La decarbonizzazione dell’economia mondiale non è un pranzo di gala. Sappiamo che costerà decine di trilioni di dollari, secondo le cifre emerse al vertice annuale delle Nazioni Unite sul clima che si è tenuto a Baku, in Azerbaigian. Ma le stime potrebbero essere enormemente gonfiate.
Donald Trump, il presidente eletto degli Stati Uniti, che ha promesso il ritiro degli Usa dall’accordo di Parigi, per la seconda volta, considera la transizione ecologica uno spreco colossale che “danneggia gli americani e costa una fortuna”.
Gli attivisti per il clima, per la maggior parte, ritengono che valga la pena la spesa per ridurre emissioni globali, se messa a confronto ai danni catastrofici che un cambiamento climatico incontrollato potrebbe infliggere.
Secondo la bozza di Cop29, è alla portata l’obiettivo dei 250 miliardi di dollari aiuti all’anno ai Paesi poveri al 2035. In attesa di sapere se sarà questa la decisione vincolante, gli scienziati rendono noto quanto costerà il non fare niente e cosa c’è in gioco.
Ma a fare la differenza saranno l’innovazione tecnologica, le regolamentazioni, la collaborazione a livello regionale per risolvere problemi comuni.
Le cifre in gioco del cambiamento climatico: le stime
La rete di esperti sui cambiamenti climatici e l’ambiente MedECC, insieme all’Unione per il Mediterraneo (UpM), il 18 novembre a Baku ha presentato un rapporto secondo cui, gli impegni per mitigare i rischi del cambiamento climatico e di adattarsi al suo impatto, da parte dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sono ancora lontani dall’essere sufficienti per assicurare un futuro vivibile.
Venti milioni di persone residenti nel bacino del Mediterraneo potrebbero dover lasciare le loro case a causa dell’innalzamento del livello dei mari (dai 15 ai 33 cm entro il 2050, rispetto al 1995-2014) e la moltiplicazione della frequenza e dell’intensità dei fenomeni meteorologici estremi, di cui abbiamo vissuto recentemente un tragico assaggio a Valencia. “Un terzo della popolazione del Mediterraneo vive in prossimità immediata del mare, che la rende una delle regioni più esposte al mondo ai rischi di inondazione”, spiega il documento. Senza misure urgenti, gli impatti peggioreranno in futuro.
L’Economist, stimando i costi dellas transizione energetica verso un mondo a emissioni zero, prevede costi che spaziano da circa 3 miliardi di dollari all’anno a quasi 12 miliardi di dollari all’anno, ma sono cifre probabilmente irrealistiche e gonfiate. Ecco perché.
Quattro motivi per cui le cifre in gioco sono sovrastrimate
Le cifre in gioco con la decarbonizzazione potrebbero essere eccessivamente alti a causa di quattro ragioni.
In primo luogo, gli scenari previsti tendono a prevedere tagli alle emissioni troppo rapidi (e quindi più costosi del necessario). In secondo luogo, presuppongono che la popolazione e l’economia del mondo, e in particolare dei Paesi in via di sviluppo, cresceranno in modo inverosimilmente rapido, stimolando un consumo energetico a macchia d’olio. Ma la crescita della popolazione mondiale sta rallentando, a causa di fenomeni quali l’urbanizzazione, il tasso di natalità e invecchiamento., oltre all’impatto del Covid sul numero delle nascite. In meno di un secolo, la popolazione globale perderà l’equivalente di tre volte le dimensioni degli Stati Uniti.
In terzo luogo, tali modelli hanno il difetto di sottovalutare la velocità con cui si ridurranno i costi di tecnologie cruciali a basse emissioni di carbonio, come l’energia solare.
Infine, in quarto, questi modelli tendono a sottostimare il fatto che, comunque vada, il mondo dovrà effettuare investimenti massicci per espandere la produzione di energia, sia essa green o no. Pertanto, la spesa in conto capitale necessaria per raggiungere l’obiettivo principale fissato dall’accordo di Parigi – mantenere il riscaldamento globale “ben al di sotto” dei 2°C – non dovrebbe essere un elemento isolato, ma messo a confronto con scenari alternativi in cui la crescente domanda di energia è soddisfatta da tante tipologie di combustibili, non solo da rinnovabili.
Lo scenario più realistico
Secondo l’Economist, la spesa incrementale per ridurre le emissioni sarà probabilmente inferiore a un trilione di dollari all’anno, vale a dire meno dell’uno per cento del PIL globale.
Non sono spiccioli, ma nemmeno una chimera inaccessibile. Questo può sembrare ottimistico, ma probabilmente è ancora una stima eccessiva. Infatti corregge solo il quarto difetto della maggior parte delle stime: l’incapacità di tenere conto del costo del business as usual.
Un rallentamento economico, una tecnologia meno costosa e obiettivi più modesti per il raggiungimento della Net zero potrebbero contribuire a tagliare ulteriormente il costo.
Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (Aie), un think tank dei Paesi ricchi, nel 2024 gli investimenti nell’energia ammonteranno a circa 3 miliardi di dollari, pari al 3% del PIL mondiale. Si tratta di un record, alimentato in parte dagli investimenti ciclici nel settore del petrolio e del gas e in parte dall’aumento degli investimenti nella generazione di energia green, che si è attestato sui livelli degli anni 2010, in crescita da allora. Circa tre quarti degli investimenti provengono da fonti private e un quarto dai governi, in linea con la tendenza recente.
Gli investimenti green
Nel 2015 si investiva meno nelle tecnologie pulite che nei combustibili fossili. Oggi la tecnologia green riceve quasi il doppio dei finanziamenti. Quest’anno l’energia solare dovrebbe rappresentare 500 miliardi di dollari, più di ogni altra fonte di generazione messa insieme.
Queste cifre includono gli investimenti in veicoli elettrici (EV), pompe di calore e miglioramenti alle reti elettriche, che aprono la strada a riduzioni di emissioni, a patto che sfruttino l’elettricità proveniente da fonti a basso contenuto di carbonio. La diffusione dei veicoli elettrici in Cina, per esempio, riduce la domanda globale di petrolio, ma contribuisce solo in minima parte alla riduzione delle emissioni, poiché le batterie dei veicoli sono caricate dalla rete elettrica cinese, che, in certi periodi dell’anno, è anche alimentata a carbone (quando non sfrutta l’idroelettrico, le rinnovabili o il nucleare).
Le prospettive per il clima
Nel 2015 il “Rapporto sul divario di emissioni” che il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) redige prima di ogni vertice sul clima prevedeva che, sulla base delle politiche allora in vigore in tutto il mondo, le temperature medie globali sarebbero state di quasi 5°C più alte rispetto all’epoca preindustriale entro la fine del secolo. Il rapporto di quest’anno indica un aumento di poco più di 3°C.
Altri report sono ancora più ottimisti. L’AIE ritiene che le politiche attuali produrranno un riscaldamento di circa 2,4°C. Bloomberg New Energy Finance (BNEF), una società di ricerca, pensa che le politiche attuali e il calo dei prezzi delle tecnologie verdi porteranno a un riscaldamento di 2,6°C entro il 2050. Wood Mackenzie, una società di consulenza, prevede 2,5°C entro il 2100 come ipotesi di base.
Nessuna di queste proiezioni, purtroppo, stima che il mondo manterrà il riscaldamento al di sotto dei 2°C, come previsto dall’accordo di Parigi, né tanto meno al di sotto di 1,5°C, l’obiettivo che i firmatari hanno dichiarato di voler raggiungere.
Tuttavia sono molteplici le opinioni sull’entità degli investimenti necessari per raggiungere questi obiettivi. Oggi la prospettiva di rimanere al di sotto di 1,5°C è più costoso che rimanere al di sotto dei 2°C. Centrare l’obiettivo di 1,5°C è quello che di solito riceve maggiore attenzione.
Le previsioni degli investimenti per azzerare le emissioni entro il 2050
Per stimare i costi, gli economisti combinano un modello di economia e uno scenario che rappresenta il raggiungimento di un determinato obiettivo. Obiettivi di temperatura, come i “percorsi” verso 1,5°C o 2°C definiti dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), un organismo delle Nazioni Unite. Oppure potrebbe essere un obiettivo per il volume globale di emissioni in un determinato momento.
Lo scenario Net zero dell’AIE presuppone che, entro la metà del secolo, tutti i gas serra immessi nell’atmosfera saranno compensati da assorbimenti equivalenti. Si tende a considerare l’azzeramento netto entro il 2050 come un risultato approssimativamente equivalente al raggiungimento dell’obiettivo di 1,5°C, anche se si ammette un superamento della temperatura che però si riduce man mano che aumenta la rimozione del carbonio dall’atmosfera.
I modelli economici
Secondo i modelli dell’AIE, per raggiungere le zero emissioni entro il 2050, saranno necessari 5 miliardi di dollari all’anno di investimenti in energia pulita entro il 2030. Si tratta di più del doppio degli investimenti annuali in energia pulita (pari a 2 trilioni di dollari all’anno) e superiori di due terzi rispetto alla stima degli attuali investimenti totali nel settore energetico.
Anche il Bnef prevede 5,4 miliardi di dollari all’anno per questo decennio. L’istituto di ricerca McKinsey Global Institute stima in 9,2 miliardi di dollari il costo annuale dell’azzeramento delle emissioni entro il 2050. Per Wood Mackenzie sfiora i 3 miliardi di dollari. L’Unep prevede che, entro il 2035, serviranno tra i 7 e i 12 miliardi di dollari all’anno per limitare il riscaldamento a 1,5 °C.
Spostare l’obiettivo da 1,5 a 2 gradi C
Questa ampia divergenza deriva dalle diverse metodologie di modellazione. Qualunque sia l’approccio, tuttavia, l’applicazione di qualsiasi modello a scenari quasi impossibili produce risultati sospetti. E limitare il riscaldamento a 1,5°C è, in linea di massima, impossibile.
Il Global Carbon Budget, un consorzio di scienziati, stima che le temperature raggiungeranno permanentemente quel livello in sei anni al ritmo attuale delle emissioni. Per frenare ulteriori cambiamenti climatici, si dovrebbe porre fine a tutte le emissioni di gas serra entro questo periodo di tempo. Un compito non solo arduo ma proibitivo, se non impossibile.
Mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C è invece alla nostra portata, fortunatamente. Secondo le stime del Global Carbon Budget, al ritmo attuale di emissioni il mondo impiegherà 27 anni per raggiungere tale aumento delle temperature.
Ciò consentirebbe una transizione più lenta e quindi meno costosa. Tuttavia, l’aspirazione di contenere l’aumento delle temperature entro 1,5°C dell’accordo di Parigi è stara una grande vittoria dai Paesi più vulnerabili e dagli attivisti climatici.
Tre anni dopo, l’IPCC ha prodotto un ampio rapporto che dimostra che anche un riscaldamento di 1,5°C produrrebbe danni gravi e che 2°C sarebbero catastrofici per molti Paesi ed ecosistemi. L’entità e la gravità dei danni aumentano inesorabilmente con la temperatura. Ma, attualmente, non è di grande aiuto dimostrare che raggiungere l’impossibile è irrealizzabile e costoso.
La questione della crescita
Un altro problema dei modelli è rappresentato dalle ipotesi sulla crescita economica. Matt Burgess dell’Università del Wyoming osserva che le proiezioni dell’IPCC tendono a sovrastimare la crescita economica sia nel mondo ricco che in quello povero. Le previsioni del PIL pro capite si basano sulla relazione storica tra il suo livello assoluto e il suo tasso di crescita.
L’ipotesi dell’AIE di una crescita globale media annua del 2,7% fino al 2050, sebbene in linea con l’esperienza recente, potrebbe invece rivelarsi ottimistica, basata sulle proiezioni di crescita demografica dell’ONU, che non hanno però previsto il calo delle nascite nei Paesi in via di sviluppo. Un calo della popolazione significa però minore crescita economica, a parità di altre condizioni. E un pianeta più vecchio, con meno persone in età lavorativa, probabilmente registrerà un rallentamento della crescita.
Calano i costi e la domanda di energia
Ma se si allentasse l’obiettivo di temperatura, si ridurrebbero i costi, Analogamente vale per la riduzione della domanda di energia come risultato di una crescita economica più lenta.
Ma un mondo con una crescita più bassa è negativo sotto molti punti di vista, soprattutto per i poveri. Solo una crescita più elevata sarebbe un vantaggio per il mondo, soprattutto nei Paesi più poveri, anche se si dovesse spendere più soldi per la decarbonizzazione. Ma basare le stime del costo della decarbonizzazione su una visione velleitaria dei tassi di crescita le rende eccessivamente costose. Per avere un quadro preciso, convienenessere realistici.
Il ruolo dell’innovazione nella decarbonizzazione dell’economia
I modellatori economici sovrastimano l’adozione di alcune tecnologie (come la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica, che consiste nell’aspirare l’anidride carbonica dalle ciminiere delle centrali elettriche e delle fabbriche e riporla al sicuro nel sottosuolo) e sottostimano significativamente il calo dei costi di altre, in particolare dei pannelli solari e delle batterie al litio.
Rupert Way dell’Università di Cambridge e altri hanno modellato un sistema energetico in cui il costo dell’energia solare, dell’energia eolica, delle batterie al litio e degli elettrolizzatori di idrogeno scende secondo la “legge di Wright”. Significa che , ad ogni raddoppio della produzione i costi unitari, diminuiscano di una percentuale fissa, derivata dall’esperienza passata. In questo scenario le emissioni diminuiscono così rapidamente che anche l’obiettivo di 1,5°C può essere raggiunto con costi minimi.
In pratica, nei settori in rapida crescita si formano sempre dei colli di bottiglia che ostacolano la diffusione delle nuove tecnologie nonostante il calo dei costi. Per quanto l’energia solare sia diventata economica, per esempio, in molti Paesi il processo di allacciamento alla rete elettrica è ancora lento.
Allo stesso modo, ci sono meno di due dozzine di navi al di fuori della Cina in grado di installare un parco eolico offshore. Tutte sono prenotate con anni di anticipo.
Nell’ultimo decennio però le previsioni dell’AIE sulla capacità di generazione da fonti rinnovabili si sono ripetutamente rivelate molto inferiori.
Decarbonizzazione: i costi del non fare
Un altro fattore che esagera il costo della decarbonizzazione è l’incapacità di considerare l’ipotesi controfattuale dei costi del non fare (in cui la decarbonizzazione non avviene).
Wood Mackenzie ha elaborato uno scenario di “transizione ritardata”, in cui le tensioni commerciali e le lotte geopolitiche portano i Paesi a ritardare la transizione verso un sistema energetico a zero emissioni di carbonio. Ciò porterebbe il riscaldamento a un aumento di 3°C. Significherebbe una stima di 52 miliardi di dollari di investimenti nel sistema energetico entro il 2050. La stessa società di consulenza stima il costo per raggiungere i 2°C in 65 miliardi di dollari.
In altre parole, in termini di investimenti energetici, il costo di non fare quasi nulla per il riscaldamento globale non sarebbe molto inferiore al costo di limitare il riscaldamento globale a 2°C.
I 13 miliardi di dollari in più che Wood Mackenzie ritiene sarebbero necessari in 25 anni si traducono in circa lo 0,5% dell’attuale PIL mondiale all’anno. E meno con la crescita dell’economia mondiale.
Ciò è in linea con un documento pubblicato nel 2018 da David McCollum. Secondo lo scienziato del clima, il costo incrementale della decarbonizzazione del sistema energetico per raggiungere l’obiettivo dei 2°C è pari a 320 miliardi di dollari all’anno, equivalenti a 400 miliardi di dollari attuali.
Anche la stima dell’Unep – di un costo annuo di 7-12 miliardi di dollari per raggiungere l’obiettivo di 1,5°C – si riduce a un valore compreso tra 900 e 2,1 miliardi di dollari, una volta esclusi gli investimenti che avverrebbero comunque. La cifra si ridurrebbe ulteriormente, se si utilizzassero ipotesi meno espansive sulla crescita economica futura.
Le stime dell’Energy Transitions Commission
Tuttavia, la tempistica degli investimenti necessari non è la stessa in un mondo a basse emissioni di carbonio e in un mondo senza. La Energy Transitions Commission, un’iniziativa industriale, ritiene che gli investimenti totali in energia pulita debbano quadruplicare da circa 1 trilione di dollari nel 2020 a 4 trilioni di dollari nel 2040, prima di calare nuovamente. Gli investimenti nei combustibili fossili diminuiranno su una traiettoria simile, riducendo il costo netto e, alla fine, portando a risparmi operativi, grazie alla domanda inferiore di combustibili fossili.
Previsioni più rosee: tre problemi da risolvere
Anche se 1,5°C non è un obiettivo raggiungibile, i modelli suggeriscono anche che spendere di più ora potrebbe portare la Terra a un riscaldamento di 1,8°C o meno. Ridurre il riscaldamento globale di qualche decimo di grado potrebbe infatti ripagarsi da solo, grazie a danni inferiori.
Tre problemi potrebbero tuttavia insorgere compromettere questa rosea prospettiva. Il primo è che, sebbene la decarbonizzazione della produzione di energia e dei trasporti sia l’elemento più importante per mitigare il cambiamento climatico, non è l’unico.
C’è anche l’agricoltura, che è una grande fonte di gas serra come il metano e il protossido di azoto. Le tecnologie che potrebbero contribuire a ridurre queste emissioni sono molto meno consolidate e potrebbero ipotecare il costo futuro della riduzione di queste emissioni.
Il secondo problema riguarda gli incentivi. Le persone che subiranno i danni maggiori dal riscaldamento globale non sono quelle in grado di ridurlo. I Paesi più poveri hanno bisogno di maggiori investimenti, ma non possono permetterseli. Per questo motivo, i 250 miliardi di dollari aiuti all’anno al 2035 è un obiettivo della Cop29.
Il costo del capitale
Ad aggravare la situazione è il costo del capitale. La maggior parte degli scenari climatici presuppone storicamente un unico costo del capitale per l’intera economia globale. Ma i Paesi più poveri, dove il rischio è maggiore, devono affrontare un costo del capitale più alto rispetto a quelli più ricchi.
La Climate Policy Initiative, un think tank, calcola che gli investitori in un parco solare in Germania hanno bisogno di un rendimento del 7% sul capitale investito per andare in pareggio, considerando i costi di prestito. In Zambia i tassi di prestito proibitivi per le imprese fanno salire il rendimento necessario al 38%. Se non è possibile tagliare i costi di finanziamento nei Paesi in via di sviluppo, il prezzo della decarbonizzazione aumenterà.
Il dilemma dei prigionieri
I modelli, quasi per loro natura, tendono al razionale. La politica è meno affidabile da questo punto di vista. Le cose che dovrebbero essere accessibili sono spesso in pratica esorbitanti a causa dell’incompetenza dei fornitori, dei vincoli imposti da altri obiettivi politici e delle frodi.
A volte la sfida verte su come spendere il denaro che i politici accantonano per il clima, dove l’adattamento al cambiamento climatico compete con la sua riduzione. Si tratta di un compromesso davvero difficile, simile al dilemma dei prigionieri.
Quanto meno il mondo nel suo complesso investe nella decarbonizzazione dell’economia, tanto più è razionale, in un dato Paese, destinare una quota maggiore del budget per il clima all’adattamento e non alla mitigazione.
Conclusioni
Il costo della transizione dai combustibili fossili è attualmente esagerato. Non è una coincidenza che sia i negazionisti climatici che gli attivisti parlino di costi elevati. Gli scettici sbandierano numeri allarmanti per non preoccuparsi. Gli attivisti li brandiscono per invocare spesa. In realtà, il cambiamento climatico non è né la fine del mondo né una costosa bufala. Ma è un problema reale e complesso, che tuttavia siamo in grado di affrontare in maniera sostenibile, con pragmatismo e investendo in innovazione tecnologica,