Quando si parla di transizione energetica, ultimamente, l’attenzione è concentrata su temi controversi come l’energia nucleare, come l’opportunità o meno di permettere l’installazione di impianti fotovoltaici su suolo agricolo, sull’opportunità di “imporre” la conversione alle auto elettriche o vietare i jet privati. Di energia eolica si parla relativamente poco, di eolico offshore ancora meno. Invece conviene dedicare tempo a questo tema, ecco che cos’è l’energia eolica in mare e perché è un tassello fondamentale per la transizione energetica, essendo un potenziale da sfruttare, un’industria da salvare, una sfida per la classe politica.
Energia eolica offshore: cos’è e perché è importante
Ad oggi il solare fotovoltaico è la fonte energetica (rinnovabile e non) di gran lunga più economica, ed è opinione diffusa tra gli esperti che, nella maggior parte dei sistemi energetici,
fornirà un contributo importante alla produzione di energia a basso impatto di carbonio.
Questo è particolarmente vero nelle regioni più soleggiate, e l’Italia è certamente una di queste.
Pensare però di costruire un intero sistema energetico solamente (o quasi) sul solare fotovoltaico sarebbe ingenuo. La sfida di compensare gli sbilanciamenti giornalieri (i pannelli fotovoltaici producono energia solo di giorno), stagionali (la produzione è molto superiore d’estate rispetto all’inverno), geografici (la produttività e la disponibilità di terreni adatti sono superiori al Sud, ma i consumi sono concentrati al Nord) sarebbe fuori misura, senza
l’integrazione con altre fonti.
In aggiunta, le recenti limitazioni imposte alle installazioni di fotovoltaico a terra su terreni agricoli, sulla cui opportunità si è acceso un forte dibattito, portano a una forte limitazione delle potenzialità di questa fonte energetica.
L’energia eolica potrebbe fornire un grande contributo alla causa.
Attualmente, le installazioni eoliche a terra sono anch’esse una fonte energetica dai costi molto ridotti, e la produzione eolica compensa in modo molto efficace quella fotovoltaica, sia a livello giornaliero che stagionale. Tuttavia, neanche questa strada è facilmente percorribile: vista la natura del territorio e l’orografia del paese, il potenziale eolico a terra in Italia non è particolarmente elevato, e concentrato principalmente nelle regioni del Sud Italia o nelle aree montane: nel
primo caso si ripropone il problema di collegare efficacemente la produzione ai consumatori (si può fare, ma richiede tempo e investimenti), il secondo ha spesso generato forti opposizioni da parte della cittadinanza a causa dell’impatto che questi impianti hanno sul paesaggio montano.
Altre fonti energetiche rinnovabili, come quelle da energia geotermica, da moto ondoso, o idroelettrica, danno ad oggi poche garanzie sulla possibilità di espanderne significativamente la potenza installata nel breve termine a costi competitivi.
I vantaggi dell’eolico offshore
Per questo l’eolico offshore è una delle grandi speranze per la transizione energetica, soprattutto in Italia. Gli impianti eolici offshore sono caratterizzati da una elevata produttività: i venti in mare sono, in media, più intensi e costanti di quanto non accada per i venti a terra.
Inoltre, installare impianti eolici in mare è mitiga fortemente il problema del consumo di
suolo.
Se anche il suolo marino ha certamente il suo valore (anche se è stato mostrato come, in molti casi, le fondazioni per le centrali eoliche offshore abbiamo provocato un aumento della vita sui fondali), il problema del consumo di suolo è certamente più sentito sulla terraferma, soprattutto dal punto di vista dell’accettazione da parte della cittadinanza.
Questo aspetto diventa anche particolarmente rilevante nel caso della tutela del paesaggio. L’impatto delle centrali eoliche offshore sul paesaggio, anche se è anch’esso oggetto di critica da parte di associazioni ambientaliste e comitati locali, è certamente inferiore all’impatto che hanno le stesse sulla terraferma.
Perché i mari italiani non sono costellati di turbine eoliche
In primis, il motivo è da imputare ai costi. In generale, anche presa in conto la maggiore produttività, le centrali eoliche offshore hanno un costo medio dell’energia prodotta (la metrica più usata in questi casi è il levelized cost of electricity, o LCOE) più alto rispetto all’eolico onshore.
Questo è particolarmente vero in Italia, e più in generale nel Mediterraneo, in quanto la maggior parte dei siti ad alta ventosità sono localizzati, a differenza per esempio del mare del Nord, in zone dai fondali profondi.
Inoltre, a parte i costi, sarebbe superficiale far passare l’eolico offshore come una fonte energetica priva di compromessi. Similmente all’eolico onshore, ma in modo ancora più critico, l’eolico offshore ha necessità relativamente elevate di materiali.
Il grosso della massa di un impianto è costituito da cemento e acciaio, la cui produzione ha necessità energetiche rilevanti; la distanza dai centri di consumo comporta un rilevante utilizzo di rame per i cavi elettrici di connessione; e per alcuni materiali molto specifici, come nel caso del neodimio usato per i magneti permanenti, si temono colli di bottiglia nella catena di approvvigionamento.
Infine, anche se l’impatto ambientale di questo tipo di impianti è limitato, non è nullo. Sia durante la costruzione degli impianti che durante la loro operatività, si verifica un incremento locale del traffico di navi, che, a loro volta, sono causa di inquinamento dell’aria, dell’acqua, e acustico.
Infine, anche se spesso l’impatto delle turbine eoliche sull’aviofauna viene esagerato a scopi politici, questo esiste e va mitigato, soprattutto quando gli impianti sono posizionati sulle rotte migratorie.
Lo stato dell’industria eolica offshore
Dopo alcuni anni di rosee speranze di crescita, l’industria dell’eolico offshore ha avuto un importante momento di crisi negli ultimi anni.
Negli scorsi anni, l’eolico offshore sembrava in condizione di mantenere le grandi aspettative che si erano create in relazione allo sviluppo del settore. Con venti forti e costanti e fondali bassi, il Mare del Nord era ed è un luogo ideale per lo sviluppo di impianti eolici offshore: ad approfittarne maggiormente sono stati il Regno Unito e la Germania che, al 2022, avevano rispettivamente 13.6 e 8 GW di potenza installata, con Paesi Bassi (3 GW) e Danimarca (2.3 GW) a seguire.
Al pari dello sviluppo della potenza installata è stata associata, per anni, una riduzione dei costi: il prezzo medio delle aste assegnate nel Regno Unito per l’eolico offshore (in gergo tecnico si parla di CfD, Contract for Difference) sono passate dalle 150 GBP/MWh delle prime aste del 2014-2015 alle 44 GBP/MWh del 2023, un costo dell’energia difficilmente raggiungibile da quasi nessun altra concorrente oggi.
Eppure, negli ultimi anni l’industria ha conosciuto un periodo di forte crisi. Dal 2019 in poi è venuta a mancare quella crescita esponenziale su cui puntavano in molti, e, secondo WindEurope, solo dal 2028 in avanti ci si potrà aspettare un vero e proprio nuovo boom dell’eolico offshore.
Lo scenario extra Europa: il dominio cinese e la crisi occidentale
Uscendo dal continente europeo, la situazione si divide tra due esempi opposti. Mentre gli Stati Uniti arrancano alla ricerca di un boom del settore che appare sempre all’orizzonte ma non si avvicina mai, la Cina sta invece emergendo come una delle maggiori potenze mondiali del settore.
Dal 2018 ad oggi è lo stato che, a livello mondiale, installa annualmente più capacità di eolico offshore, e nel 2019 e 2020 ha installato più potenza eolica offshore che il resto del mondo messo assieme.
Questi numeri possono sorprendere solo chi non conosce l’attuale egemonia cinese nel mercato mondiale delle tecnologie energetiche a basse emissioni, particolarmente evidente nel settore dell’energia solare e in quello del nucleare.
Al tempo stesso, questi sviluppi devono fare preoccupare la nostra classe politica. Per anni l’industria eolica, a differenza di quella del fotovoltaico, era rimasta saldamente nelle mani di giganti occidentali del settore, come i Vestas (danese), Siemens Gamesa (spagnola) e General Electric (statunitense).
Il rischio è quello di rafforzare ulteriormente il dominio cinese sul settore delle energie rinnovabili, con le conseguenze che questo può avere sulla sicurezza energetica del continente europeo e sulla perdita di competitività in un’industria altrimenti estremamente promettente.
La crisi europea e statunitense
Gli Usa, con lunghe coste lungo le quali sono posizionate le più grandi città dello stato, avrebbero tutte le carte in regola per trarre grandi vantaggi dall’energia eolica offshore.
Secondo il National Renewable Energy Laboratory il potenziale, anche senza considerare le installazioni galleggianti, sarebbe nell’ordine dei 1500 GW, un’enormità.
E per un certo periodo di tempo sembrava che questa dovesse essere la strada. Se da un lato ancora nel 2022 la potenza installata erano 40 miseri MW, i progetti in pianificazione ammontavano a 16 GW, quello che sarebbe stato un traguardo di rilievo anche se lontano dai 30 GW posti come obiettivo da Biden per il 2030.
Il Regno Unito, grazie alle caratteristiche particolarmente positive del proprio territorio, è oggi la seconda potenza mondiale (dopo la Cina) per capacità eolica offshore installata, con 14.5 GW alla fine del 2023.
Ma la cosa più interessante è forse un’altra: il fatto che questo sia conciso con una fortissima riduzione dei costi. Se i progetti realizzati nel 2014 hanno ottenuto un prezzo dell’energia garantito di 140 GBP/MWh (elevato rispetto all’eolico a terra ma, per riferimento, comunque inferiore al fotovoltaico residenziale), questo valore si era ridotto a 120 GBP/MWh nel 2015, 60 GBP/MWh nel 2017 e 40 GBP/MWh nel 2019.
Perfino l’eolico offshore galleggiante aveva cominciato ad apparire nelle aste, a prezzi superiori rispetto a quelli dell’eolico a fondazione fissa, ma comunque ragionevoli.
Le sfide da vincere per l’eolico offshore
Il problema principale dell’eolico offshore (ma non solo) è dovuto a due caratteristiche principali: l’elevata richiesta di materie prime per la costruzione e l’alta incidenza del costo di costruzione sul costo totale dell’energia prodotta.
Immaginate di essere un’azienda che costruisce impianti offshore. È il 2019, il COVID non è ancora arrivato a gettare scompiglio nella società e l’eolico offshore è in pieno boom, favorito anche dai bassi tassi di interesse sui prestiti, necessari per finanziare l’elevata spesa iniziale.
In queste condizioni, vi trovate a negoziare con un committente (per esempio, lo stato del New Jersey) un contratto per un impianto eolico offshore. Viste le esperienze precedenti e le condizioni attuali, concordate un prezzo fisso dell’energia che l’impianto produrrà e venderà alla rete di 90 USD/MWh: relativamente elevato rispetto ad altri Paesi, ma nel contesto statunitense
comunque competitivo.
Il tempo di ottenere i permessi, preparare i progetti, sono passati quattro anni. Normale, soprattutto in un Paese come gli Usa con esperienza quasi nulla nel settore.
Tuttavia, nel frattempo, sono aumentati i costi delle materie prime: soprattutto l’acciaio (che costituisce il 90% del peso della turbina, e che dal 2020 al 2021 ha visto il prezzo raddoppiare) e il rame (necessario per il collegamento con la terraferma, aumentato del 50%).
Inoltre, sono aumentati i tassi di interesse per i prestiti da richiedere per l’investimento iniziale, consistente. A questo punto, si rifanno i conti, e quei 90 USD/MWh diventano molto stretti.
Dunque, rimangono solo due soluzioni: o si annulla il progetto, oppure si cerca di rinegoziare il valore del contratto. In entrambi i casi, non si fa una bella figura.
Il caso Usa e Uk
Questa ricostruzione non è solo ipotetica. Negli Stati Uniti a ottobre 2023 la Orsted, uno dei maggiori sviluppatori di impianti eolici offshore al mondo, ha cancellato due progetti al largo del New Jersey, per un totale di 2.2 GW.
E non è stato, purtroppo, un caso isolato. Nel solo 2023, quasi 12 GW di progetti hanno subito la cancellazione, o la messa in pausa in vista di una rinegoziazione dei termini dei contratti, secondo le stime di BloombergNEF.
Anche in un mercato più maturo, come quello inglese, l’inflazione, colli di bottiglia nelle catene di approvvigionamento e la lentezza dei processi hanno causato all’arresto di diversi progetti, come quello di “British Norfolk Boreas” da 1400 MW.
In tutto il Regno Unito, nel 2023, la connessione ha riguardato circa 800 MW di nuove installazioni eoliche offshore, un numero parecchio inferiore a quello dell’anno precedente (3200 MW). Inoltre, il quinto round di aste per CfD, risalente appunto nel 2023, non ha avuto nessuna offerta da parte degli sviluppatori per la prima volta da quando questo strumento di incentivazione è stato annunciato.
L’aumento dei prezzi dei materiali, le difficoltà della supply chain e l’inflazione non erano state tenute in conto dai legislatori, il che ha portato a una base d’asta troppo bassa.
L’impatto dei fattori politici
Nel caso statunitense, alla situazione di difficoltà globale del settore si aggiunge un contesto reso complesso da altri fattori, questa volta politici. L’Inflation Reduction Act (IRA) voluto da Biden richiede ai progetti che vi richiedono accesso di utilizzare prevalentemente componenti e materiali prodotti localmente, cosa che già in generale provocherebbe un aumento dei costi, a maggior ragione nel caso di un’industria che, negli Stati Uniti, è ancora allo stato embrionale.
Inoltre, quasi ironicamente, una vecchia norma (il Johns Act del 1920) richiede che qualunque trasporto via mare che avvenga da un porto americano a un altro debba utilizzare navi made in Usa. Peccato che l’industria cantieristica statunitense sia quasi morta da decenni, e che quindi non esistono, ad oggi, navi specializzate nel trasporto e l’installazione di materiale
per la costruzione di centrali eoliche offshore prodotte negli Stati Uniti. Una nave adatta allo scopo è attualmente in costruzione in Texas. Doveva essere pronta nel 2023, invece lo sarà nel 2025.
Questo va ad aumentare ulteriormente i costi, già elevati, di questi progetti. Non sono poi mancate le resistenze dal basso, di facciata da parte di gruppi ambientalisti ma in realtà spesso guidate dagli interessi di ricchi proprietari di ville costiere e dall’industria dei combustibili fossili, che hanno lanciato campagne di disinformazione. In Florida, questo ha portato a una completa moratoria degli impianti eolici offshore (prima ancora che ne sia stato
possibile realizzare neanche uno).
Quindi, il sogno dell’eolico offshore americano è finito ancora prima di cominciare? Non proprio. Spinti dagli incentivi economici forniti dall’IRA e dalla volontà politica di alcuni stati, l’industria sembra pronta a un nuovo inizio, sperando che questa volta sia quella buona.
Il caso inglese insegna tuttavia anche come la politica (anche se con qualche ritardo) sia stata in grado di prendere in considerazione la situazione ed agire di conseguenza. Il sesto round di aste per CfD, attualmente in corso, vede la base d’asta per i progetti di eolico offshore in aumento da 44 GBP/MWh a 73 GBP/MWh (va ricordato che questi prezzi sono espressi in GBP del 2012, quindi 73 GBP del 2012 corrispondono a 103 GBP oggi). Questo, ovviamente, porterà a costi superiori per l’energia prodotta, ma dará garanzia del fatto che le aziende
ricomincino a proporre progetti da realizzare: sono in ballo 10 GW di potenza installata (oggi sono 19 i GW di eolico offshore installati in Regno Unito).
Il fenomeno del curtailment: troppa energia dal vento da non sapere dove metterla
Il Regno Unito rappresenta un caso studio anche per un altro fenomeno, dato il suo status come una delle reti a maggiore penetrazione di energia eolica (offshore e non) e data la sua limitata interconnessione con reti vicine. Quello del curtailment, ovvero della necessità di “buttare” (o più spesso semplicemente non produrre) energia prodotta da fonti rinnovabili semplicemente perché superiore alle necessità di rete.
Ciò succede principalmente per l’insufficienza di capacità di trasferire energia elettrica da un lato all’altro del Paese (principalmente tra la Scozia, dove è prodotta la maggior parte dell’energia eolica in Regno Unito, e il Sud-Est dell’Inghilterra, dove invece sono concentrati i consumi), e di capacità di accumulo. In sostanza, talvolta c’è talmente tanta energia dal vento che non si sa dove metterla.
Questo fenomeno purtroppo ha un costo, perché per garantire a chi gestisce impianti offshore ricavi prevedibili nel tempo, gli viene pagata anche l’energia che potrebbero produrre ma non viene immessa in rete.
Non è semplice stimare il costo per il sistema di questo fenomeno, ma secondo alcune stime nel 2023 si sarebbe aggirato attorno ai 750 milioni di sterline nel solo 2023.
Anche in questo caso, è necessaria l’azione della politica per gestire la situazione. Se da un lato sono stati annunciati nuovi investimenti nella rete elettrica e misure per ridurre i tempi necessari per la costruzione di nuove linee di trasmissione, dall’altro sono previsti strumenti di finanziamento specifici per sistemi di accumulo, sia a breve che a lunga durata.
L’eolico offshore in Italia
In generale, le condizioni per l’eolico sono buone, ma non ottime nel nostro Paese, che da questo punto di vista si trova in una situazione di gran lunga meno favorevole di Paesi come Francia, Regno Unito e Spagna.
Nel caso dell’eolico offshore, la prima difficoltà è legata a dove si trova il potenziale. Il grande vantaggio del Mare del Nord, su cui si affacciano grandi potenze dell’eolico offshore come Regno Unito, Germania e Danimarca, sta nei suoi fondali bassi associati a venti forti e costanti.
In Italia, le due caratteristiche non sono presenti in contemporanea: l’unico mare che permetterebbe lo sviluppo di progetti di eolico offshore a fondazione fissa (quelli più economici e di cui si ha più esperienza) è l’Adriatico, che però ha, in generale, venti di qualità inferiore rispetto ad altri.
Nelle zone più ventose, come i mari della Sardegna e della Sicilia, i fondali diventano velocemente profondi: a meno di realizzare impianti a poca distanza dalla costa (cosa che genera forti resistenze a livello locale) è necessario ricorrere all’eolico galleggiante, una tecnologia in generale, ad oggi, più costosa e con meno esperienza sul campo.
Il problema dello sbilanciamento territoriale
Esiste inoltre un’ulteriore problematica, che affligge in generale la produzione di energie rinnovabili in Italia di quasi tutte le categorie: lo sbilanciamento territoriale tra zone ad elevato consumo energetico (il Nord Italia, più industrializzato) e quelle ad elevato potenziale di generazione (il Sud più soleggiato e dai venti più intensi).
Questo sbilanciamento richiederebbe adattamenti alla rete elettrica, che purtroppo, come visto nel caso del Regno Unito, sono spesso progetti lunghi e costosi. Questa combinazione di fattori crea un terreno non particolarmente favorevole al decollo dell’industria eolica offshore nel nostro Paese.
Il ruolo della politica
In tutto questo, purtroppo, la politica ha più spesso messo ulteriori bastoni tra le ruote allo sviluppo piuttosto che aiutato a superarne gli ostacoli. L’unico meccanismo che ha permesso ad accedere a qualche tipo di incentivi per l’eolico offshore é stato un decreto del 2016, in cui si mettevano a disposizione contingenti di potenza per un totale di 30 MW.
Un quantitativo forse sufficiente per il 2016, ma certamente insufficiente se si pensa che, da allora, non vi sono mai stati altri decreti a sostegno di questa forma di energia.
Oggi, nel 2024, siamo in attesa del decreto FER-2, che dovrebbe mettere all’asta incentivi per 3.8 GW di eolico offshore dal 2024 al 2028.
Lontani dai valori che osserviamo nell’Europa del Nord, ma comunque un enorme passo in avanti rispetto al passato.
Il fenomeno Nimby
Purtroppo la mancanza di incentivazione non é l’unico problema politico che gli sviluppatori di impianti eolici offshore devono affrontare. Come per tanti altri tipi di impianti il fenomeno del Not In My Backyard (NIMBY) genera ostacoli importanti.
Basti pensare che l’unico impianto eolico offshore oggi operativo in Italia, quello costruito davanti alle coste di Taranto (in realtà più precisamente da definirsi near shore essendo localizzato a meno di 2 km dalla costa), ha impiegato 14 anni per essere realizzato: 13 per ottenere le dovute autorizzazioni, per superare il no della sovrintendenza, della regione, e del comune; e uno per costruire l’impianto.
E se da un lato l’esistenza di una serie di meccanismi di protezione e vincoli è fondamentale per evitare il profilerare selvaggio di progetti che vadano a rovinare il nostro territorio, dall’altro è evidente che queste tempistiche non sono in alcun modo compatibili con quanto richiesto dall’emergenza climatica attualmente in atto.
E questo, purtroppo, non è stato un caso isolato. A vari livelli sono stati messi i bastoni tra le ruote ai progetti di sviluppo di impianti eolici offshore di fronte alle coste di Rimini, sulla nuova diga forense di Genova e nel canale di Sicilia. Il mantra è più o meno sempre lo stesso: nessun problema con gli impianti eolici, basta non farli davanti al mio balcone.
Terna certifica la volontà di realizzare impianti
Nonostante tutto quanto detto sopra, la volontà di costruire impianti esiste. Secondo Terna, al maggio 2024 sono presenti richieste di connessione alla rete elettrica da parte di 139 impianti per un totale di 90 GW: ampiamente al di sopra di quanto ci si aspetterebbe dall’eolico offshore per la transizione energetica da qui al 2050. E se è vero che le richieste di connessione rappresentano una stima ampiamente in eccesso dei progetti che verranno effettivamente realizzati, è comunque testimonianza di una forte volontà di perseguire questa strada.
Conclusioni
L’energia eolica offshore è una fonte che, dopo anni di successi, ha incontrato degli ostacoli che ne hanno rallentato lo sviluppo. La buona notizia è che, a quanto sembra, questa tendenza si sia invertita, e che in tutto il mondo vi siano segnali incoraggianti di ripresa.
Questo dovrebbe farci tirare un respiro di sollievo per tanti aspetti. Non solo perché ciò porterà a ridurre le emissioni di gas serra direttamente, ma anche per il ruolo fondamentale che l’eolico offshore ha nel bilanciamento di diverse fonti energetiche nelle reti elettriche, e per la grande rilevanza che l’industria europea ha in questo settore.
Le vicissitudini dell’industria eolica offshore hanno però mostrato chiaramente che non basta lasciare le redini in mano al mercato. La politica ha un ruolo fondamentale nel fornire incentivi ed eliminare ostacoli, potendo (e dovendo) fare la differenza tra il successo e la sconfitta di un intero settore chiave per la transizione energetica.
Non esistono ricette miracolose o bacchette magiche. Serve programmazione di lungo periodo, che permetta a chi deve investire di avere il tempo e le certezze che servono per garantire un ritorno all’investimento.
Occorre un confronto attivo e continuo con tutti gli stakeholders del settore, dall’industria che produce le turbine e installa gli impianti, agli enti locali che devono snellire i processi senza rinunciare ad un’attenta analisi dei progetti, alla cittadinanza che si troverà a convivere con gli impianti una volta costruiti.
Sono necessari investimenti importanti nelle infrastrutture chiave, da quelle utili all’intero settore energetico come nuove reti di trasmissione e accumuli, a quelle specifiche per l’eolico offshore, come porti e strutture in grado di fungere da basi d’appoggio per la costruzione degli impianti.
Problemi complessi richiedono soluzioni complesse, ma l’eolico offshore ha tutte le carte per diventare parte della soluzione.