La discussione sul tema del greenwashing, l’ambientalismo di facciata fatto di sole dichiarazioni è passata nell’arco di 12 mesi da argomento ideologico a tema mainstream. Proprio perché la portata del suo interesse ha travalicato la linea dell’attivismo andando a toccare le corde di una platea molto più ampia, il greenwashing oggi è un rischio ad alto potenziale per le aziende.
Aziende “verdi”: marketing o impegno concreto?
Un’azienda, parafrasando il padre del management moderno Peter Drucker, “non è un’isola a sé stante. Deve risolvere il problema fondamentale di bilanciare il bisogno di concentrazione e di autolimitazione con la preoccupazione per l’ambiente e la sollecitudine per la comunità”. Ma quanto davvero autentico il è purpose di marchi e brand che quotidianamente si definiscono sempre più verdi e sostenibili?
Per gli italiani la risposta è decisamente negativa, visto che solo il 2% dichiara di fidarsi completamente di quanto dichiarano i brand circa il loro impegno per ridurre il loro impatto ambientale, inoltre le false dichiarazioni di sostenibilità o di impegni ambientali sono il primo disincentivo all’acquisto di un brand per quasi un italiano su due (48%). Sono i dati che emergono dalla ricerca realizzata da The Fool utilizzando, insieme a Brandwatch e GWI, la piattaforma Audiense.
Così aziende e istituzioni fanno leva su strategie di comunicazione per apparire più ‘verdi’ di quanto siano effettivamente, in cui attività, prodotti e servizi sono presentati come sostenibili dal punto di vista ambientale e si cerca di nasconderne l’impatto negativo sul pianeta. Così si crea una società divisa, tra aziende a cui va riconosciuto l’impegno sul tema e altre che preferiscono investire su una comunicazione che non viene confermata dalla cruda realtà
Chi parla oggi di greenwashing in Italia
Nell’estate appena trascorsa, è stata una delle parole più usate, segno tangibile della maggiore consapevolezza da parte dei consumatori che non si fanno abbagliare dall’iper-esposizione di loghi in varie tonalità di verde o packaging più o meno ecosostenibili. Una parola che è diventata di uso comune ed entrerà nel vocabolario Zingarelli a partire dal 2023: “ambientalismo solo apparente, di facciata, spec. da parte di un’azienda che vuole presentarsi come ecologicamente responsabile per scopi pubblicitari, di immagine, ecc”.
A parlare di greenwashing sono soprattutto laureati che abitano in grandi città (Milano, Roma e Torino) e i più interessati appartengono alla fascia 18-24 anni. Un futuro più verde quindi, ma con giudizio. Non basta colorare le confezioni o ridurre la plastica degli imballaggi. I consumatori sempre più informati cercano una svolta davvero green e quando si accorgono che alle parole non seguono fatti, indirizzano le loro scelte d’acquisto verso altri brand.
Se nel 2021 la discussione online sul tema proveniva prevalentemente da 3 categorie di utenti – individuate a seconda di interessi, followgraph, tratti psicografici e, programmi tv/radio seguiti – ovvero gli Attivisti (21%) già impegnati personalmente su temi “green”, i Cosmopoliti (35%) che seguono con interesse i temi di politica e attualità e i “Green Finance” (40%) cioè impiegati o manager interessati al tema dal punto di vista del business – in soli 12 mesi altre due categorie si sono delineate all’interno della discussione.
È anche a causa dello sdoganamento del tema all’interno delle categorie dei “Digitalisti”, ossia coloro che vivono la loro quotidianità online e che non disdegnano l’ibridazione delle proprie passioni con tematiche smaccatamente di marketing e degli “Screen Addicted” che le discussioni hanno fatto segnare un +73% anno su anno, con una “rumorosa” entrata in scena di questi ultimi due nell’arena del dibattito online.
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La relazione con i brand e con il loro impegno ambientale
La Corporate Social Responsibility è oggi un tema di grande attualità, in quanto l’influenza che esercita sull’ambiente, sulla società e sulle community influisce in modo significativo sulla reputazione di un’azienda.
Il lavoro da fare da parte delle aziende è tanto, se si considera che attualmente quasi nessun italiano si fida totalmente dei brand e del loro impegno (il 68% dichiara “poca fiducia” e l’8% addirittura nessuna fiducia, a fronte del 22% che si fida molto e solo il 2% che si fida completamente.
Il greenwashing inoltre risulta la prima motivazione a non acquistare da un brand (48%), addirittura davanti a scarso tracciamento (42%) e mancanza di trasparenza nella supply chain (41%).
Sono dati che in sintesi documentano che esiste un forte desiderio di pratiche aziendali più concrete e trasparenti. I consumatori vogliono che le aziende diano il loro contributo reale alle comunità locali, alla beneficenza, ai loro dipendenti e che influenzino positivamente l’ambiente. Perché, come scriveva l’imperatore Marco Aurelio “ciò che non giova all’alveare non giova neppure all’ape”.
Diventa sempre più difficile per un’organizzazione comunicare le azioni concrete e reali messe in campo in soccorso di ambiente e società: se il green marketing aveva inizialmente un obiettivo positivo – contribuire allo sviluppo di un nuovo modello di consumo – l’ampliarsi della discussione rende oggi più complesso farsi ascoltare anche quando i messaggi sono veritieri e i contenuti originali.
Gli stakeholder sono diventati più diffidenti: i dipendenti chiedono coerenza tra il dichiarato e l’agito; associazioni del Terzo Settore pretendono azioni concrete; i clienti esigono informazioni sull’intera filiera; gli investitori premiano la trasparenza.
A questo tema Rossella Sobrero, Presidente di Koinètica e di FERPI è stata tra le prime esperte in Italia ad approfondire il legame tra comunicazione e sostenibilità. In “Verde, anzi verdissimo” edito da Egea. Sobrero non si limita a fotografare lo scenario attuale ma condivide dati, buone pratiche e strumenti utili a comunicatori e organizzazioni per evitare il rischio greenwashing valorizzando – correttamente – le proprie attività: dagli impegni formalizzati in documenti come la Carta dei valori e il Codice etico alle policy aziendali; dalle certificazioni di prodotto e di processo al rispetto di standard condivisi, senza dimenticare etichette, packaging, strumenti di rendicontazione.