La qualità della nostra vita futura dipenderà in gran parte da come le città sapranno trasformarsi di fronte alle grandi sfide del nostro tempo. Temi come l’immigrazione, il cambiamento climatico, la trasformazione digitale, l’invecchiamento demografico, dovranno trovare risposta nelle città. Se questo non accadrà le città stesse diventeranno lo specchio delle contraddizioni di una società vecchia che ha smarrito senso e vitalità. Le città che vogliamo per il futuro dovranno essere più sicure, tecnologiche, efficienti, in altre parole più intelligenti.
Ma le città, sono organismi sociali con una loro identità, un loro carattere e non tutte si comportano allo stesso modo. Lo dimostrano i risultati della recente ricerca di ICity Rate 2017, promossa da FPA: in Italia abbiamo città intelligenti, capaci di evolvere, ed altre che sembrano incapaci di adattarsi alle nuove sfide creando ambienti vivibili per i loro abitanti. Ma al di là della classifica la ricerca ci dice qualcosa di più, e cioè che per rendere una città più intelligente occorre lavorare contemporaneamente su più leve. La tecnologia da sola non basta: non basta cablare le città, coprirle di sensori e antenne wifi per renderle davvero intelligenti. Non basta neanche digitalizzare i servizi pubblici e rendere intelligenti semafori e cassonetti. Sono misure importanti, potenzialmente utili, ma non bastano: per rendere una città intelligente occorre lavorare contemporaneamente sull’energia, la cultura, il senso civico stesso dei suoi abitanti!
Il Dipartimento Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite prevede che entro il 2050 il 66% della popolazione mondiale vivrà nelle città, nel 1950 era solo il 30%. Mi spaventa questo trend, lo trovo insostenibile, per lo meno se non ripensiamo alla radice le città a partire dalla loro stessa urbanistica. L’idea stessa che abbiamo della città è plasmata da modelli e scelte dei grandi architetti dell’inizio del secolo scorso, modelli che è arrivato il momento rimettere in discussione. Nel 1922 Le Courbusier presentava al mondo la sua città ideale, una città da 3 milioni di abitanti basata su una attenta separazione degli spazi. Come organi di un corpo umano le diverse parti della città dovevano specializzarsi per rispondere a diverse funzioni, formando isole autonome unite da grandi arterie di comunicazione. E così il centro doveva essere il cervello in cui concentrare gli uffici governativi, nelle viscere i centri produttivi dove concentrare l’energia e le fabbriche, e infine gli arti, periferie residenziali in cui gli abitanti potessero riposare.
Una visione suggestiva che trovava significato nella necessità di concentrare l’energia, le tecnologie di trasformazione e i flussi di documenti in luoghi fisici ben precisi. Ma tutto ciò ha ancora senso nell’era digitale? È davvero intelligente svegliarci tutti in quartieri dormitorio per accalcarci (ovviamente nei medesimi orari di punta) in mezzi di trasporto e vie di comunicazione intasate, per arrivare trafelati e stiparci in uffici alveare nei quali condurre attività che potremo realizzare ovunque? E poi è intelligente, sempre negli stessi orari, travasarci negli stessi locali per conquistare un drink fingere svagarci? Ma è davvero questo che intendiamo per condurre una vita sociale intelligente? Non sarà forse ora di accettare stereotipi masochisti e progettarci una città, ed una vita intelligente davvero?
La città che vorrei è una città in cui in ogni quartiere si possa vivere, lavorare, giocare con i propri figli e fare sport, utilizzando gli stessi luoghi. Una città a misura d’uomo, e non di automobile, in cui si possa scegliere di spostarsi e non esserci costretti per sopravvivere. Perché i tempi della nostra giornata non sono più rigidamente frazionati (8 ore per lavorare, 8 ore per riposare, 8 ore per svagarci), nel nostro mondo digitale è possibile inframmezzare momenti di lavoro, svago, socializzazione in luoghi e secondo schemi che noi stessi non sappiamo ne vogliamo prevedere a priori.
Allora perché non ripensare ad una città intelligente, come noi? Una città con luoghi privi di vincoli, uffici belli da abitare, case confortevoli e luoghi pubblici accoglienti dove poter socializzare, collaborare e produrre valore. Sarebbe una città non solo più bella, ma anche più viva, inclusiva, sostenibile.
Ma città così non possono essere progettate “da sole”. Come cellule di un più grande organismo devono interagire ed evolvere, trovando nuovi equilibri su una scala almeno regionale. Un processo lungo ed entusiasmante che richiede molto più che una spruzzata di tecnologia. Richiede una politica lungimirante capace di pensare al bene comune, superando particolarismi e populismi. Richiede una ricerca e una formazione coraggiosa ed etica, capace di creare cultura, competenza, stimoli all’innovazione. Richiede aziende e amministrazioni consapevoli che nelle loro scelte sappiano mettere al centro il benessere delle persone, dei loro clienti e dei loro lavoratori. Un investimento certo, ma un investimento che nel medio periodo è il miglior affare che possiamo fare, per noi, per i nostri figli, per creare la città in cui vorremmo vivere.