Normativa e buone pratiche

Il fattore sociale nell’ESG: come attivare strumenti operativi per il lavoro sostenibile

La parità di genere, le forme di lavoro agile e di trasporto eco-compatibile: il fattore sociale dei parametri ESG può fare la differenza per una nuova alleanza tra datore di lavoro e lavoratore. Le normative per promuovere il lavoro sostenibile e tutti i vantaggi per le pmi

Pubblicato il 08 Ago 2022

Paolo Cirulli

Senior associate di LS Lexjus Sinacta

Vera Daniele

avvocato e partner di LS Lexjus Sinacta

Employee Experience

Il dibattito mainstream sull’ESG viene prevalentemente focalizzato sul tema della transizione ecologica (fattore Environmental), i cui obiettivi sembrano interessare e coinvolgere solo le grandi imprese, attesi gli investimenti richiesti.

Occorre, invece, allargare lo sguardo, cogliendo i principi a fondamento di tutti i criteri ESG. Di seguito, concentreremo l’attenzione sul fattore “sociale” dell’ESG, con particolare declinazione nella nuova concezione di un “lavoro sostenibile”, cercando di individuare alcuni strumenti operativi, sui quali l’imprenditore può, senza necessità di ingenti investimenti, intervenire strategicamente.

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È forse proprio il fattore “sociale” quello da cui cominciare per puntare ad un’azienda “sostenibile”, attraverso l’adozione di politiche che, ottimizzando la qualità del rapporto vita-lavoro delle proprie risorse umane, possano portare ad una crescita green and friendly dell’impresa.

I parametri ESG e i vantaggi per le piccole-medie imprese

Anche le PMI sono chiamate a familiarizzare con l’acronimo ESG. Occorre abituarsi all’idea che il rispetto dei parametri ESG (in tutto o in parte) non solo dovrà diventare una prova di sensibilità imprenditoriale all’innovazione, ma più concretamente, sarà uno degli elementi di valutazione degli istituti bancari per l’erogazione di finanziamenti e prestiti. Ma non solo.

Le PMI non potranno rimanere sorde al richiamo delle politiche sottese al ESG, anche in ragione della loro appartenenza a catene distributive di beni e servizi.

Al pari di molte certificazioni internazionali (una fra tutte, la SA8000 – Social Accountability System), la conformità della grande azienda ai principi ESG verrà perseguita, riconosciuta e certificata solo se i medesimi principi verranno pretesi e rispettati da tutta la catena della filiera produttiva (c.d. supply chain), dal ché il prevedibile inserimento nei contratti di clausole e procedure di conformità ai parametri di sostenibilità.

Gli obiettivi di intervento sul fattore “sociale”

La rivisitazione e implementazione di politiche aziendali che riportino al centro l’umanizzazione del rapporto tra datore di lavoro e risorse umane, deve essere preceduta dall’individuazione degli obiettivi di intervento che l’impresa vuole perseguire.

Fra questi, rivestono sicuramente un ruolo preminente:

  • la parità di genere, oggi consacrata dal conseguimento della certificazione di cui al nuovo art. 46-bis del D.lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità),
  • la conciliazione tra vita privata e lavoro, attraverso un’adeguata e personalizzata valutazione dello smart working e del telelavoro,
  • il supporto a forme eco-compatibili di trasporto casa – lavoro, perseguibile attraverso politiche di mobility management
  • l’ottimizzazione della prestazione lavorativa, attraverso l’adozione di modalità di lavoro “intelligenti”.

Gli strumenti normativi per la parità di genere

Sul piano delle politiche del lavoro, occorre segnalare che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) prevede, alla “missione n. 5”, l’attuazione di politiche del lavoro, che puntino ad accompagnare il mercato del lavoro verso una trasformazione fondata sulla parità di genere.

È qualcosa in più, ma soprattutto di diverso dall’imposizione ex lege delle “quote rosa”, che spesso sviliscono l’effettiva competenza a favore di pregiudizi di accesso a posizioni apicali, non per merito, ma per “costrizione”. È un percorso che, partendo da sensibilità e consapevolezza, preveda per tutto il percorso lavorativo, l’applicazione ed il monitoraggio di criteri omogenei e paritetici per uomini e donne.

Sono ormai noti i dati (impietosi) relativi alle differenze retributive e di opportunità di carriera che segnano il solco tra lavoratori e lavoratrici: solco che contraddistingue l’Italia tra i Paesi europei con il peggior tasso di occupazione femminile.

Significativi i dati riportati nelle “Linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere” pubblicato il 16 marzo 2022 dal Dipartimento per le pari opportunità: la nascita di un figlio comporta, per una lavoratrice italiana, la riduzione della probabilità di continuare a lavorare e, in ogni caso, una perdita reddituale nei 24 mesi successivi alla nascita del figlio; le donne in posizioni manageriali in Italia sono solo il 27% del totale.

Il legislatore italiano, forse consapevole di tale divario, sulla scia dell’incentivazione di politiche volte ad una concreta e sostanziale parità di genere tra uomo e donna in ambito lavorativo (v. PNRR), con la l. 162/2021 ha introdotto un nuovo articolo nel Codice delle pari opportunità (art. 46-bis) ,che con decorrenza dal primo gennaio 2022, ha istituito il sistema della certificazione della parità di genere “al fine di attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere…” nell’impresa.

In attuazione della citata disposizione, le citate Linee Guida descrivono i principi ai quali uniformarsi per conseguire la certificazione UNI/PdR 125:2022.

Corollario di tale norma (e da incentivo all’impresa), è l’art. 47 del d.l. 77/2021 (come modificato dalla legge di conversione n. 108/2021 e ss.mm.ii), che ha introdotto la possibilità di ottenere punteggi aggiuntivi nelle procedure di evidenza pubblica per tutte quelle imprese che abbiano “rispettato i principi della parità di genere e adottato specifiche misure per promuovere le pari opportunità generazionali e di genere, anche tenendo conto del rapporto tra uomini e donne nelle assunzioni, nei livelli retributivi e nel conferimento di incarichi apicali”.

Le stazioni appaltanti potranno, quindi, prevedere, nei bandi di gara, requisiti premiali o riconoscere punteggi aggiuntivi agli offerenti che abbiano rispettato i principi della parità di genere.

Dalla disamina di tali disposizioni emerge come il legislatore nazionale sia consapevole della necessità di guidare gli operatori economici verso un nuovo approccio all’attività di impresa; approccio che deve essere necessariamente focalizzato sulle reali competenze professionali e che prescinda dal genere del personale dipendente. Un approccio meritocratico e paritetico che punti all’emersione delle competenze delle risorse umane in una prospettiva di crescita reciproca.

Come incentivare la parità di genere in azienda

Da un punto di vista pratico e operativo, l’imprenditore, che deciderà di attuare politiche lavorative “paritarie” potrà, previa disamina dello status organizzativo aziendale:

  • Introdurre processi di gestione e sviluppo delle risorse umane, che favoriscano l’inclusione e la parità di genere avendo specifico riguardo: ai processi di selezione, alla formazione, alla garanzia del medesimo livello retributivo a parità di competenze, nonché alla “protezione” della lavoratrice e del padre nel periodo pre e post maternità, ivi incluso un’adeguata formazione e aggiornamento;
  • Introdurre politiche del lavoro e aziendali fondate sul coinvolgimento attivo del personale, all’uopo predisponendo procedure, che permettano ai dipendenti, anche in forma anonima, di esprimere le proprie opinioni e suggerimenti o, comunque, poter segnalare molestie e atteggiamenti discriminatori;
  • Introdurre criteri paritetici per le progressioni di carriera;
  • Introdurre sistemi di governance che garantiscano l’accesso paritetico – in base a competenze e requisiti – agli organi di indirizzo e controllo;
  • Istituzione di un organismo di vigilanza a composizione paritetica con funzioni di monitoraggio e proposte di modifica delle procedure;
  • Individuazione, ai fini della partecipazione a consorzi e/o reti di impresa di procedure di adeguamento ai principi della parità di genere.

L’impatto della pandemia sulle forme di lavoro agile

Se la pandemia da Covid-19 ha “costretto” le imprese, inizialmente con grande diffidenza, a ricorrere a forme di lavoro agile sui generis, caratterizzate dallo svolgimento della prestazione lavorativa solo dalla propria abitazione, la stessa pandemia è stata occasione per ripensare al modus di prestare la propria attività.

Il sondaggio compiuto dall’Istituto Nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (INAPP) del 26 gennaio 2022 ha evidenziato che “il 46% dei lavoratori vorrebbe continuare a svolgere la propria attività in modo agile almeno un giorno e quasi 1 su 4 tre o più giorni a settimana”, avendo gli stessi riscontrato dei benefici dal punto di vista della qualità del rapporto casa – lavoro, nonché sulla loro stessa produttività.

Al di là dei dati, è di tutta evidenza che l’implementazione di politiche di lavoro agile (c.d. smart-working) o di telelavoro comporti una sostanziale rivisitazione dell’attuale modello lavorativo, ma ancor prima dell’approccio mentale al lavoro, rendendosi necessario un rafforzamento della relazione di fiducia tra l’imprenditore – datore di lavoro e i lavoratori (da alcuni definita “nuova causa collaborativa e partecipativa del contratto di lavoro”).

Protocollo sul lavoro agile nel privato: come adeguarsi e le ricadute privacy

Sarà opportuno rivedere l’elemento qualificante il rapporto di lavoro subordinato, costituito dalla “messa a disposizione del dipendente” simbioticamente connessa al “tempo della prestazione”, convertendolo in una logica di prestazione per obiettivi, basata non necessariamente sul tempo impiegato, ma sul risultato del lavoro, con conseguente riflessione sulla disciplina dell’orario di lavoro e della connessa retribuzione oraria.

In un’ottica prospettica, sarà più importante verificare che il dipendente sia connesso al computer per un numero predefinito di ore o che, anche senza controllo dell’orario, il datore di lavoro possa verifica il conseguimento degli obiettivi affidati?

La normativa su telelavoro e lavoro agile

Occorre domandarsi se gli attuali istituti giuridici dell’ordinamento siano idonei a favorire una nuova concezione dell’attività lavorativa.

Il telelavoro (la cui disciplina per il settore privato è ancora contenuta in un Accordo Interconfederale del 2004) introduce una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa in una postazione tendenzialmente fissa con attrezzature fornite dal datore di lavoro, con conseguente onere per quest’ultimo di verificare la conformità dell’ambiente e delle attrezzature alle disposizioni in materia di salute e sicurezza.

Ed è proprio quest’ultimo onere in capo al datore di lavoro, che ha disincentivato il ricorso al telelavoro. Si pensi, ad esempio, a lavoratori dislocati capillarmente nell’intero territorio nazionale, che imporrebbe trasferte continue al delegato per la sicurezza, per la verifica della conformità dei presidi di sicurezza.

Il lavoro agile (disciplinato dalla L. 81/2017 agli artt. 18 e ss.), diversamente, si caratterizza per l’alternanza tra il lavoro presso la sede dell’azienda e all’esterno di essa, senza che sia necessaria una preventiva individuazione di una sede esterna fissa.

Al contrario del telelavoro, per quanto attiene alla sicurezza sul lavoro, gli oneri del datore di lavoro rimangono circoscritti al solo dovere di informazione, focalizzato sul rispetto delle modalità di utilizzo degli strumenti informatici e del diritto alla disconnessione per il lavoratore.

Anche a seguito della pandemia che ha abituato il dipendente all’utilizzo del lavoro agile “a tempo pieno”, è sempre più sentita la necessità di ricorrere a tale istituto per fasce orarie superiori a quelle indicate dalla normativa, “normalizzando” il lavoro da casa, con conseguente possibilità per il datore di lavoro anche di una riorganizzazione degli spazi aziendali ed una conseguente contrazione dei costi.

Rimane ancora critica, in questo istituto, la gestione della sicurezza informatica e della riservatezza dei dati, atteso che la possibilità di lavorare con “strumenti propri” e “in ogni luogo” confligge per tabulas con l’adozione di misure di sicurezza adeguate e idonee a garantire l’integrità e la riservatezza dei dati, delegando alla sola sensibilità e responsabilizzazione del lavoratore il presidio preventivo e di controllo.

Come favorire telelavoro e lavoro agile in azienda

Cercando soluzioni compatibili con i dettami giuridici esistenti, l’imprenditore che voglia attuare politiche di flessibilità e sostenibilità dei rapporti di lavoro, dovendo operare all’interno di contorni legislativi ancora incerti, potrà:

  • con riferimento al telelavoro, fermo restando l’inderogabilità della responsabilità del datore di lavoro in tema di sicurezza, predisporre Protocolli (anche attraverso l’implementazione del DVR), che individuino i presidi minimi di sicurezza necessari per lo svolgimento del lavoro con modalità di telelavoro, al fine di selezionare ex ante i “candidati” idonei ed agevolare i controlli ex post in costanza di rapporto. Si potranno altresì individuare ruoli e mansioni che meglio si attanagliano a questa modalità di lavoro.
  • Più ampi i margini di autonomia dell’impresa nella gestione del lavoro agile. Mutuando lo smart working di stampo “pandemico”, sarebbe possibile ipotizzare l’introduzione di una forma contrattuale, che consenta di ridurre sensibilmente il rientro del lavoratore nella sede aziendale, magari anche attraverso una preventiva certificazione del contratto di lavoro presso le Commissioni delegate, volte ad evitare una successiva impugnazione del rapporto. Ancor più ampia l’autonomia delle parti di individuare l’oggetto della prestazione, anche attraverso l’individuazione di obiettivi. Fondamentale, infine, la formazione e informazione ad hoc del dipendente in smart working, rivolta ad una corretta percezione dell’importanza della privacy e dei necessari comportamenti da adottare a presidio e tutela dei dati, con introduzione di ipotesi sanzionatorie in caso di violazione.

Se alcune delle ipotesi sopra individuate potranno essere individualmente pattuite con il dipendente, l’istituzionalizzazione del ricorso a modalità flessibili di lavoro e la definizione dei requisiti e delle ipotesi sanzionatorie, potrebbero trovare ampia e dettagliata disciplina negli accordi sindacali di secondo livello, il cui pregio sarebbe quello di coinvolgere i sindacati, in un processo di innovazione (anche mentale) e di stabilizzare nel tempo un nuovo modo di “fare lavoro”.

Come aumentare la mobilità sostenibile dei lavoratori

Sul piano della sostenibilità intesa in senso ampio, si segnala il recente intervento del legislatore che, al fine di ridurre l’impatto ambientale dovuto agli spostamenti casa-lavoro con mezzi privati, ha introdotto nuovi adempimenti in capo all’impresa.

In particolare, l’art. 229, comma 4, del decreto-legge 34/2020 (c.d. Decreto rilancio), così come modificato dalla legge 77/2020, ha introdotto, per le aziende (e le pubbliche amministrazioni) con singole unità produttive che occupano più di cento dipendenti ed ubicate presso un ente locale (comune, città metropolitana, capoluogo di regione) con popolazione superiore a 50.000 abitanti, il dovere di adottare entro il 31 dicembre di ogni anno, un piano degli spostamenti casa-lavoro del personale dipendente, che individui metodi alternativi all’uso dei mezzi motorizzati privati per raggiungere la sede lavorativa.

Se da un punto di vista legislativo, l’obbligo riguarda solo le aziende come sopra perimetrate, la doverosa sensibilizzazione alla transizione ecologica dell’imprenditore, impone una riflessione per tutte le aziende.

Sarà sufficiente, ad esempio, per le aziende che concedono l’autovettura, quale benefit aziendale, optare per veicoli elettrici e, in ipotesi di dismissione, concederla in uso ai dipendenti che abitano in prossimità dell’azienda o che debbano svolgere commissioni all’esterno dell’azienda. Ed ancora.

Programmare l’acquisto e la concessione in uso di trasporti alternativi, quali bici elettriche o navette aziendali, magari condividendo l’investimento con imprenditori della medesima zona. Prevedere “bonus mobilità” in favore dei dipendenti, che utilizzano forme di mobilità sostenibile per raggiungere il luogo di lavoro. Ma ancor prima dell’adozione di qualunque iniziativa concreta da parte del singolo imprenditore, sarà necessaria una politica di sensibilizzazione pubblica dell’importanza dell’impatto ambientale, ad esempio estendendo i benefici fiscali del welfare anche a scelte ecosostenibili in favore dei dipendenti.

Le modalità di lavoro fondate sull’intelligenza artificiale

Seppur brevemente, è opportuno valutare quale ruolo svolga la trasformazione digitale nel lavoro sostenibile, cercando di andare oltre al riduttivo luogo comune che demonizza la macchina, quale causa di esuberi dei lavoratori, cercando invece di individuarne le opportunità.

Mentre ancora il diritto dal lavoro (fatta eccezione per alcune disposizioni quali l’articolo 4 dello statuto dei Lavoratori che circoscrive il potere di controllo del datore di lavoro attraverso ausili informatici) non ha ancora colto le potenzialità e criticità dello sviluppo tecnologico, la realtà ogni giorno ci pone di fronte a nuove sfide.

Basti pensare alla sempre più crescente trasformazione digitale dei cicli produttivi, che indubbiamente aumentano la produttività e la qualità del prodotto/servizio, ma possono costituire un utile ausilio per diminuire lo stress da lavoro correlato ed i casi di sindrome da Burnout.

Ed ancora, l’evoluzione tecnologica ha portato a delegare a un algoritmo il potere organizzativo e dispositivo del datore di lavoro, ad esempio nello svolgimento dell’attività dei riders, la cui prestazione lavorativa, di fatto, viene gestita e coordinata solo tramite l’applicazione installata sul telefono cellulare. Sempre più diffuso l’utilizzo dell’innovazione tecnologica nel settore della sanità, non solo ai fini diagnostici, ma anche terapeutici e interventistici.

Ma l’intelligenza artificiale ha creato e continuerà a creare nuovi profili professionali e nuove attività. Solo pochi anni fa era inimmaginabile ipotizzare, quale fonte di reddito, la sola pubblicazione di post sulle piattaforme social da parte dei creator (nel pressoché totale vuoto normativo). Quale il ruolo dell’imprenditore in questo contesto?

Innegabile, innanzitutto, l’esigenza dell’imprenditore tecnologico, di valutare il passaggio generazionale dei dipendenti, favorendo l’accesso al lavoro delle nuove generazioni Z, avvezze al quotidiano rapporto con gli strumenti informatici, creando opportunità per nuove figure professionali.

Fondamentale ed infungibile, inoltre, il delicato compito di provare a gestire o quantomeno attenuare le criticità dei sistemi automatizzati, cercando di “umanizzarne” la percezione e il loro utilizzo.

Centrale, in questo contesto, da un lato la formazione del dipendente, volta alla conoscenza di vizi e virtù della macchina attraverso la diffusione di protocolli informativi e, dall’altra, un’attenta e sicura gestione dei sistemi, affinché il loro utilizzo non si trasformi in selvagge forme di controllo illegittime e immotivate acquisizioni di dati personali.

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Concretamente, quindi, l’impresa potrà:

  • Predisporre corsi di formazione ad hoc per i propri dipendenti che siano incentrati sulle innovazioni tecnologiche introdotte nel ciclo produttivo;
  • Conseguentemente, introdurre policy aziendali incentrate sul corretto uso delle nuove tecnologie e che abbia come obiettivo anche quello della salvaguardia dei diritti del personale che le utilizza, ma anche la riservatezza, liceità e sicurezza dei dati da loro trattati;
  • Intavolare forme di concertazione con le organizzazioni sindacali dei lavoratori, al fine di valutare le conseguenze in termini di condizioni e qualità del lavoro derivanti dall’introduzione di nuovi modelli di lavoro basati sull’evoluzione tecnologica.
  • Incentivare il turnover generazionale, anche attraverso l’utilizzo dei “Contratti di Espansione” (prorogato con la legge di bilancio a tutto il 2023), che consente uno scivolo pensionistico ai lavoratori prossimi alla pensione (a non più di cinque anni), a fronte dell’impegno dell’impresa di un piano di formazione e riqualificazione del personale già in forza e un programma di nuove assunzioni.

Conclusioni

Anche se ogni punto della disamina che precede genera ulteriori spunti e merita approfondimento, anche i soli cenni a quanto sopra devono introdurre una certezza: il lavoro sostenibile non è un problema “altro”, né una visione utopica e futuristica.

A volte si tratterà di reinterpretare ed organizzare le buone azioni che ciascun imprenditore già mette in atto nella quotidianità, a volte si tratterà di ascoltare le difficoltà ed esigenze dei propri collaboratori e a volte occorrerà mettersi in discussione.

Qualunque sia il percorso per raggiungerlo, l’obiettivo dovrà essere quello di ritrovare una nuova alleanza tra datore di lavoro e lavoratore, in un’ottica di reciproco miglioramento della qualità del lavoro e della vita privata, ma anche una nuova alleanza tra questi protagonisti e l’ambiente esterno.

Ma non solo. L’imprenditore che investirà nel lavoro sostenibile potrà diventare un esempio virtuoso per tutti da divulgare, cogliendo l’occasione per un ritorno di immagine attraverso nuove forme di comunicazione e marketing.

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