DNF e ESG

Le imprese verso la prima dichiarazione di sostenibilità: ecco tutti gli obblighi



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Le nuove scadenze di fine anno pongono le aziende di fronte ai requisiti per la rendicontazione sulla sostenibilità. Ecco come le imprese italiane stanno affrontando questi obblighi e le implicazioni di DNF e ESG nella loro strategia di business

Pubblicato il 27 nov 2023

Giuseppe d’Ippolito

European Climate Pact Ambassador



PMI: ecco gli strumenti di finanza sostenibile per la transizione

Incombono le scadenze di fine anno per imprese e società. E con l’esercizio finanziario 2024, entreranno in vigore gli obblighi di rendicontazione sulla sostenibilità che si concretizzeranno con la prima dichiarazione di sostenibilità, da pubblicare nel 2025 per le imprese già soggette alla Non-Financial Reporting Directive, grandi società quotate, banche e imprese assicurative con più di 500 dipendenti, nonché grandi società quotate extra UE con più di 500 dipendenti e filiali in UE.

Altre grandi società e società quotate extra UE sono tenute ad adottarla dall’anno finanziario 2025, con prima dichiarazione di sostenibilità pubblicata nel 2026. Mentre le PMI quotate (comprese le PMI quotate extra UE), invece sono tenute all’adozione della rendicontazione sulla sostenibilità dall’anno finanziario 2026, con la prima dichiarazione di sostenibilità pubblicata nel 2027. Tuttavia, le PMI quotate possono decidere di prorogare gli obblighi di rendicontazione per altri due anni.

DNF e ESG

Non c’è molto tempo per attrezzarsi al meglio, almeno per i soggetti obbligati già a partire dai prossimi mesi che ancora non l’abbiano fatto, ma sarebbe un errore anche cullarsi sulle altre scadenze di un calendario largo e non provvedere, già da subito, ad una serie di adempimenti la cui adozione conviene in termini di marketing e di finanza che spiegherò dopo.

Del resto, non dimentichiamo che sono già in vigore da sei anni, gli obblighi derivanti dal Decreto Legislativo 30 dicembre 2016, n. 254 che, dando attuazione della direttiva 2014/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2014 (recante modifica alla direttiva 2013/34/UE), ha introdotto la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario (DNF) per talune imprese e taluni gruppi di grandi dimensioni. La DNF prevede l’obbligo di fornire quelle informazioni societarie e aziendali che riguardano: a) Questioni ambientali; b) Questioni sociali e trattamento dei dipendenti; c) Rispetto dei diritti umani; d) Anticorruzione e concussione; e) Diversità negli organi aziendali (in termini di età, genere, percorso formativo e professionale). Attraverso il D.L.254/2016.

Il legislatore ha allineato quindi i temi ambientali ai principi di Corporate Social Responsability ossia alle linee guida dell’OCSE sulle imprese e i diritti umani.

Sono due gli asset che devono essere rendicontati e possono essere comunicati: le azioni in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile e la propria green reputation.

Gli obblighi e gli adempimenti (ma anche le opportunità) previsti per le attività finalizzate alla redazione della DNF, non sono dissimili da quelli per i report di sostenibilità ESG.

La Dichiarazione non Finanziaria è essenzialmente un documento legato ai principi della finanza sostenibile di derivazione comunitaria. È, dunque, l’applicazione del concetto di sviluppo sostenibile (modello di sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri) all’attività finanziaria. Si rivolge agli operatori finanziari (investitori e fornitori di capitali in genere) per sostenere le decisioni relative ad investimenti.

I report di sostenibilità ESG sono, invece, rivolti a tutti gli stakeholder dell’azienda, traducendosi in una metodologia di attività aziendale ispirata alla trasparenza e all’apertura all’esterno, per sostenere e rafforzare un posizionamento sul mercato caratterizzato dagli impegni nei confronti dell’ambiente e della società. Le due finalità si completano vicendevolmente così come le norme che li disciplinano, insieme, senza particolari distinzioni definitorie.

Comunicare la sostenibilità ambientale con DNF e ESG: le fonti normative

In Italia, la normativa su DNF e ESG è fondata principalmente su disposizioni legislative e regolamentari in materia di sostenibilità, responsabilità sociale e trasparenza delle imprese.

La normativa italiana

Di seguito sono riportati alcuni esempi rilevanti della normativa italiana:

•      Decreto Legislativo 30 dicembre 2006, n. 385 (Testo Unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia): questo decreto richiede agli intermediari finanziari italiani di valutare e tenere conto dei fattori ambientali, sociali e di governance (ESG) nella gestione del rischio di credito.

•      Decreto Legislativo 3 dicembre 2010, n. 254: questo decreto prevede obblighi di rendicontazione non finanziaria DNF per le grandi imprese, che devono includere informazioni ESG nelle loro relazioni annuali. È stato abrogato e sostituito dal decreto successivo.

•      Decreto Legislativo 30 dicembre 2016, n. 254: questo decreto, recependo la Direttiva Europea 2014/95/UE, richiede a determinate grandi imprese italiane di fornire informazioni non finanziarie DNF, comprese quelle relative ai fattori ESG, nelle loro relazioni annuali. Le imprese interessate sono quelle che soddisfano determinati criteri di dimensione, come il numero di dipendenti, il fatturato e l’attivo di bilancio.

•      Decreto Legislativo 8 giugno 2017, n. 101: questo decreto prevede disposizioni in materia di trasparenza delle informazioni non finanziarie DNF da parte di alcune categorie di società, comprese le banche, le compagnie di assicurazione e gli intermediari finanziari.

•      Linee guida della Consob: la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) ha emesso diverse linee guida relative alla trasparenza e alla divulgazione delle informazioni non finanziarie DNF da parte delle società quotate, che includono anche i fattori ESG.

La normativa europea

La normativa europea, invece, può variare da paese a paese e dipendere dalle disposizioni legislative e regolamentari specifiche di ciascuna giurisdizione. Tuttavia, ci sono alcune iniziative globali e direttive che hanno un impatto significativo sulla regolamentazione delle DNF e degli ESG a livello internazionale. Di seguito sono riportati alcuni esempi di normativa e iniziative chiave:

•      Directive on Non-Financial Reporting (NFRD) dell’Unione Europea: la NFRD è stata introdotta nel 2014 e richiede alle grandi imprese dell’UE di fornire informazioni non finanziarie sulla loro performance ambientale, sociale e di governance. Nel 2021 è stata proposta una revisione della direttiva (Corporate Sustainability Reporting Directive, CSRD) con l’obiettivo di rafforzare e armonizzare le norme di reporting ESG in tutta l’UE.

•      Task Force on Climate-related Financial Disclosures (TCFD): la TCFD è un’iniziativa guidata dal settore privato che ha sviluppato linee guida volontarie per il reporting finanziario dei rischi e delle opportunità legate ai cambiamenti climatici. Le raccomandazioni della TCFD sono state adottate da molte istituzioni finanziarie e società a livello globale.

•      Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR) dell’Unione Europea: la SFDR, entrata in vigore nel marzo 2021, mira a migliorare la trasparenza e la divulgazione delle informazioni DNF nell’ambito dei servizi finanziari. La regolamentazione richiede ai gestori di fondi e ad altri attori del settore finanziario di fornire informazioni sulle caratteristiche ESG dei prodotti finanziari offerti.

•      Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act (Dodd-Frank Act): negli Stati Uniti, il Dodd-Frank Act contiene disposizioni che richiedono alle società quotate di divulgare informazioni sulle materie prime provenienti da zone di conflitto e altre questioni ESG.

•      Global Reporting Initiative (GRI): nonostante non sia una normativa a sé stante, il GRI è un framework internazionale ampiamente riconosciuto per la rendicontazione ESG. Molte organizzazioni volontariamente adottano le linee guida del GRI per migliorare la trasparenza e la divulgazione delle proprie performance ESG.

Comunicare la sostenibilità ambientale su base volontaria

Al di là degli obblighi di legge, la redazione dei bilanci e delle informazioni di sostenibilità (DNF e ESG), può avvenire anche su base volontaria, ed è fortemente raccomandato farlo.

L’importanza delle scelte ambientali

Innanzitutto, oggi le scelte ambientali e sociali sono molto più importanti rispetto al passato e aumenta il numero delle persone che cercano di avere un rapporto più consapevole e più attento verso l’ambiente. Se si guardano i dati di GfK Sustainability (ricerca Who cares, Who does) si vede che il 59% degli italiani si aspetta dalle aziende e dai brand un comportamento sempre più responsabile in termini di impatto ambientale, non solo il 34% dichiara di essere disposto di “passare dalle parole ai fatti” e di cambiare le proprie abitudini se questo serve per migliorare l’impatto ambientale. Percentuali in continuo aumento.

Si stanno creando le condizioni per una sostenibilità che assuma il ruolo di “driver esistenziale”, che caratterizzi e influenzi gli stili di vita, impattando direttamente sulle scelte di acquisto e di consumo.

Il ruolo della finanza

In secondo luogo, la finanza che svolge naturalmente un ruolo fondamentale nell’ambito DNF e si riferisce in particolare ai fattori legati alla misurazione della sostenibilità e dell’impatto sociale di un’impresa o di un investimento. Nello specifico il mondo finanziario guarda agli standard ESG come a una fonte di informazioni e di conoscenza che permette di raggiungere vari obiettivi.

Indirizzare il finanziamento di progetti sostenibili

Per il settore finanziario è fondamentale fornire il capitale necessario a sostenere progetti e imprese che rispettino i criteri ESG e in questo ambito sono compresi ad esempio gli investimenti in energie rinnovabili, in infrastrutture sostenibili, in tecnologie pulite e a tutte quelle iniziative che contribuiscono alla sostenibilità ambientale, al benessere sociale e a una buona governance.

La valutazione del rischio

Valutazione del rischio. I fattori ESG permettono di disporre di una maggiore conoscenza dei rischi finanziari: le aziende che non gestiscono adeguatamente i loro impatti ambientali sono esposte a maggiori rischi, sia dal punto di vista ambientale sia in termini di rischi legali o legati all’operatività o alla reputazione. La valutazione dei fattori ESG è un aiuto per una valutazione più accurata di questi fattori di rischio.

Ricerca di trasparenza e di chiarezza nella rendicontazione

La trasparenza e la rendicontazione dei dati relativi alla DNF, aumenta la conoscenza delle singole aziende e dei settori in cui operano, aumentando la trasparenza complessiva.

Creazione e gestione di investimenti specifici di tipo ESG

Gli investitori sono sempre più attenti ai fattori ESG nelle loro decisioni di investimento e le aziende che rispettano questi criteri possono attrarre maggiori investimenti. Allo stesso tempo, la pressione degli investitori può spingere le aziende a migliorare le loro performance ESG.

Creazione di prodotti finanziari ESG

C’è anche questa dimensione e il settore finanziario può promuovere la sostenibilità anche attraverso lo sviluppo di prodotti finanziari ESG specifici come i green bond, come i fondi di investimento ESG o come altre formule di investimento che tratteremo più avanti in questo servizio.

La possibilità di accedere a finanziamenti agevolati e di attrarre investimenti fa sì che anche aziende non obbligate alla rendicontazione non finanziaria si stiano adeguando a fornire dati relativi al loro impegno in termini di sostenibilità aziendale, attraverso i bilanci di sostenibilità, orientati dagli standard ESG e forniti su base volontaria.

Le raccomandazioni della Task Force on Nature-based Financial Disclosures

Per tutto questo, la Task Force on Nature-based Financial Disclosures (TNFD), che riunisce un’ampia rete di banche, assicuratori e investitori in tutto il sistema finanziario per realizzare economie globali più sostenibili, collegata con le Nazioni Unite, ha pubblicato lo scorso mese di settembre due raccomandazioni: la prima sul cambiamento climatico, la biodiversità e il degrado del territorio; la seconda sulla necessità di integrare la natura nelle decisioni finanziarie e commerciali.

Entrambe le raccomandazioni finali suggeriscono a imprese e istituzioni finanziarie di anticipare i prossimi cambiamenti normativi, anche a seguito dell’adozione della convenzione Global Biodiversity Framework (GBF) di Kunming-Montreal del 2022. E poiché le raccomandazioni finali della TNFD sono progettate per rispecchiare e integrare la TCFD (Task Force on Climate-related Financial DisclosuresTask Force sulle informazioni finanziarie legate al clima), le istituzioni finanziarie che stanno già agendo sui rischi climatici possono ora utilizzare l’approccio integrato della TNFD per affrontare i rischi finanziari legati alla natura a livello globale.

La sostenibilità come strumento di marketing

Come si è appena visto, le attività che vanno a formare la rendicontazione finanziaria non producono solo risvolti interni all’azienda riferiti ai propri soci e ai partner sui mercati finanziari o alla cosiddetta “pubblicità legale”, esse sono anche un formidabile strumento di marketing. La Sostenibilità, laddove è intesa come tutela dell’ambiente, giustizia sociale e gestione etica, è ormai un criterio di scelta per moltissimi cittadini, a condizione che essa sia loro correttamente comunicata. La tendenza è in continua crescita e se oggi, secondo Morgan Stanley, l’86% dei giovani divenuti maggiorenni nel nuovo millennio (i millennials) è interessato agli investimenti sostenibili, la percentuale è destinata ad aumentare con l’arrivo di nuove generazioni e con il progressivo aumento della sensibilità ambientale anche in tutte le altre generazioni, che peraltro sono quelle che hanno in mano le leve finanziarie.

Comunicare la sostenibilità ambientale, sociale ed economica, diviene quindi un fattore d’investimento che accresce le strategie di marketing in favore di un’accresciuta reputazione aziendale e dei vari brand di riferimento. Ma attenzione, così come si può decisamente incrementare la reputazione del proprio brand, altrettanto rapidamente la si può danneggiare. Ciò perché, i parametri di una comunicazione al pubblico della sostenibilità ambientale non sono gli stessi dell’informazione o rendicontazione finanziaria come previsti dalle normative europee e nazionali.

I rischi del greenwashing

I secondi sono, semmai, i presupposti della prima e costituiscono l’oggetto della comunicazione di marketing. Ne consegue che, se non si praticano politiche aziendali di salvaguardia dell’ambiente, di attenzione al sociale e di corretta gestione organizzativa, non si può richiamare nella propria comunicazione commerciale qualità e vanti di sostenibilità, green et similia. Se lo si fa, si incorre in quel comportamento definito, ormai universalmente, come greenwashing.

Letteralmente il termine è una sincrasi tra le parole inglesi green, verde, e washing, lavaggio, e nasce proprio, negli anni ottanta, perché riferito al lavaggio molteplice e continuo degli asciugamani nelle stanze d’albergo statunitensi con ingenti consumi di acqua, detersivi ed energia. In realtà, si trattava di uno stratagemma comunicativo delle grandi catene alberghiere per dare una giustificazione ambientale a quello che, invece, era un semplice espediente per ridurre i costi di gestione. Anche riferendosi alla parola whitewash, come taluni autori ricostruiscono, che può tradursi anche come “coprire”, “dissimulare”, “cancellare”, la sostanza non cambia: il greenwashing è sempre stato ritenuto (e continua ad esserlo), una pratica di mistificazione della realtà.

In Italia, i casi di greenwashing rientrano nelle ipotesi di “pubblicità ingannevole” la cui vigilanza è affidata dal Codice del Consumo all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) che, all’esito della sua valutazione (attivabile d’ufficio o su segnalazione di qualsiasi cittadino), ne può inibire l’ulteriore diffusione e/o irrogare sanzioni pecuniarie fino ad un massimo di 5 milioni di euro. Secondo la definizione della legge italiana, la pubblicità rientra tra le “pratiche commerciali tra professionisti e consumatori” e, quindi, si può incorrere nel greenwashing con “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, …, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”. Anche il packaging e l’etichettatura, sono compresi, così come è compresa qualsiasi forma di comunicazione: cartacea, visiva, radiofonica, sui media tradizionale, sui social, sul web, ecc..

Gli esempi da non imitare non mancano nel mondo, ma anche in Italia. Negli anni novanta il termine fu utilizzato per descrivere la comunicazione di grandi aziende americane chimiche petrolifere, come ad esempio Chevron o DuPont, che cercavano di presentarsi come industrie ecologiche, nonostante i notevoli danni causati alle persone e all’ambiente dalle loro attività inquinanti. Tra i casi di greenwashing più clamorosi c’è quello della Coca-Cola Life che, qualche anno fa, parlò della sua bibita come un prodotto a basso contenuto calorico per la presenza della stevia (un prodotto vegetale con potere dolcificante di 250 volte più alto dello zucchero) al posto dello zucchero. I casi di greenwashing nostrani non sono mancati: per citare solo alcuni dei casi accertati e sanzionati dall’AGCM, tra i più noti c’è lo spot di Ferrarelle che pubblicizzava la bottiglia a “impatto zero” promettendo la compensazione della CO2 emessa con la tutela di nuove foreste. Ma, in realtà, la CO2 non veniva affatto interamente compensata e la Ferrarelle è stata condannata. E così anche per l’Eni, che aveva definito il proprio gasolio come “green diesel”, contrariamente al vero, secondo quanto accertato dall’Autorità che ha imposto a Eni di non utilizzare più la pubblicità e disposto una sanzione amministrativa, per pratica commerciale scorretta di 5 milioni di euro “pari al massimo edittale, tenuto conto della gravità e della durata della violazione”.

La proposta di direttiva del Parlamento Ue

Lo scorso settembre il Parlamento europeo ha approvato nuova proposta di direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione.

Nel testo approvato dal Parlamento si prevede di vietare l’uso di indicazioni ambientali generiche come “rispettoso dell’ambiente”, “naturale“, “biodegradabile“, “neutrale dal punto di vista climatico” o “ecologico“, se non sono accompagnate da prove dettagliate. Sono inoltre vietate le dichiarazioni ambientali basate esclusivamente su sistemi di compensazione delle emissioni di carbonio. Saranno vietate anche altre pratiche ingannevoli come fare dichiarazioni sull’intero prodotto se la dichiarazione è vera solo per una parte di esso, o affermare che un prodotto durerà un certo periodo di tempo o potrà essere utilizzato con un determinato livello di intensità se ciò non è vero.

La “certificazione” dei vari fattori ESG oggetto di pubblicità, gioca quindi, già oggi e sempre più in futuro, un ruolo determinante per evitare di incorrere in greenwashing e confermare la veridicità dei propri vanti ambientali, a condizione però che si tratti di certificazioni rilasciati da organismi terzi e accreditati.

Le dichiarazioni sul Life Cycle Assessment

Un altro ruolo determinante lo giocano i riferimenti alla LCA Life Cycle Assessment. Un tentativo di utilizzarli come linee guida o dei criteri interpretativi utili al consumatore per avere la certezza che all’utilizzo di una terminologia green corrispondano effettivamente valori ambientali attribuiti al prodotto o servizio pubblicizzato, sta portando avanti, sin dal 2014, l’ufficio dell’Ombudsman danese che, nel 2021, ha emesso una “Guida rapida per le aziende su marketing ambientale”. Il Difensore Civico della Danimarca chiarisce in più punti come debbano essere confezionate le dichiarazioni climatiche/ambientali  sia in riferimento all’etichettatura dei prodotti, che in riferimento alle loro pubblicità. Premettendo in via generale che le dichiarazioni sul clima o sull’ambiente utilizzate in pubblicità devono, ovviamente, essere corrette, si afferma di poi che le stesse vanno chiaramente formulate in modo che i consumatori le comprendano immediatamente, senza omettere informazioni importanti. Nelle pubblicità le qualità vantate dalle aziende devono essere documentate; inoltre viene richiesto di documentare la concretezza dei benefici per il clima o l’ambiente che non devono avere una rilevanza marginale.

Le dichiarazioni di sostenibilità (e quindi l’utilizzo dei termini “sostenibile”, “sostenibilità “) devono basarsi -appunto- su un’analisi del Life Cycle Assessment, Ciclo di Vita del prodotto o servizio che dimostri che l’azienda non pregiudica la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni. E così ancora, conclude l’Ombudsman danese, affermando che è molto difficile definire un prodotto/servizio come “sostenibile”, senza fuorviare. La correttezza della pubblicità deriverà -sempre a parere dell’Autorità danese- dal fatto che l’azienda abbia un piano concreto su come raggiungere la sostenibilità, che deve essere verificato da un organismo indipendente. Il piano deve risultare nella pubblicità del prodotto/servizio, deve essere continuamente migliorato/sviluppato specificando in che modo i danni per l’ambiente vengono gradualmente ridotti e il che deve essere verificabile. Altrimenti la pubblicità sarà ingannevole per il consumatore.

Questi parametri di valutazione si auspica vengano applicati in Italia anche per la necessità di armonizzare i criteri valutativi secondo indici uguali in tutta Europa. In tale ottica è da registrare il pregio della guida dell’Ombudsman danese, che la rende utilizzabile anche in Italia, e che consiste nel fatto che in essa si indica un parametro oggettivo, verificabile, misurabile e anche organicamente disciplinato. È proprio il rinvio, ai fini della possibilità di utilizzo pubblicitario, alla Valutazione del Ciclo di Vita, il Life Cycle Assessment (LCA); nozione già abbondantemente esplorata nel nostro Paese e in Europa. Sostiene, per esempio il nostro Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) nel suo sito, che il LCA rappresenta uno degli strumenti fondamentali per l’attuazione di una politica integrata dei prodotti. Si tratta -sempre secondo l’ISPRA- di un metodo oggettivo di valutazione e quantificazione dei carichi energetici ed ambientali e degli impatti potenziali associati ad un prodotto/processo/attività lungo l’intero ciclo di vita, dall’acquisizione delle materie prime al fine vita (“dalla Culla alla Tomba”). La valutazione del ciclo di vita poi, è stato oggetto di una comunicazione della Commissione Europea, COM/2003/302, nonché di una successiva raccomandazione del 16/12/2021, C/2021/9332.

Anche la Commissione ha concluso che le valutazioni del ciclo di vita forniscono il miglior quadro per valutare i potenziali impatti ambientali dei prodotti immessi sul mercato. Il Life Cycle Assessment -prosegue la Commissione UE- è una valutazione standardizzata a livello internazionale secondo la metodologia ISO 14040 ff che aiuta a quantificare meglio le caratteristiche dei beni e dei servizi prodotti e oggetto di pubblicità. La valutazione dell’impatto del ciclo di vita è la stima degli indicatori delle pressioni ambientali sulle attività aziendali, in termini di cambiamenti climatici, smog emesso, esaurimento delle risorse, acidificazione, effetti sulla salute umana, ecc., associati agli interventi ambientali riconducibili al ciclo di vita di un prodotto.

Sitografia

  • Bilancio di sostenibilità: che cos’è, quali sono gli obiettivi e le caratteristiche, in Network Digital360:
  • ESG: tutto quello che c’è da sapere per orientarsi su environmental, social, governance, in Network Digital360:
  • Proposta di direttiva del parlamento europeo e del consiglio che modifica le direttive 2005/29/ce e 2011/83/ue per quanto riguarda la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione, in Eur-Lex

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