“I dati sono il nuovo petrolio” – è una frase molto citata, da quando il digitale è entrato di prepotenza in ogni aspetto delle nostre vite; una definizione spesso attribuito all’ex responsabile per i dati di Amazon, Andreas Weigend. Per quanto accattivante e intuitivo possa essere lo slogan, più complicato è definire come esso si possa tradurre nella pratica: ovvero, quale forma stia assumendo la nascente “data economy”. Non a caso, questo sarà uno dei temi principali che verranno trattati all’interno di Smart City Exibition (Sme), la rassegna in programma a Bologna dal 14 al 16 ottobre.
“I dati sono sempre stati fondamentali per aiutare le persone a prendere delle decisioni – spiega Maurizio Napolitano, ricercatore della fondazione Fbk di Trento e uno dei relatori di Sme – Da cose molto semplici, come l’acquisto di un automobile, a scelte più complesse”. Il digitale ha però ampliato e amplificato il fenomeno, rendendo disponibili a tutti, o quasi, quantità di informazioni prima impensabili.
Aprendo enormi opportunità, nel complesso, non senza qualche necessaria avvertenza che ha a che fare con labontà del dato da cui si parte. “La difficoltà – sottolinea il ricercatore -è quella di avere dati di qualità e quindi riusabili, senza i quali non si può pretendere che nasca una qualche forma di data economy”.
Bisogna quindi distinguere il tema dell’accesso ai dati, caro agli appartenenti al movimento degli Open Data, che cerca di svincolare le informazioni dai formati di trattamento proprietari che ne impediscono la libera circolazione, da quello dell’elaborazione degli stessi, al cui riguardo si parla sovente di Big Data.
Sul primo fronte sono attive diverse realtà internazionali, fra cui spiccano la Open Knowledge Foundation e l’Open Data Institute fondato dal “padre di Internet” Tim Berners-Lee (con cui collabora anche Fbk) la cui ragion d’essere è proprio quella di aiutare enti e organizzazioni ad “aprire i dati”. Esistono poi diversi programmi governativi che mirano a raggiungere lo stesso scopo.
E anche singole aziende si stanno attivando in questa direzione, per questioni anche solo di interesse. “Un esempio possono essere i supermercati che hanno interesse a far conoscere gli orari dei loro negozi – dice Napolitano”. Oppure, per accreditarsi sul piano dell’accountability, della trasparenza verso l’opinione pubblica. Una volta risolta la questione dell’accesso, arriva il momentdell’elaborazione che porta alla creazione di valore.
“I modelli economici che si stanno creando attorno agli open data – racconta il ricercatore – sono essenzialmente di tre tipi. Il primo è quello delle aziende che fanno da consulenti e fornitori di servizi per tutto quello che riguarda i dati, creano portali sugli open data, fanno formazione ecc. Insomma, tutto quello che riguarda la “cultura del dato”. Spesso si tratta di grandi aziende come Esri, Oracle.
Poi c’è il mercato che riguarda invece tutta la fase dell’elaborazione dei dati per creare informazioni: dal data journalism alla business intelligence. Si usano i dati ad esempio per sapere dove è meglio costruire un centro commerciale o piazzare una fermata dell’autobus, arrivando in molti casi a livelli di analisi piuttosto sofisticati.
Prodotti come Mapumental della Ong inglese MySociety, ad esempio, a partire da una certa posizione geografica informano su quali punti di interesse – scuole, ospedali, negozi – è possibile raggiungere in un certo lasso di tempo, Incrociando queste informazioni con altre, ad esempio il prezzo delle case, è possibile sapere dove conviene abitare.
Un servizio che può essere utile, ad esempio, alle agenzie immobiliari o ai singoli utenti. Altre società, come l’inglese Transport Api , hanno trovato un modo di fungere da intermediari fra chi produce il dato grezzo e chi vuole utilizzarlo per realizzare prodotti e applicazioni. E lo fanno elaborando e uniformando tutti i dati di trasporto disponibili nel Regno Unito, in modo da realizzare uno strumento che consente di interfacciarvisi in maniera “pulita”.
Ne fa ampio uso per esempio City Mapper, uno delle più celebri applicazioni per muoversi all’interno di Londra e di alcune altre grandi città. Un altro esempio di come i dati possano essere adoperati dalle aziende per fare affari con altre società, è quello delle Poste, che vendono le informazioni sui codice postali ad altre aziende – come le assicurazioni – che le utilizzano a loro volta per stabilire diversi livelli di rischio a seconda della zona di pertinenza.
Poi c’è un terzo livello, che è quello in cui le aziende si rivolgono direttamente ai consumatori (B2C), che si può suddividere a sua volta in due filoni: il primo è quello in cui i dati vengono forniti agli utenti in modo da aiutarli a prendere decisioni e creare oggetti. Un caso di creazione di oggetti a partire dai dati è quello di Dress Map, un’azienda di Torino che usa i dati di Open Street Map per creare borse ricoperte da mappe geografiche personalizzate.
Una startup di Barcellona, Nice Trails, ha ideato invece un servizio che trasforma i percorsi fatti dagli escursionisti in montagna, tracciati col Gps, in modellini 3D da conservare. L’altro filone di utilizzo dei Big Data per la creazione di valore in ambito B2C, è quello in cui l’utente stesso, quale produttore di informazioni, è il prodotto.
È il livello su cui operano i vari Linkedin, Facebook, Foursquare. Le persone in questo caso si comportano come “mezzadri digitali” di territori che non gli appartengono. “Prendiamo YouTube – dice Napolitano – è un campo immenso, sconfinato, che però non avrebbe alcun senso se non ci fosse qualcuno che producesse i contenuti”.
Quello del portale di condivisione di video è un esempio perfetto di “mezzadria digitale”, perché prevede anche forme di revenue sharing, di divisione dei ricavi, fra chi produce i filmati e la piattaforma che li ospita. Sono decine di migliaia le persone, in tutto il mondo, che riescono a ricavare un reddito tramite un’attività di questo tipo.
Diverso è il caso in cui la produzione di dati da parte degli utenti, in particolare dati relativi alla loro geo-localizzazione vengono sfruttati per azioni di proximity marketing, ovvero per offrire loro opportunità e sconti in attività commerciali vicine al luogo in cui si trovano in un determinato momento.