La città di Boston ha compiuto un grosso sforzo per diventare più smart. Non si è limitata a riempirsi di tecnologia, posticipando a fasi successive l’identificazione delle applicazioni davvero utili. Il cuore del suo approccio sta nell’uso intelligente dei big data; anzi – meglio – degli open data. Ma soprattutto sta nel metodo. Prima le analisi, lo studio dei comportamenti, la raccolta dei dati – di moltissimi dati – provenienti dalle fonti più eterogenee: 5 anni di raccolta sul campo coinvolgendo 5.000 soggetti presi a campione. Poi una lettura profonda per trovare correlazioni, intuizioni: per “connect the dots” come suggeriva Steve Jobs nel suo famoso discorso all’Università di Stanford. Solo dopo aver trovato comportamenti emergenti del vivere urbano e averne compreso specificità, criticità e motivazioni, iniziare a generare opzioni tecnologiche, inizia a pensare e a produrre soluzioni. E allora da questo approccio progettuale nascono servizi come “Boston green”, una app che fornisce informazione sugli spazi Verdi urbani e su come raggiungerli. Oppure si identificano soluzioni per aumentare il numero di studenti che vanno a scuola a piedi. Oppure ancora l’uso di dati sulla mobilità provenienti da molte fonti (perfino dai bike rental) per ridurre la congestione del traffico.
La città di Boston ha quindi rimesso l’utente al centro, ne ha studiato i comportamenti, ne ha compreso i bisogni e i desideri e poi ha costruito un ecosistema di innovazione capace di produrre soluzioni concrete e utili. Ha compreso che la dotazione tecnologica – reti, sensori, soluzioni cloud, …. – non è sufficiente per rendere una citta smart. Anzi alle volte non è neanche la condizione necessaria. Il mondo dei dati non richiede molta banda. E – come noto – le killer application della larga banda sono il download e lo scambio di film e filmati – attività certamente divertente ma che ha molto poco a vedere con la smartness di una città.
Certamente, quindi, l’intelligenza che può nascere dall’uso sistematico dei dati dei comportamenti urbani è molto rilevante e può certamente risolvere moltissimi problemi che sempre più spesso infelicitano il nostro vivere urbano.
Prendiamo il caso dei parcheggi. A Boston – come in moltissime città – l’esperienza di trovare un parcheggio può essere crudele. Christos Cassandras, professore di ingegneria alla Boston University – ha lavorato a una soluzione che avverte in tempo reale un auto in cerca di parcheggio comunicando il luogo disponibile più vicino, “prenotandolo” e guidando la macchina per raggiungerlo. È un esempio classico di visione smart dove l’utente – sempre più inconsapevole – viene guidato fiduciosamente dal Grande Fratello dell’efficienza urbana.
Ma davvero noi cerchiamo solo efficienza. Saranno vivibili le città governate (razionalmente…) dalle macchine (con il loro armamentario di software e big data)? E quando si manifesteranno gli errori software o i malfunzionamenti hardware (peraltro in forte crescita), che faremo ? E se i sistemi urbani incominceranno ad essere attaccati da hacker, criminali o terroristi? Lo scenario non è poi così futuristico. Qualche mese fa un gruppo di studenti – per dimostrare la possibilità – si è impossessato del sistema di navigazione di una nave (che usa sistemi molto simili ai navigatori che usiamo noi sulle nostre automobili) e ha incominciato – sostituendosi al suo algoritmo e ai suoi dati di posizionamento – a guidare la nave in un’altra direzione senza oltretutto che il capitano se ne accorgesse.
Si incomincia allora a porre il problema della resilience di un sistema urbano, dove l’efficienza è solo una delle componenti – anche se molto importante. Il filosofo del Novecento Hans Jonas suggerisce di adottare quello che lui chiama “principio di precauzione”, metodo cardine di un’etica razionalista applicata in particolare ai temi dell’ecologia e della bioetica e che andrebbe applicato ad ogni gesto dell’uomo che “deve” prendere in considerazione le conseguenze future delle sue scelte e dei suoi atti.
Ciò che questo metodo suggerisce è di confutare e tenere a bada quella che Jonas chiama la “esagerazione tecnica”, rappresentata dall’utopia del progresso illimitato e dall’arroganza filosofica che c’è dietro l’idea del dominio su una natura concepita come ciò che è disponibile ad essere manipolato a piacere.
Non si tratta dunque di essere apocalittici o contro l’innovazione. Ma è oramai venuto il momento di abbandonare il fondamentalismo digitale che vede nelle soluzioni tecnologiche la risposta a tutti i problemi e reintrodurre – anche nell’innovazione tecnologica – un po’ di senso critico. Proprio perché – come osserva Jonas – «la dinamica del progresso tecnologico mondiale in quanto tale racchiude in sé, tendenzialmente se non programmaticamente, un utopismo implicito. Questo impone una critica approfondita dell’ideale utopico.»
Contrariamente all’Italia, in America il dibattito è già iniziato e si sta surriscaldando. Per rimanere al caso di Boston, Courtney Humphries ha pubblicato su The Boston Globe del 5 maggio 2013 un articolo dal titolo “The Too-Smart City” dove mette in luce il dibattito in essere, i diversi punti di vista e gli aspetti più delicati. E oltre ai discutibili modus vivendi che queste soluzioni smart non solo suggeriscono ma impongono, entrano i temi della privacy – sempre più violata per avere più big data possibili – oppure la questione della proprietà (spesso privata) di queste grandi piattaforme “intelligenti” che orienteranno i nostri comportamenti. D’altra parte quanto più una tecnologia è potente tanto più è anche potenzialmente problematica, possiede molti lati oscuri. Colpisce allora che in Italia – contrariamente agli Stati Uniti – il dibattito è unicamente concentrato sulla richiesta di sussidi allo Stato per costruire reti o diffondere PC e lavagne elettroniche nelle scuole, sull’attesa spasmodica dell’Agenda digitale come vero motore del rilancio dell’economia, sulla diffusione degli interventi di alfabetizzazione digitale che finalmente ridurranno l’ignoranza digitale, vera causa della crisi in cui versiamo. Mentre la componente critica viene lasciata totalmente in mano alle frange antimoderne e ideologizzate che creano fenomeni come i Notav, dove un’acritica paura della tecnologia e del futuro si unisce a considerazioni più egoistiche e spicciole che il pragmatismo anglosassone riunisce in una sigla: NIMBY e cioè Not In My BackYard. Non è che ci stiamo perdendo qualcosa ?