La transizione ecologica pone sfide al mondo, a tutto campo. Sociali, politici. Geopolitici. Un tema su cui solo di recente, con l’accelerazione delle politiche energetiche internazionali, gli esperti e i Governi cominciano a interrogarsi.
Di fronte a un grande cambiamento, sono inevitabili scossoni, discontinuità, cambi di rapporti di forza. Anche devastanti.
Gli investimenti e il lavoro si sposteranno in modo significativo dentro i paesi e tra i paesi, e i consumatori dovranno adeguarsi a nuovi prezzi relativi, a nuove fonti, a nuove tecnologie energetiche e a nuovi modelli comportamentali.
Per realizzare la transizione ecologica sono necessari anche ingenti investimenti nella digitalizzazione delle reti e dei terminali, con applicazioni cruciali di analytics, big data e intelligenza artificiale, terreni molto scivolosi in particolare nei rapporti con la Cina.
Transizione ecologica, Ue alla svolta? Ecco perché serve una “rivoluzione di sistema”
Transizione ecologica, la sfida
Si tratta di un impegno colossale dei singoli governi che per avere successo deve essere coordinato a livello internazionale. La stessa Unione Europea, che è la più attrezzata su questa frontiera, incontrerà enormi resistenze interne. Senza una partnership con gli Stati Uniti e il Giappone, sarà impossibile superare senza cedimenti le difficoltà che sorgeranno nel confronto con la Cina.
A queste si aggiungeranno quelle derivanti dagli squilibri che, a medio termine, la transizione energetica provocherà, quando verranno colpiti gli interessi vitali dei petro-states, ossia dei regimi che sopravvivono grazie alla rendita degli idrocarburi.
A breve prevale l’effetto positivo, per questi stati, dell’incremento dei prezzi determinato da fattori contingenti, ma a medio termine le tensioni e le resistenze contro la transizione ecologica si faranno sentire, rendendo più complicato il raggiungimento di risultati che già oggi appaiono come troppo ambiziosi, anche se necessari, traguardi.
Gli scenari energetici a medio termine
Il World Energy Outlook dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), ha effettuato simulazioni sull’evoluzione delle temperature del pianeta, determinate dalle emissioni di CO2, che pongono in una luce realistica gli impegni presi a Glasgow, nel meeting del COP26.[3] Le stime confrontano i risultati di quattro scenari:
- lo scenario ad emissioni nette zero nel 2050 (NZE);
- quello in cui vengono raggiunti gli obiettivi dellok sviluppo sostenibile definito in sede ONU (SDS);
- lo scenario determinato dagli impegni assunti dai governi (APS);
- quello che si basa sullo stato attuale delle regole assunte dai governi (STEPS).
Partiamo da quest’ultimo scenario, quello “a bocce ferme” come si suol dire. Dopo la notevole ripresa dei consumi del 2021, le emissioni rallentano la loro crescita fino al 2030, quando raggiungono un massimo prima di cominciare a scendere lentamente fino al 2050.
Figura 1: Emissioni nette di CO2 secondo le stime IEA per diversi scenari
Ai diversi scenari corrispondono diverse temperature medie (vedi figura 2). Esse continuano a crescere anche nell’ipotesi più favorevole, quella delle emissioni nette zero nel 2050, con una differenza di un grado che registrerebbe nel 2050 tra i due scenari estremi. Per abbassare la traiettoria evolutiva in direzione di quella più sostenibile, ossia a zero emissioni nette nel 2050, contenendo l’ aumento della temperatura media ad 1,5 gradi, rispetto ai 2,5 del business as usual ed EIA indica le politiche che, adottate a livello mondiale, possono consentire di raggiungere questo risultato:
- investimenti addizionali nella produzione elettrica da fonti rinnovabili (raddoppio dello sviluppo di solare ed eolico rispetto alla soluzione “a bocce ferme” e del nucleare);
- focus costante sull’efficienza energetica (trasporti e riscaldamento elettrici) e sui comportamenti dei consumatori;
- riduzione delle emissioni di metano nell’industria estrattiva;
- attuazione delle tecnologie sperimentali di carbon sequestration, di riduzione delle emissioni nelle industrie energivore (acciaio, cemento etc).
Figura 2: Aumento medio della temperatura al suolo nei diversi scenari IEA
È un programma di interventi colossale, che mette in movimento non solo la ricerca, ma anche la finanza e il lavoro: gli investimenti si spostano sui settori innovativi e sulle tecnologie sostenibili, così gli occupati e le prospettive dei paesi produttori di combustibili fossili vedono fortemente modificato il quadro di riferimento a medio termine, con un effetto di spiazzamento in prospettiva dei settori più energivori e dei paesi meno impegnati nella transizione ecologica.
Figura 3: Contributo di diversi interventi sulla riduzione delle emissioni per raggiungere lo scenario ottimale NZE
Impatto sui consumi di combustibili fossili e rischi di instabilità globale
L’impatto sulla domanda di fonti fossili è assai diverso a seconda degli scenari.
Nella figura 4 troviamo i grafici di tre previsioni della domanda di petrolio: quella più elevata è relativa al business as usual o bocce ferme, come l’abbiamo chiamato, quella intermedia riporta le stime effettuate per il caso in cui gli impegni presi vengano rispettati, e infine quella più bassa è relativa allo scenario zero emissioni nette nel 2050.
Come si vede la domanda, espressa in milioni di barili/giorno, nello scenario più positivo dal punto di vista delle emissioni, si traduce in una riduzione della domanda di petrolio di quasi un terzo, rispetto al tendenziale. Questa riduzione dei volumi venduti dai paesi produttori, si traduce in una perdita ancor maggiore in termini di ricavi e di profitti, poiché il prezzo del barile, in presenza di una riduzione della domanda, tenderà a scendere.
Figura 4: Previsioni della domanda di petrolio in diversi scenari
Al di là delle evidenti difficoltà che le politiche di riconversione energetica incontreranno nelle diverse aree mondiali, un “picco di domanda” dei combustibili fossili è ormai all’orizzonte, più o meno ravvicinato a seconda degli scenari adottati.
Le previsioni di un “picco di domanda” di fonti fossili determinato dalle politiche ambientali e dal cambiamento tecnologico, picco oltre il quale i consumi cominceranno a scendere, rappresenta per gli stati esportatori, in particolare la Russia e quelli del Golfo, “una minaccia devastante almeno tanto quanto quella del cambiamento climatico.”[4]
IEA ed altri osservatori delineano una riconversione a tappe forzate delle economie dei paesi esportatori, per prepararsi ad affrontare la prossima riduzione della domanda di idrocarburi.
Ma l’efficienza dei pozzi è molto diversa e quindi è molto diverso il costo di estrazione, così come è molto diversa la qualità del greggio estratto. Penalizzazioni (ad esempio attraverso la tassa sulle emissioni) del greggio più inquinante possono portare ad un processo di selezione dei produttori, particolarmente forte nello scenario a zero emissioni nette nel 2050. La qualità elevata del greggio dei paesi OPEC e della Russia e il basso costo di estrazione porterebbero, in quello scenario, la produzione di questo gruppo di paesi ad aumentare il proprio peso sul soddisfacimento della domanda mondiale, dall’attuale 47% al 61% del 2050, creando una lunga coda dei paesi esportatori meno efficienti che si troverebbero nella necessità di aumentare la produzione per far fronte alle necessità di bilancio, con l’effetto di rendere instabile il mercato globale[5].
I petro-states tra crescita dei prezzi e riduzione della domanda
Torniamo ora alla dinamica di breve termine dei prezzi degli idrocarburi, che oggi sta rimpinguando le casse dei petro-states. La fase attuale di aumento dei prezzi degli idrocarburi è determinata da vari fattori.
In primis la ripresa brusca dell’economia mondiale, poi la crisi della produzione eolica nel Nord Europa, e quindi l’accresciuta domanda di gas, che è ormai la fonte primaria per la generazione elettrica in Europa, hanno portato ad una crescita dei prezzi degli idrocarburi molto forte. Essa pone in secondo piano la prospettiva a medio termine di riduzione della domanda degli stessi. Alcuni ritengono addirittura che la fase attuale di aumento dei prezzi degli idrocarburi vada ricercata proprio negli impegni per la transizione energetica o quantomeno che questa fase richieda di sussidiare i consumatori garantendo quindi un beneficio indiretto alle energie da fonte fossile. E’ quello che sta facendo anche il nostro governo.
Tuttavia, nel lungo termine ogni fattore che ritarda la transizione energetica verso le fonti rinnovabili, ritarda l’acquisizione dei benefici non solo ambientali, ma anche economici che deriverebbero nel lungo periodo dalla sostituzione delle fonti fossili.
Le caratteristiche di un “petro-state”
Un gruppo di paesi sono esportatori di idrocarburi. Per il resto, essi hanno poco in comune: Russia e Arabia, Venezuela e Norvegia, per fare alcuni esempi, sono realtà completamente diverse. Che cosa indica, quindi, il termine petro-states che oggi riemerge nel dibattito sulla svolta energetica? E di che svolta si tratta?
Il termine indica non soltanto un paese nel quale l’esportazione di idrocarburi quali petrolio e gas rappresenta una quota importante del reddito nazionale, ma anche un paese dotato di una struttura istituzionale debole, un’amministrazione corrotta e orientata a sfruttare quelle risorse a favore dell’elite dominante.
Per usare un’altra categoria significativa, un petro-state è contraddistinto da una classe dirigente estrattiva, ossia dedita all’accaparramento delle risorse a proprio favore, senza capacità o voglia di allargare la base produttiva, senza alcuna intenzione di aprire al commercio internazionale se non per i propri stretti sostenitori o finanziatori, determinata a non liberalizzare i movimenti di persone e di capitali[1].
Il termine petro-state si è affermato dopo le imponenti ricerche degli ultimi decenni del secolo scorso, condotte da Terry Lynn Karl, secondo il quale “i petro-stati poggiano su una traiettoria di sviluppo alimentata da una risorsa inesauribile e sulle rendite prodotte da questa risorsa costituiscono una implacabile barriera contro il cambiamento” [2].
Perché i petro-states sono tornati alla ribalta
La riflessione di Karl è tornata di attualità per diverse ragioni.
La prima ha a che fare con il pericolo, temuto dai governi dei petro-states, che gli impegni internazionali per la riduzione delle emissioni di gas serra e l’evoluzione tecnologica nella generazione e distribuzione di energia, possano minare a medio termine la capacità di disporre di risorse in valuta connesse all’eportazione degli idrocarburi.
La seconda è che, dopo un lungo periodo in cui, dopo il 2014, il prezzo dei combustibili fossili era precipitato ad un livello assai basso, mentre nell’ultimo anno assistiamo ad una ripresa che, specie per il gas, sta spingendo il prezzo a livelli record, con effetti negativi che potrebbero compromettere la delicata fase di ripresa economica successiva al primo impatto della pandemia.
Naturalmente l’evoluzione favorevole dei prezzi nel breve periodo è un’ottima notizia per i petro-states; perfino il disastrato Venezuela potrebbe assistere ad una modesta crescita del reddito per effetto dell’aumento dei prezzi nel 2022.
Altra cosa è la prospettiva che la continua crescita dei consumi petroliferi si interrompa e dia luogo addirittura ad una riduzione dei consumi. Questo passaggio, se si verificasse nei prossimi decenni, come risulta dalle previsioni associate agli scenari di contenimento delle emissioni e in parte anche dal progresso tecnico nella produzione e nei consumi energetici, costituisce una minaccia non solo economica e finanziaria per i governi che si finanziano con le royalties sugli idrocarburi, ma anche per la stabilità delle elite che tengono in pugno i petro-states, dalla Russia, all’Arabia, dagli Emirati alla Nigeria, dalla Libia al Venezuela.
Una ricerca dell’Università di Oxford stima che il prezzo medio dell’energia nel 2030 e ancor più nel 2070 sarebbe inferiore al livello attuale se si spingesse l’acceleratore sulla transizione energetica[6].
Il Venezuela, prototipo del petro-state, potrà in qualche misura avvantaggiarsi dall’aumento del prezzo degli idrocarburi, ma la sua capacità produttiva che non è più in grado di sostenere un aumento della produzione: essa è precipitata da oltre 3 milioni di barili/giorno del 2000 a meno di mezzo milione del 2020, per effetto delle nazionalizzazioni, dell’espulsione dei tecnici avversi al regime, delle malversazioni che avevano portato, secondo le stime, già negli ultimi 20 anni del secolo scorso oltre 100 miliardi dollari di royalties nelle tasche degli affaristi di regime.
Il fallimento del chavismo e del madurismo è costato 6 milioni di emigrati usciti dal 2014 in poi (pari al 20% della popolazione), con il reddito ridotto di due terzi dal 2014 al 2020, con un’inflazione del 2000% all’anno e la perdita di un ruolo persino come esportatore di petrolio.[7]
Secondo una analisi recente, la Russia di Putin ha raggiunto un assetto che apparentemente sembra stabile: le sue rendite da idrocarburi sono destinate a finanziare i progetti di Putin con l’export di petrolio e a sussidiare i consumi interni e alimentare le rendite degli amici del Cremlino con l’esportazione del gas. I prezzi crescenti dei diversi idrocarburi sono tuttavia un elemento di instabilità, poiché mettono in discussione questa ripartizione delle rendite e creano divisioni tra i sostenitori del regime, mettendo a repentaglio la stabilità del settore energetico che alimenta il petro-state[8].
Per ora, le reazioni dei petro-states all’entusiasmo con cui sono state accolte le strategie di transizione energetica sono state prudenti. Senza negare la validità degli obiettivi di lungo periodo relativi all’abbattimento delle emissioni, sia da parte russa, sia da parte dei paesi del Golfo si è puntato il dito soprattutto sui rischi di disinvestimento che scaturiscono da una visione meccanicistica della transizione.
Essa implica, infatti una riduzione degli investimenti in nuovi giacimenti e la concentrazione delle risorse ridimensionate sul miglioramento di quelli esistenti, come dimostra la tabella 1 tratta dall’Outlook IEA.
Nello scenario più impegnativo, quello delle emissioni nette zero nel 2050, a partire dal 2021 la riduzione di investimenti in nuovi giacimenti sarebbe, rispetto al business as usual (scenario STEPS), di 816 miliardi di dollari e di 128 nei giacimenti già attivi.
Tabella 1: Investimenti attesi nei diversi scenari IEA, tra vecchi giacimenti e nuovi giacimenti
Tra gli argomenti, non di natura politica, sollevati contro questa visione proposta dall’IEA, il primo ministro russo Alexander Novak ha insistito sul fatto che la caduta degli investimenti nell’estrazione petrolifera comporterebbe un elevato rischio di aumento a breve del prezzo del petrolio, con effetti negativi importanti sulla crescita mondiale[9].
Le tecnologie e la transizione energetica
Tra gli interventi più rilevanti sotto il profilo tecnologico, occorre considerare quelli che investono le reti di trasmissione/distribuzione dell’energia elettrica, per assicurare il passaggio alla smart grid, ovvero ad una rete di trasmissione/distribuzione in grado di regolare i flussi nei due sensi adeguando di conseguenza la produzione delle diverse fonti/aree del territorio coperto dalla rete. In tal modo si consente di utilizzare la produzione locale immettendola in rete con un minimo ricorso allo stoccaggio nei costosi e poco sostenibili impianti di accumulazione.
La produzione di idrocarburi è concentrata in alcuni paesi fortemente esportatori e ciò, come insegna la storia dell’OPEC, pone il mercato sotto una tutela che può essere stabilizzante o destabilizzante a seconda del prevalere di un orientamento politico o di quello opposto. In ogni caso l’Unione europea cerca da anni di diversificare le fonti di approvvigionamento e teme una eccessiva dipendenza dal gas russo, come insegna la contrastata vicenda del gasdotto North Stream.
Ma la transizione energetica non è priva di rischi. Anzi, proprio sul piano della concentrazione delle risorse, le tecnologie oggetto di maggiori investimenti futuri: celle fotovoltaiche, smart grid con sensori e controlli distribuiti, digitalizzazione dei misuratori o contatori intelligenti, estensione delle reti intelligenti di trasmissione e distribuzione, aumento della capacità di stoccaggio con batterie distribuite, comportano un ricorso a materie prime le cui esportazioni sono assai più concentrate degli idrocarburi.
Figura 5: Indice di concentrazione e dimensione del mercato per alcune materie prime essenziali per la transizione energetica
Come si vede sull’asse orizzontale c’è l’indice di concentrazione: a sinistra c’è meno concentrazione, a destra c’è maggiore concentrazione. Il petrolio ha un elevato valore della dimensione del mercato, ma un basso indice di concentrazione. Analoga constatazione vale per il gas, mentre il carbone è più concentrato.
Le cose cambiano radicalmente per le materie prime essenziali per la transizione ecologica e per la digitalizzazione delle reti: dove i produttori di litio, terre rare e cobalto (per le batterie) risultano pochi e quindi l’offerta mondiale nelle mani di pochi decisori. Tra questi un ruolo determinante lo gioca la Cina, il paese con cui le democrazie occidentali si scontrano quotidianamente su tutti gli aspetti fondamentali che hanno assicurato lo sviluppo della globalizzazione in questi ultimi vent’anni, dai diritti umani alla finanza, dalla tutela dei diritti di proprietà alla mobilità dei capitali e delle persone, dalla sicurezza cyber alla protezione dei dati.
A queste considerazioni ne dobbiamo aggiungere un’altra, valida certamente nel breve periodo. La costruzione delle smart grid passa attraverso un processo di digitalizzazione che richiede il dispiegamento di reti e di terminali intelligenti. Questi esigono una intensiva applicazione di processori e di memorie, entrambi prodotti la cui offerta è sottoposta a tensioni formidabili che potrebbero trascinarsi per l’intero anno prossimo. Anche qui le questioni con la Cina affollano l’agenda dei Ministri degli esteri e dei Segretari di Stato europei e americani.
Note
- ) D. Acemoglu, J. Robinson, Economic Origins of Dictatorshipè and Democracy, Cambridge University Press 2006. ↑
- ) Terry Lynn Karl, The Perils of the Petro-State: Reflections on the Paradox of Plenty, Journal of International Affairs, Fall 1999, 53, no. 1. © The Trustees of Columbia University in the City of New York. ↑
- ) IEA, World Energy Outlook-2021. Dall’Outlook sono tratte le figure riportate in questa nota. ↑
- ) Antoine Halff, Robin Mills, Having It Both Ways: GCC Oil Facese Peak Demand, Columbia SIPA, December 15 2021. ↑
- ) IEA, op cit, Chapter 6. ↑
- ) Rupert Way Penny Mealy, J. Doyne Farmer, Estimating the costs of energy transition scenarios using probabilistic forecasting methods, INET Oxford Working Paper No. 2021-01. ↑
- ) Amelia Cheaatham, Diana Roy, Rocio Cara Labrador, Venezuela: The Rise and Fall of a Petrostate, Council on Foreign Relations, Updatetd December 29, 2021. ↑
- ) Albrecht Rothacher, Putinomics, Chapter The Russian Petrostate, Springer 2021. ↑
- ) Dina Khrennikova , Olga Tanas, Petrostates see dire consequneces if world rejects oil too fast, Bloomberg, June 3 2021. ↑