Grazie all’interoperabilità garantita dagli standard Internet, abbiamo tappezzato la terraferma di sensori e attuatori di ogni tipo non solo in ambienti industriali, ma anche nelle nostre case: dal controllo di tapparelle e luci all’orchestrazione di dispositivi attraverso app e assistenti vocali.
Non c’è da stupirsi, quindi, che si cominci a parlare di immergere sensori e attuatori in reti di dispositivi smart situati in acqua (Internet of Underwater Things – IoUT). Anche perché è sott’acqua il 71% del nostro pianeta.
Ma l’acqua è un ambiente tecnologicamente ostile, dove la fisica dei fluidi domina molte dinamiche e la vita dei manufatti umani tende ad accorciarsi. A meno di non disporre di impegnativi cicli di manutenzione.
IoUT: il progetto Natick
È (triste) notizia di questi giorni l’impiego di delfini nel mar Nero che “indossano” dispositivi elettronici utilizzati nelle operazioni militari. Un impiego che può essere considerato un’applicazione IoUT.
La capacità di dissipazione dell’acqua attrae anche i grandi cloud provider: è sicuramente degno di nota il progetto Natick, nato per verificare la fattibilità di datacenter marini ancorati vicino alla costa, in modo da abbattere i costi di raffreddamento e, potenzialmente, fare ricorso alla generazione di corrente di alimentazione attraverso l’energia meccanica delle onde.
Come mostrano le foto del recupero marino, anche in un breve tempo l’ambiente subacqueo ha subito incluso l’”intruso” nel proprio ecosistema, e richiesto procedure apposite per la manutenzione.
È quindi naturale interrogarsi sulla capacità di realizzare piccoli dispositivi capaci di resistere ad un ambiente ostile e in cui è più difficile reperire fonti energetiche utilizzabili per alimentare un grande numero di dispositivi.
Inoltre, fatto ancor più importante, la comunicazione sott’acqua non può sfruttare le tecniche che utilizziamo in superficie a meno di non usare sistemi di cavi, sicuramente poco pratici nella realizzazione di reti distribuite di dispositivi: quale può essere l’equivalente della trasmissione Wi-Fi/5G sott’acqua?
IoUT: la sfida dell’alimentazione elettrica subacquea
L’alimentazione subacquea pone problemi che sulla terraferma abbiamo, almeno in parte, affrontato e risolto: ma batterie, pannelli solari e fili sono difficili da immaginare sott’acqua.
Sappiamo già generare energia dal movimento delle onde: Eni ha annunciato nel 2019 la realizzazione di una centrale nell’Adriatico utilizzando delle barche dalla particolare struttura, come mostrato in figura.
Un progetto del Medialab del MIT fa uso di materiali piezoelettrici per trasformare onde sott’acqua in energia e viceversa, al fine di trasferire sia dati che energia, ed evidenzia come sia possibile avere una forma di dispositivo IoT subacqueo alimentato da una flebile corrente.
Per sensori e attuatori sufficientemente grossi e che non necessitano di mobilità, è sempre possibile prevedere un’alimentazione proveniente dalla superficie.
IoUT: la comunicazione subacquea tra dispositivi
È esperienza comune che la comunicazione subacquea sia complicata, e lo è anche per i dispositivi: la propagazione di onde elettromagnetiche viene attuata significativamente sott’acqua, e anche quella basata sulla trasmissione della luce.
Come tutti sappiamo dalla popolarità dei sonar nelle imbarcazioni, sono le onde acustiche a propagarsi meglio nell’acqua e pertanto probabilmente la tecnologia più promettente.
Non è pensabile un sistema di comunicazione in cui tutti i dispositivi immersi possano parlare direttamente: sembra più promettente un approccio in cui i dispositivi raggiungano solo i propri vicini in una rete di comunicazione opportunistica. Una rete in cui, se necessario, i nodi possono inoltrare le comunicazioni se non sono destinatari di un particolare messaggio.
Un aspetto molto importante da considerare è che la banda di comunicazione offerta dalle onde sonore è modesta e con una latenza significativa. Ma l’attenuazione degli altri mezzi di comunicazione che consentirebbero bande più elevate richiede una più densa popolazione di elementi di comunicazione.
Questo fattore è centrale per la realizzazione di una piattaforma IoUT: i protocolli Internet non sono efficientissimi in termini di overhead di dati, e una ridotta banda potrebbe spingere lo sviluppo di protocolli dedicati, che limiterebbero il vantaggio introdotto dall’IoT di usare protocolli standard diffusi in sistemi con maggiore capacità di calcolo.
Nelle prime applicazioni delle tecnologie IoUT, è quindi legittimo immaginare situazioni in cui i dispositivi IoUT dialoghino con un natante di superficie, il cui compito sia quello di fare da gateway verso i protocolli Internet e di conseguenza con i sistemi di calcolo edge.
Come avviene per le trasmissioni radio, anche nella comunicazione subacquea è necessario preoccuparsi della sicurezza dei messaggi scambiati: tecniche crittografiche possono contribuire a rendere sicuro il canale di comunicazione per evitare sia l’intercettazione che l’invio di messaggi contraffatti verso i dispositivi.
L’esigenza di una progettazione sostenibile
La ricerca e le prime startup si stanno concentrando per affrontare le sfide della comunicazione e dell’alimentazione di dispositivi IoUT. La possibilità di monitorare il mare ha sicuramente un enorme potenziale, ma è importante ricordare che già adesso il livello di microplastiche e altri agenti inquinanti è a livelli di guardia: prima di pensare di impiegare miliardi di dispositivi IoUT, dovremmo valutarne anche l’impatto ambientale.
Un dispositivo flottante può facilmente perdersi e divenire un rifiuto, così come apparecchi divenuti obsoleti o rotti per i quali non è possibile o conveniente effettuare il recupero.
L’impiego di materiali che siano il più possibile sostenibili per i nostri mari o laghi deve quindi essere una priorità per evitare di contribuire al già grave degrado in corso.
Purtroppo, i materiali più sostenibili per la realizzazione di dispositivi IoUT sembrano essere anche quelli più fragili, ma forse un mondo di dispositivi in continuo rinnovamento potrebbe essere più auspicabile rispetto ad uno in cui rifiuti tossici si accumulano nei mari e negli altri corsi d’acqua.
Si tratta di un dilemma da affrontare prima che emergano le applicazioni: abbiamo già commesso con l’esplorazione spaziale l’errore di inviare in orbita continuamente nuovi oggetti al punto da aver reso un problema i detriti dei dispositivi caduti in disuso per varie ragioni.
Conclusioni
L’IoUT è una tecnologia ancora nella sua infanzia: sono numerose le sfide da cogliere e i problemi da risolvere per poter procedere ad una diffusione massiva di dispositivi subacquei.
Nel futuro immediato, l’uso di dispositivi di superficie o ancorati vicino alla costa sembra quello più realistico, che potrebbe già contribuire a monitorare la parte meno esplorata del nostro pianeta blu: il 71% delle terre coperte.