliti al 70%. “La mobilizzazione della finanza e del business è guidata dall’obiettivo del limite del 1.5°C”, ha dichiarato Stephanie Maier di Climate Action 100+, un gruppo di investitori con 700 membri che detengono asset dal valore di 70 trilioni di dollari.
Questa urgenza ha fatto crollare i picchi di previsione. Secondo l’Environment Programme delle Nazioni Unite (unep), entro il 2100 il range delle temperature spazia da 2.8°C sotto le politiche attuali e 2.4°C se i governi adottano le politiche di Agenda 2030. Questo è un progresso reale.
Ma il fallimento di tenere vivo il limite del 1.5°C si è toccato con mano a Cop26, il summit dell’anno scorso a Glasgow. E si conferma a Cop27, a Sharm el-Sheikh sul Mar Rosso in Egitto.
Dove vanno le temperature
Il percorso delle emissioni aveva in teoria il 50% di probabilità di raggiungere l’obiettivo del limite di 1.5°C. Ma sette anni di emissioni in rialzo continuo hanno decretato la morte di quello che sembrava a Parigi un limite credibile.
Siamo entrati nel mondo post-1.5°C, in cui abbiamo perso il totem di un obiettivo che univa credibilità con la sostenibilità per limitare gli impatti dei cambiamenti climatici.
Per capire perché è fallito l’obiettivo del 1.5°C, basta guardare al carbon budget: la quantità delle emissioni di CO2 associata al riscaldamento.
Questa stima deriva dai modelli del clima. I tagli di emissione non sono decisioni arbitrarie, ma sono associati con investimenti e il mantenimento ragionevole della filiera dell’energia.
Secondo l’Ipcc, il budget ha il 50% di possibilità di evitare il superamento del limite di 1.5°C, pari a 2.890 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Di questi, ben 2.390 miliardi di tonnellate sono già state emesse dal 2019. Il carbon budget pre-pandemico era pari a 500 miliardi di tonnellate. Da allora, un’ulteriore quantità pari a 40 miliardi di tonnellate è stata emessa ogni anno, lasciando 400 miliardi di tonnellate nel budget.
Facendo un ragionamento per reductio ad absurdum, altri dieci anni di emissioni alla velocità attuale brucerebbero l’intero budget del limite di 1.5°C. Raggiungere un plateau delle emissioni è ancora possibile, al contrario un taglio istantaneo non lo è.
Ma se dimezzassimo le emissioni in dieci anni, guadagneremmo altri dieci anni per un altro dimezzamento.
Tuttavia nessuno dei modelli può generare un percorso rapido. Inoltre se slitta l’avvio dei tagli delle emissioni, sarà sempre più complicato raggiungere gli obiettivi.
Per non entrare in un circolo vizioso, servono tecnologie e innovazioni. Per esempio, per raggiungere un budget di 400 miliardi di emissioni, in un mondo che emette 600 miliardi di tonnellate, basta rimuovere velocemente 200 miliardi di tonnellate.
Ma se le emissioni negative aiutano a produrre percorsi plausibili, possono deviare dalle migliori intenzioni. Lo slittamento delle riduzioni, rallenta il declino. Invece il bilanciamento del carbon budget è assicurato aggiungendo dopo le emissioni negative. Con questa metodologia, si alza la probabilità di centrare il limite dei 2°C.
Infatti il modello funziona per il limite dei 2°C, ma per quello di 1.5°C è possibile adattare i modelli, ma ci sono problemi da risolvere.
Di quanto aumenteranno le temperature
Le traiettorie prevedono un taglio delle emissioni del 43% od oltre entro il 2030. “Ma chi crede che siamo in grado di dimezzare le emissioni globali dal 2030?”, si interroga Daniel Schrag, scienziato di Harvard, già adviser scientifico alla Casa Bianca durante la presidencza di Barack Obama. “Tecnicamente possibile, ma lontanissimo dalla realtà dei fatti”.
Queste traiettorie non manterrebbero il limite di 1.5°C. Dall’anno scorso il report dell’Ipcc ha iniziato a proporre 97 scenari ipotetici nella categoria “low-or-zero-overshoot”. Tuttavia solo sei degli scenari ipotizzati non superano il limite.
Ad aprile, Glen Peters del Centre for International Climate Research di Oslo, in Norvegia, ha espresso le sue preoccupazioni sui modelli proposti.
Oggi la media delle temperature sono fra 1.0 e 1.3°C sopra l’era pre-industriale. Secondo il britannico Met Office and the World Meteorological Organisation, c’è ancora il 48% di probabilità di mantenere le temperature medie sotto il limite di aumento di 1.5°C entro i prossimi cinque anni.
I prossimi report dell’Ipcc non faranno più previsioni, ma si limiteranno a riportare la cronaca dei danni causati dai cambiamenti climatici.
Per gli scienziati del clima, un solo anno con un aumento di 1.5°C non sarebbe un problema, se la media fluttuasse sotto al limite.
Il ritardo italiano
“L’Italia è partita col piede sbagliato: il primo provvedimento non è dedicato alle rinnovabili, su cui c’è urgenza di agire, ma alle trivelle. Oltretutto, per diventare operative, le estrazioni nell’Adriatico richiedono tre-quattro anni”, mentre l’emergenza è ora. Inoltre “hanno soprattutto anche un impatto negativo sul pacchetto climatico Fit for 55 della Commissione europea che chiede di accelerare la decarbonizzazione e non di immettere ancora più CO2”, spiega Livio De Santoli, che è anche presidente del Coordinamento Free – Fonti Rinnovabili ed Efficienza Energetica.
“Di questo passo l’impegno ad accelerare le installazioni verso i noti 8 GW l’anno per ridurre in maniera drastica le emissioni climalteranti del 55% entro il 2030 non verrà mantenuto”. Sarebbero dunque urgenti i decreti per la decarbonizzazione, per attuare la direttiva sulle rinnovabili innovative o definire le aree idonee alle installazioni rinnovabili.
L’Europa ha lanciato RePowerEU per spingere gli stati membri a limitare al massimo gli iter autorizzativi per gli impianti rinnovabili, riducendo a uno o due anni contro gli inaccettabili cinque anni (ed oltre) di oggi.
Biometano e comunità energetiche
“Entro tre o quattro anni il gas dovrà essere sostituito non solo dal biometano, ma anche dalle installazioni di rinnovabili e dall’aumento dell’efficienza energetica. La strada giusta per decarbonizzare consiste nel varare un Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, garantendo il pieno sviluppo, sotto il profilo dell’innovazione, per incentivare le comunità energetiche, il biometano, le rinnovabili innovative, l’agrivoltaico. Le comunità energetiche sono importanti per tagliare i consumi, per promuovere l’autoconsumo energetico e ridurre i divari sociali”, in quanto la crisi ambientale è anche una crisi sociale. Ma Legambiente, su cento comunità da giugno, ha contato che appena 16 hanno completato l’iter autorizzativo e soltanto 3 hanno ottenuto l’aiuto statale. I provvedimenti attuativi sono dunque urgenti. L’accelerazione impressa dal governo Draghi ai processi di impatto ambientale, per autorizzare impianti fotovoltaici e parchi eolici, ha fatto progredire l’Italia nella potenza installata. Tuttavia il Paese è ancora lontano dagli altri Paesi europei. La Puglia ha rinunciato ai parchi eolici offshore. La Sicilia li rifiuta. La Sardegna va a carbone, mettendo perfino bastoni fra le ruote all’elettrodotto sottomarino.
Inoltre, l’Italia sta anche sottovalutando il vantaggio competitivo che il Paese ha nell’economia circolare.
L’italiana Eni punta sul Gln, ma guarda al nucleare
Secondo l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, il presente appartiene ancora al gas, ma la società punta sulla fusione nucleare sicura. Fra otto anni Eni potrebbe lanciare la prima centrale industriale.
“Il gas si sta ancora utilizzando, avrà una vita di sei-otto anni”, rassicura Descalzi, “però intanto ci porta avanti nel processo di transizione assicurando l’energia”. Intanto la società chiede di fare presto col rigassificatore, per assorbire i 7 miliardi di metri cubi di Gnl che arriveranno via nave. Le bollette sono destinate a salire, ma “se ci sarà per la fine di aprile, come tutti sperano”, afferma l’Ad di Eni, “non avremo problemi”.
L’Italia potrebbe intanto raddoppiare la produzione nazionale di gas a quota 5 o 6 miliardi di metri cubi, il corrispondente di quanto ora arriva dalla Russia, nel giro di 2-3 anni. Ma l’Ad di Eni auspica che i permessi arrivino “in tempi ragionevoli”, dopo il rinnovo delle norme sulle trivelle del governo Meloni.
Tuttavia la sicurezza energetica non deve allontanare il Paese dai target di decarbonizzazione, senza fare ideologia. Sostenibilità, sicurezza energetica e competitività sono infatti tre pilastri che “possono stare insieme, se le cose non si fanno in modo ideologico”.
“La sostenibilità ambientale è la priorità ma ci devono essere altre gambe”, sottolinea l’amministratore delegato del cane a sei zampe: “Su una sola gamba si fa fatica a stare in piedi, ci vuole poi una gamba legata alla sicurezza energetica e una gamba che è quella della competitività. Se lasci indietro sicurezza e competitività, non riesci più a fare business”.
“C’è tutta la catena dei biocarburanti che non vengono da idrocarburi ma da agricoltura, da arbusti oleosi coltivati in zone desertiche”. conclude Descalzi: “Abbiamo fatto 7 accordi in Africa e stiamo già importando dal Kenya”, spiegato che il programma dà lavoro a quasi 100 mila famiglie e genera olio per le bioraffinerie di Venezia e Gela. Infine, “dopo anni di test possiamo usare questi biocarburanti al 100% sui motori euro 4, euro 5 ed euro 6. E sono complementari a tutta la crescita dell’auto elettrica”, assicura l’Ad di Eni.
L’importanza dell’adattamento
Dobbiamo accettare che vivremo in un mondo più caldo. Più di 1,5 gradi. Ecco perché diventa necessario non solo concentrarsi sulla mitigazione degli effetti del riscaldamento, ma anche sull’adattamento, che secondo Bill Gates è un tema finora molto trascurato nella lotta ai cambiamenti climatici.
Il Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNP) ha stimato che il livello di spesa per l’adattamento necessario nei Paesi in via di sviluppo sarà di 140-300 miliardi di dollari all’anno entro il 2030, di cui la metà spesi in due sole aree: agricoltura e infrastrutture. Bisogna aiutare i contadini a gestire siccità e alluvioni, ad esempio – come sta facendo la fondazione di Bill & Melinda Gates – sviluppando e fornendo semi per piante più resistenti a questi eventi.
Ci sono già prodotti che aiutano le piante di ogni tipo a sopravvivere con meno acqua. Altri offrono sostanze che stimolano le piante a fertilizzarsi da sole, sfruttando le proprietà azotofissatrici di alcuni batteri. Un’altra idea comune è quella di manipolare i messaggeri biochimici delle piante per indurle a crescere più velocemente o a produrre più semi o frutti.
Bisogna costruire infrastrutture (come fogne migliori o sistemi di early warning) adatte contro ondate di calore, tornadi e alluvioni.
Queste somme superano la spesa in corso. La Climate Policy Initiative, una ONG, calcola che nel 2019 e nel 2020 sono stati investiti circa 46 miliardi di dollari all’anno per l’adattamento a livello globale. Se si toglie quello speso nei Paesi sviluppati, l’Unep stima che l’investimento nei Paesi in via di sviluppo sia pari a un quinto o un decimo di quello necessario. Inoltre, la stima del fabbisogno è in aumento; man mano che vengono completati altri sonnellini, vengono identificate esigenze precedentemente non considerate.
Nei Paesi ricchi, molti adattamenti avvengono in modo quasi invisibile, come ovvio, senza essere necessariamente etichettati come tali. Se il clima diventa più caldo, la gente alza l’aria condizionata e innaffia di più i giardini. Se questo fa aumentare la domanda di energia o di acqua, le aziende costruiscono più centrali elettriche e impianti di trattamento. Se le cose vanno male, ad esempio un incendio o un’alluvione, spesso c’è un’assicurazione che paga il conto.
Tali calamità inducono anche i governi ricchi a pianificare con maggiore attenzione i disastri naturali, riducendo i danni la volta successiva. Le grandi imprese, invece, sono abituate a gestire l’incertezza: i potenziali cambiamenti climatici sono semplicemente un’altra variabile per la quale devono pianificare. Questo non significa che l’adattamento pianificato nel mondo ricco non sia necessario, o che sia una cosa ovvia, o che sia in grado di far fronte a tutto ciò che un clima mutato gli propone. Significa però che è molto più facile.
Se si parte da una situazione di svantaggio, come succede nei Paesi poveri o in via di sviluppo, però, l’adattamento pianificato diventa una priorità – non ci si può aspettare che parti sostanziali di esso vengano realizzate nel normale corso delle cose – e più difficile da organizzare. Questo non significa che i governi, le imprese o le persone non rispondano ai cambiamenti climatici. Significa che sono meno capaci di farlo bene o in modo efficiente. Le persone che perdono il proprio reddito e diventano dipendenti dall’elemosina mettono a dura prova la capacità dei governi già sotto pressione.
Perché dobbiamo aiutare i paesi poveri
La maggior parte delle analisi sulle future calamità climatiche nei Paesi in via di sviluppo si concentra sugli impatti locali. In pratica, un minore adattamento e una maggiore sofferenza nei Paesi poveri avranno inevitabilmente conseguenze in luoghi più ricchi. Come minimo, la proliferazione di baraccopoli allagate e campi aridi aumenterebbe la pressione sui governi ricchi affinché spendano di più per i soccorsi in caso di calamità, un investimento molto meno produttivo dell’adattamento per prevenire i disastri.
Ma con ogni probabilità le conseguenze per il mondo ricco sarebbero molto più gravi.
I prezzi degli alimenti di base potrebbero aumentare. Le catene di approvvigionamento subirebbero molteplici rotture. E poi c’è lo spettro dei rifugiati climatici indesiderati.
Ma c’è anche un’impellente ragione morale per cui i Paesi ricchi dovrebbero fare di più per aiutare quelli poveri ad adattarsi. Le persone che soffrono di più a causa del cambiamento climatico sono quelle che hanno fatto meno per causarlo. Ci vuole denaro sia per generare emissioni industriali sia per adattarsi alle loro conseguenze. I Paesi poveri non stanno facendo molto né l’uno né l’altro. Lasciare che siano loro a soffrire per il disordine creato dal mondo ricco e dai Paesi a medio reddito è come chiedere agli abitanti di Haiti, del Niger e del Nepal di pagare per decarbonizzare l’approvvigionamento energetico dell’America e dell’Europa.
Conclusioni
Gli scienziati del clima temono che un pianeta iper-ingegnerizzato, mentre continuiamo a immettere in atmosfera gas climalteranti, non sia la soluzione ideale. Potrebbero esserci effetti non voluti, sconosciuti e rischiosi sia climatici che sulla biosfera.
Il limite di 1.5°C al momento è però irrealistico a causa della lentezza nel prendere decisioni, nelle scelte ondivaghe e nei proclami raramente seguite dai fatti o dalle attività eccessivamente timide. Eppure ci sono dieci anni di tempo, l’urgenza sarebbe d’obbligo.
La geoingegneria solare per esempio richiede 15 anni per essere messa a punto. Dovrebbero migliorare e diventare più precisi i modelli sulle possibili conseguenze in termini di temperature regionali e modelli di precipitazioni, sicurezza idrica, rese agricole, tempeste tropicali e salute umana. “Abbiamo cinque anni per produrre un nuovo insieme di studi”, afferma Ricke.
Se il programma solar geoengineering avesse un avvio lento, rischierebbe di bloccarsi. L’urgenza attuale rimane imboccare la via maestra: ridurre le emissioni di CO2 e gas climalteranti, come fa la First Movers Coalition. E nel frattempo investire in ricerca e sviluppo, sia per agire su questi fronti sia per giungere alle centrali nucleari di quarta generazione. In ogni caso bisogna fare presto e bene perché non abbiamo un Pianeta B a disposizione.
Due tecnologie contro i cambiamenti climatici
Al Cop27 si è parlato anche di due tecnologie considerate ancora acerbe, ma il cui ruolo potrebbe mostrarsi decisivo.
La rimozione della CO2
Innanzitutto serve un’urgente accelerazione nell’industria di rimozione della CO2. Abbiamo due decenni di tempo. Bisogna rimuovere un miliardo di tonnellate di anidride carbonica entro il 2030, accelerando per il 2050 al ritmo di rimozione di 6 miliardi di tonnellate all’anno. Significa che la rimozione dovrebbe essere il doppio della produzione annuale di gas naturale che si attesta a quota 3.2 miliardi di tonnellate all’anno.
La geoingegneria solare
Esiste anche un’opzione più radicale: la geoingegneria solare (solar geoengineering) ovvero la modifica della radiazione solare che consiste in una sorta di ingegneria climatica per riflettere la luce solare nello spazio esterno, contenendo o addirittura invertendo il cambiamento climatico. Meno radiazioni solari, meno riscaldamento climatico.
Il metodo è considerato l’estremo piano B. Comporta la diffusione di aerosol artificiali riflettenti per mitigare l’incidenza e l’assorbimento dell’insolazione sulla superficie terrestre. Ciò provocherebbe un raffreddamento pari all’effetto dei gas climalteranti. La riduzione dell’insolazione, come dopo una grande eruzione vulcanica, corrisponde a un aumento della radiazione solare riflessa.
La radiazione solare riflessa potrebbe crescere con interventi sulla riflettività delle aree urbane, della vegetazione o dei deserti.
L’approccio più seguito prevede di diffondere solfuri in stratosfera, per decenni o centinaia di anni, il cui effetto climatico sarebbe simile a quello dei solfuri emessi dalle eruzioni vulcaniche.
Katharine Ricke, ricercatrice dell’Università della California di San Diego, esperta di solar geoengineering, stima che un raffreddamento di 0.3°C – necessario per un limite di 1.8°C fino a 1.5°C – richiederebbe 3 milioni di tonnellate di solfuri all’anno in stratosfera. Servirebbe anche una nuova classe di aeroplani ad alta quota per diffonderli a quell’altezza e monitorare ciò che accade in stratosfera. Dunque è necessaria anche una nuova supply chain.