Una facciata verde per coprire le pratiche inquinanti: più aumenta la sensibilità ecologica, più avanza il greenwashing.
Infatti, virare verso la sostenibilità costa, ed è un costo di cui non tutti si fanno carico. Di contro, il riferimento alla sostenibilità ambientale ed etica diventa sempre più importante per attrarre i consumatori e aumentare il prestigio del brand.
Secondo un report della Commissione Europea, pubblicato nel 2021, nel 42% dei siti web aziendali presi in esame le affermazioni di posizionamento ecofriendly sono green claim ingannevoli e pratiche commerciali sleali.
Non a caso, la Commissione ha presentato delle proposte di aggiornamento delle direttive sulla tutela dei consumatori contro le pratiche commerciali sleali, all’interno del pacchetto sulla Circular Economy.
Finanza sostenibile, tutti gli inganni dell’ESG: il problema greenwashing
Che cos’è e cosa significa “greenwashing”
Il neologismo inglese “Greenwashing” significa “ambientalismo di facciata”.
Letteralmente è una crasi, cioè una fusione, di due termini inglesi: green, ovvero verde, il colore dell’ecologismo, e washing, dal verbo “to wash”, “lavare”. A propria volta, “to wash” richiama un altro verbo inglese, “to whitewash”, che significa “imbiancare” e quindi, per estensione, “nascondere”.
In concreto, il greenwashing è una strategia comunicativa adottata da aziende, organizzazioni e istituzioni politiche: consiste nel proclamare un grande impegno ambientale e sociale senza alcun effettivo riscontro concreto.
Chi opera greenwashing enfatizza i propri sforzi (scarsi quando non inesistenti) per diminuire l’impatto ambientale delle produzioni e si promuove come ecofriendly senza però avviare davvero un effettivo processo di cambiamento in chiave sostenibile.
La differenza tra green marketing e greenwashing si fonda proprio sulla verificabilità del basso impatto ambientale dei prodotti e dei processi produttivi: un impatto reale nel caso del green marketing, fittizio (e, appunto, di sola facciata) in caso del greenwashing.
L’obiettivo del greenwashing è duplice:
- allargare il proprio bacino di utenza attraendo i consumatori attenti alla sostenibilità;
- distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da eventuali difetti del prodotto o dai danni per l’ambiente procurati dalle proprie attività produttive.
Greenwashing: dove nasce
Il termine “greenwashing” è stato usato per la prima volta dall’ambientalista statunitense Jay Westerverd nel 1986.
Westerverd ha denunciato come greenwashing la pratica delle catene alberghiere di disincentivare i clienti al consumo di asciugamani: a fronte di una comunicazione incentrata sull’impatto ambientale del lavaggio, l’obiettivo era la convenienza economica data dalla riduzione dei costi.
Il greenwashing si è quindi diffuso come vocabolo negli anni Novanta, a seguito delle pratiche di aziende chimiche e petrolifere americane che si promuovevano eco-friendly per nascondere i danni ambientali e provocati dalle loro attività.
A partire dagli anni Novanta, la conoscenza e consapevolezza delle problematiche ambientali sono cresciute, insieme all’orientamento dei cittadini verso scelte più ecosostenibili. In parallelo, sempre più aziende e organizzazioni politiche sono ricorse alla pratica del greenwashing.
Come si riconosce il greenwashing
Il greenwashing si riconosce osservando criticamente la comunicazione aziendale. In particolare, occorre fare attenzione a:
- uso di un linguaggio (anche slogan) vago e aleatorio o, al contrario, talmente tecnico da risultare fuorviante e incomprensibile;
- uso di immagini che raffigurano soggetti naturali o con prevalenza del colore verde per rievocare l’ambiente e quindi l’interesse del brand verso l’ecologia;
- divulgazione di dati ambientali non supportati da terze parti o da informazioni facilmente reperibili;
- indicazioni vaghe sul prodotto, tanto che il loro stesso significato può essere frainteso dal cliente;
- inserimento di certificazioni contraffatte o etichette false.
Perché un brand possa definirsi sostenibile, tutto il processo produttivo deve essere rivoluzionato e reso a basso o a zero impatto ambientale: non è sufficiente inserire, a fronte, ad esempio, di intere collezioni, solamente una quantità minima di capi a basso impatto ambientale.
In che modo le aziende si dimostrano green
Esempi di greenwashing sono reperibili già da prima che Jay Westerveld desse un nome al fenomeno e riguardano aziende operanti nei campi più disparati, dall’industria alimentare all’industria della moda, a quella automobilistica.
Qualche esempio concreto:
- Nel 2010 la San Benedetto è stata multata dall’Antitrust per aver pubblicizzato la produzione di bottiglie con riduzione di plastica ed emissioni senza avere effettuato studi a supporto che provassero la veridicità delle affermazioni e del claim “amica dell’ambiente”;
- Nel 2012 la Ferrarelle è stata multata dall’Antitrust per aver pubblicizzato delle bottiglie definite “a impatto zero” grazie alla compensazione della CO2 emessa con la creazione di nuove foreste. L’Antitrust ha però rilevato che la compensazione è durata solo due mesi, un tempo troppo breve per giustificare la definizione.
- Nello stesso anno, sanzione anche per l’etichetta “Bio Bottle” della Sant’Anna, che secondo l’Antitrust ha riportato pregi ambientali superiori al reale.
- Nel 2013 H&M ha lanciato una campagna che prevedeva lo smaltimento e il riciclo dei capi usati ma è stato constatato che solo l’1% dei capi di abbigliamento, composto da un unico tipo di fibra, poteva essere realmente riciclato;
- Nel 2017, Walmart ha pagato 1 milione di dollari di multa per aver venduto prodotti in plastica etichettati come “biodegradabili” o “compostabili” senza averne le caratteristiche;
- Nel 2019 la Ryanair si è pubblicizzata come compagnia aerea europea a più basso livello di emissioni, ma tale affermazione non è stata supportata da alcun dato concreto;
- Nel 2020 l’Antitrust ha multato ENI per pubblicità ingannevole sul carburante ENI Diesel+, con riguardo alle affermazioni sia sul positivo impatto ambientale connesso all’utilizzo che sulle caratteristiche di risparmio dei consumi e riduzione delle emissioni;
- Sempre nel 2020, Asos, sito britannico di moda e cosmesi, ha lanciato una collezione di 29 pezzi in poliestere riciclato definendola completamente sostenibile, ma la collezione rappresenta solo lo 0,035% della sua produzione complessiva (circa 85.000 pezzi);
- Nel 2022 è stato pubblicato uno studio giapponese su PlosOne che ha analizzato dati dal 2009 al 2020 su decarbonizzazione e riduzione di emissioni da parte delle società petrolifere Chevron, ExxonMobil, BP e Shell. In particolare, lo studio ha confrontato affermazioni nei report, strategie di business e investimenti: alle prime non corrispondono le seconde e i terzi.
Consigli utili per difendersi
Il greenwashing è un fenomeno in crescita, che ha ripercussioni negative sulla tutela del consumatore, sulla transizione ecologica dei processi produttivi e sulla finanza sostenibile.
È un fenomeno politico ma anche di psicologia collettiva: non è sempre facile riconoscerlo e contrastarlo e a volte è dettato da semplice superficialità nella comunicazione. Non a caso, molti paesi, tra cui il Regno Unito, hanno stilato vere e proprie guide per la comunicazione che aiutino le aziende a evitare il greenwashing involontario.
Diversi sono gli approcci dei vari Stati rispetto a questa pratica: negli Stati Uniti è allo studio una taskforce per monitorare gli investimenti e la politica sostenibile delle aziende; in Francia sono state introdotte severe sanzioni economiche e multe fino all’80% del costo della campagna pubblicitaria sotto esame.
In Italia manca una legislatura organica e specifica per contrastare il greenwashing che, di fatto, è considerato pubblicità ingannevole, in capo all’Antitrust fino al 2014.
Nel 2014 è stato introdotto l’articolo 12 del Codice di Autodisciplina della comunicazione commerciale, che ha stabilito come la vigilanza spetti all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
Il compito dell’Autorità è di vigilare e reprimere la pubblicità ingannevole e sanzionare le aziende che praticano il greenwashing. Le sanzioni economiche possono arrivare a cinque milioni di euro.
L’articolo 12 ha anche imposto direttive precise per la comunicazione e il marketing. Ogni informazione data deve:
- rispondere a criteri di trasparenza e standard di correttezza,
- basarsi su elementi veritieri,
- riportare dati scientificamente verificabili,
- esplicitare chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività si riferiscono i benefici ostentati.
Tra gli altri soggetti che in Italia controllano la veridicità e attendibilità della comunicazione delle aziende, ci sono anche:
- le associazioni di consumatori, che spesso offrono anche consulenze e assistenza legale in eventuali procedure di conciliazione,
- lo Iap, istituto dell’autodisciplina pubblicitaria, che unisce i soggetti coinvolti nella pubblicità (imprese che investono, agenzie creative e mezzi di diffusione) per promuovere una comunicazione di marketing corrispondente al reale.
Un altro indicatore che dimostra la reale sostenibilità delle aziende è la presenza di certificazioni ambientali come:
– standard EMAS, che prevede, a livello europeo, la pubblicazione di una “dichiarazione ambientale”,
– ISO 140001, riferimento internazionale dei requisiti minimi per ottenere una certificazione,
– GRS, Global Recycled Standard, sui materiali riciclati.
Oltre alle tutele delle autorità, il modo principale e più immediato per difendersi dal greenwashing è diventare consumatori consapevoli e adottare strategie mirate per scegliere aziende realmente ecosostenibili.
Ecco cosa è possibile fare:
- controllare sempre che il contenuto delle etichette e delle certificazioni ambientali abbia un effettivo riscontro nella realtà,
- informarsi, in presenza di loghi e certificazioni, sui loro criteri di assegnazione,
- documentarsi sulle caratteristiche e la reputazione delle aziende, anche attraverso la rete,
- usare le app specifiche, che fanno conoscere, in tempo reale, l’impronta ecologica di molti prodotti;
- consultare i siti di consumatori che denunciano il greenwashing.