Anche questa volta l’accordo trovato alla Cop28 tra tutti i partecipanti è migliore rispetto al disastro annunciato nei lavori preparatori, ma comunque inadeguato rispetto alla portata e all’urgenza della crisi climatica in corso.
Cop28: bilancio finale, dal phase out al transitioning away
Il testo dell’accordo dice di abbandonare i combustibili fossili, ma con una “transizione ordinata, giusta ed equa anche per i paesi produttori” (transitioning away). Si parla del concetto ma si ammorbidisce il testo per non parlare chiaramente di “uscita definitiva dalle fonti fossili” (phase out), visto che non si potevano scontentare del tutto i paesi produttori (Arabia Saudita ed Emirati Arabi in primis, ricordo che la COP28 era proprio a Dubai).
Si invita ad “accelerare la riduzione graduale del carbone” senza sancire una vera mannaia o almeno un’indicazione chiara per il phase out dalla fonte fossile più pericolosa per il riscaldamento globale (il carbone, appunto). Perché altrimenti India e Cina avrebbero picchiato i pugni sul tavolo.
E così via: tanti “accelerare” e “ridurre” che vanno nella giusta direzione ma senza impegni coraggiosi e troppo vincolanti.
Il problema di fondo
Alla luce di tutto questo, vorrei riproporre e aggiornare una considerazione di base che avevo presentato già alla COP 9, l’ultima in cui ho partecipato come speaker. Era il lontano 2003, ma purtroppo mi sembra ancora molto attuale.
C’è un problema di fondo, una questione insita nel modello: una crisi urgente non può essere risolta in maniera efficace con uno strumento che cerchi di mettere d’accordo circa 200 governi del mondo con agende totalmente diverse e per definizione in conflitto tra di loro.
Per quanto si possa avere fiducia nei processi democratici, credo sia indispensabile valutarne anche i limiti.
Quello che è successo negli ultimi decenni purtroppo conferma i dubbi: nonostante si siano incontrate annualmente decine di migliaia di persone in posti diversi del mondo per trovare soluzioni condivise, in realtà si sono generate soprattutto grandi delusioni in chi aveva un genuino interesse nella soluzione del problema.
E questo avviene proprio perché un tale processo gestito da tanti attori così diversi non può che giocare sempre al ribasso, visto che ci sarà sempre qualcuno impegnato a rovinare la festa ed invalidare le migliori ambizioni con qualche termine inserito sapientemente nelle pieghe dei testi.
E infatti tutti gli accordi partoriti dalle COP hanno sempre evitato norme vincolanti nella misura dei risultati e nelle pene eventuali per chi sgarra.
Se questa era la mia posizione nel 2003, oggi sono ancora più convinto che, senza abbandonare questo percorso, vadano anche cercate strade diverse: lo scenario geopolitico è cambiato considerevolmente in questi vent’anni e purtroppo nella direzione sbagliata. Le tensioni tra gli stati del mondo sono esplose nel numero e nell’intensità. Di conseguenza anche l’intesa che poteva intravedersi tra le grandi potenze trainanti è svanita di fronte a questioni percepite come più urgenti come i conflitti armati e da situazioni contingenti, come il bilancio interno da chiudere nei mesi a venire o situazioni economiche in cui far prevalere la logica del “my country first”.
In uno scenario siffatto, più simile a un “tutti contro tutti” che a un parlamento coeso, cercare un consenso condiviso pare impresa non solo difficile ma totalmente utopistica.
Maggiori sono le tensioni e i fronti aperti tra i Paesi partecipanti e minori sono le possibilità di costruire insieme azioni coraggiose e visionarie.
La necessità di coinvolgere tutti: ma senza subire i veti incrociati
È sacrosanto e indispensabile cercare di coinvolgere tutti, visto che il problema è globale. E a maggior ragione è giusto cercare di coinvolgere anche i petrostati come gli Emirati Arabi Uniti o il grande mondo della finanza. Vanno coinvolti tutti perché serve mobilitare risorse ingenti. Ma non si può ogni volta rimanere prigionieri di veti incrociati che hanno il solo effetto di rimandare ogni vera decisione al prossimo giro.
Nello scenario migliore le COP dovrebbero essere dei palcoscenici creati per offrire visibilità mondiale ai progetti migliori, ai governi più coraggiosi e ambiziosi, alle alleanze più virtuose.
Un palcoscenico per chi ha buttato il cuore oltre l’ostacolo e condividere quella soluzione per allargarla ad una platea più vasta grazie ad accordi strategici tra vari stati.
Nella realtà distopica che stiamo vivendo invece avviene spesso il contrario.
Come nei primi giorni della COP, in cui il presidente stesso designato (Al Jaber, amministratore delegato di Adnoco, un colosso petrolifero statale), ha sminuito i risultati degli scienziati che doveva difendere e sembrava anteporre gli interessi del proprio Paese a quelli dell’istituzione internazionale che doveva rappresentare. Il pasticcio è poi rientrato con un chiarimento, ma si sono palesati due problemi: non solo abbiamo scelto un modello in cui si cerca di raggiungere un compromesso difficilissimo da trovare, ma abbiamo anche deciso una sede come Dubai.
Poteva essere una buona idea solo se si fosse avuto un accordo blindato con gli Emirati per fare un annuncio epocale.
Così non è stato e quindi si è creato l’effetto opposto. Ben 2.500 lobbisti delle fossili presenti ed ogni eventuale dissenso stroncato sul nascere quando ritenuto troppo fastidioso. Tipo ritirare il badge d’ingresso ad una bambina di 12 anni ritenuta troppo attiva nel ricordare che lei nel futuro ci sarà, ed è preoccupata.
Alla fine il risultato appena raggiunto, come anticipato, è migliore delle attese ma di sicuro non si può parlare di “svolta epocale”. Perché più che le dichiarazioni di intenti ormai servono azioni chiare e veloci.
Conclusioni
Non è assolutamente mia intenzione sminuire alcuni risultati che comunque ci sono stati e che dimostreranno la propria portata nei prossimi mesi.
Ma non posso condividere l’entusiasmo del presidente Al Jaber che ha parlato di “accordo storico” o di John Kerry che ha parlato di “risultato straordinario”. Per me il vero risultato “storico” di questa COP28, emerso con prepotenza, è l’operazione di riposizionamento dei Paesi del Golfo sullo scacchiere geopolitico internazionale.
In un momento di confusione generale in cui sembra esser saltato il tradizionale equilibrio stabilito dalle superpotenze storiche (USA, Cina, Russia), sono proprio questi Paesi a voler rimescolare le carte e farsi vedere attivi e decisivi sulla scena internazionale su più fronti (lo sport, le guerre, la prossima Esposizione Universale e anche la crisi climatica).
Mentre le soluzioni governative a livello internazionale rimangono ad oggi un pannicello tiepido, possiamo guardare, paradossalmente, al settore privato. La consapevolezza ambientale diffusa nei cittadini-consumatori richiede comportamenti sempre più virtuosi alle aziende e queste ultime, si spera, potrebbero superare per coraggio e velocità d’azione i propri governi.