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Leadership diffusa, green skill: come essere un’azienda moderna



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L’innovazione richiede un cambio di mentalità che unisca tecnologia e senso di comunità. In un mondo post-pandemia, il futuro sostenibile passa attraverso la collaborazione, l’apprendimento condiviso e la creazione di ecosistemi aziendali rispettosi dell’ambiente e delle persone

Pubblicato il 3 mar 2025

Roberto Panzarani

Docente di “Governo dell’Innovazione Tecnologica” presso il Dipartimento di Economia dell’Università Cattolica di Roma



innovazione e comunità

Reduci da una pandemia che ha allontanato per motivi sanitari le persone l’una dall’altra e immersi in guerre che ci stanno riportando agli anni più bui dell’umanità, l’unica via è provare a ricostruire le basi della nostra comunità umana e cogliere ed evidenziare i segnali che già vanno in questa direzione.

La rinascita del senso di comunità nell’era post-pandemica

Successivamente alla crisi del 2008 scrivevo che il tema della collaborazione era centrale e inserivo il tema del Sense of Community (Panzarani, 2013) sottolineando come non fosse possibile affrontare nessun tipo di cambiamento sociale se non si fossero creati quel clima e quella identità che danno significato alle iniziative che mettiamo in atto. Sia che si faccia una riforma fiscale, sanitaria o del lavoro, se una comunità non ha una sua identità, tutti questi passaggi rischiano di essere artificiali e di non durare nel tempo.

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Da allora diverse forme di “autorganizzazione” di fasce significative della popolazione hanno preso vita, sostituendosi a quelli che avrebbero dovuto essere gli organismi di governance, organizzando iniziative concrete a beneficio della popolazione stessa e combinando insieme, come direbbe Clay Shirky, nuove tecnologie e generosità umana. Alcune hanno avuto successo e perdurano ancora oggi, altre si sono smarrite nei continui cambiamenti evolutivi, quello che sicuramente è rimasto è il bisogno di un’economia del dono e quel senso di comunità che le tecnologie hanno risvegliato in noi in modalità virtuale, ma che oggi sempre più spesso diventano reali e concrete nella risoluzione dei problemi.

Innovazione e responsabilità: costruire il futuro con un mindset condiviso

Mai come in questo momento avremmo bisogno di sviluppare fino in fondo il nostro senso di comunità umana in comunione con il nostro pianeta. Ma come stiamo vedendo, lo sviluppo di per sé non porta alcun progresso se non è governato da sentimenti maturi e responsabili.

È necessario un cambiamento che tende ad aumentare il benessere della società e a migliorare il processo di crescita individuale e anche sociale cooperativo. Non è possibile, infatti, affrontare nessun tipo di cambiamento sociale se non si creano quel clima e quella identità che danno significato alle iniziative che mettiamo in atto.

L’innovazione è un cambio di mentalità

L’innovazione non è puramente tecnologica, ma è un cambio di mentalità, è guardare le cose da un’altra prospettiva, e il vantaggio competitivo di un’organizzazione dipende proprio dalla capacità di tradurre rapidamente in azione quanto è stato appreso. Per avere successo nei mercati dinamici di oggi, infatti, un’azienda ha bisogno di un elevato quoziente intellettivo in grado di originare idee trasformabili in risultati tangibili. Non solo persone intelligenti, ma anche persone che sanno lavorare insieme e condividere le informazioni in modo semplice ed esteso, che sono in grado di sviluppare anche le idee degli altri. Il potere non deriva da un sapere custodito, ma da un sapere condiviso. Come afferma Arjun Appadurai (2014) “mentre la conoscenza del mondo è sempre più importante per chiunque, le opportunità per acquisire tale conoscenza si stanno restringendo”.

La necessità di conoscenza condivisa

Primario diventa dunque l’investimento culturale e formativo per costruire un futuro dove l’innovazione sia affiancata alla responsabilità, alla fiducia, alla crescita partecipata. I nuovi scenari, i cambiamenti organizzativi, i nuovi prodotti hanno bisogno di conoscenza condivisa per potenziare e accelerare i meccanismi di diffusione di una vera e propria cultura dell’innovazione. In questo contesto il viaggio come esperienza di apprendimento per l’azienda è un’azione di fertilizzazione volta a creare i presupposti culturali e un linguaggio comune per la diffusione dell’innovazione nell’organizzazione. L’obiettivo del viaggio è quello di aprire le menti per capire come si muove il mondo al di fuori della propria realtà.

Viaggi di innovazione: un’esperienza per aprire nuove prospettive aziendali

In questo contesto, l’esperienza dei Learning Innovation Tour gioca un ruolo molto rilevante, infatti offre la possibilità ai partecipanti di entrare in contatto diretto con prestigiosi centri di ricerca, aziende leader del mercato ed esperti di livello internazionale; occasioni uniche per approfondire nuovi modelli di business, tecnologie altamente innovative, nuovi paradigmi economici e strutture organizzative avanzate. L’efficacia di questo tipo di formazione aziendale non si legge solo nel gradimento e nella partecipazione durante i viaggi, ma soprattutto da un punto di vista cognitivo ed emotivo in cui vengono create e consolidate le relazioni umane e viene appresa e diffusa la conoscenza, leve fondamentali per i cambiamenti. Fare propria questa filosofia in azienda, nel tempo, scioglie le difficoltà e le resistenze e migliora la cultura aziendale, il processo di innovazione e il modello organizzativo.

Guardare oltre i confini: nuovi modelli di business dall’esperienza globale

Bruce Chatwin, nel celebre scritto Che ci faccio qui? scopre improvvisamente la possibilità di diventare cieco a causa del suo lavoro (in quel periodo lavorava da Sotheby’s ed era costretto a guardare opere d’arte e quadri molto da vicino). Atterrito dalla tragica constatazione, si dispera, ma gli viene risposto da uno specialista che per curare la sua miopia l’unica cura era quella di abituare la sua vista a guardare «vasti orizzonti». Da lì intraprese i suoi viaggi. Per superare le crisi attuali e degli anni passati è necessario basarsi su nuovi modelli di business perché quello basato sull’avidità e sull’ignoranza crea una miscela esplosiva che sta distruggendo tutto. Se si accettasse realmente il suggerimento di Chatwin, provando a guardare più vasti orizzonti, ci si accorgerebbe che l’innovazione del futuro dovrà tenere conto di parecchie realtà e parecchi modelli del Terzo Mondo, che colpevolmente si continuano a sottovalutare.

Il modello del microcredito in India

Pensiamo all’India, al modello del microcredito che il premio Nobel Muhammad Yunus ha contribuito a diffondere in modo decisivo.

È un modello solidaristico, totalmente innovativo, ideato da Yunus per il Bangladesh, che aiuta chi ha meno disponibilità finanziarie e per questo non riuscirebbe a corrispondere anche piccole cifre. Il principio sul quale si è basato Yunus è molto semplice: con la formazione si può aiutare questa gente a fare business. Esattamente il contrario del nostro modello. Ancora una volta conoscenza e collaborazione sono il mix giusto.

Tutti dovrebbero avvertire l’esigenza di non accontentarsi dell’intervento delle tecnologie, ma cercare di cogliere, attraverso il viaggio, la parte emozionale della realtà per avviare un percorso di formazione innovativo e nello stesso tempo coinvolgente.

Business innovation tour significa condurre i manager nei «luoghi» in cui si fa autentica innovazione. Certo ci vuole preparazione, il viaggio è un’esperienza impegnativa, sottende una preparazione psicologica, una predisposizione, una volontà di scambio e di ascolto molto forte, ma nulla è lasciato al caso e alla base c’è una formazione mirata a fornire un linguaggio comune per intraprendere quel tipo di esperienza.

L’innovazione manageriale: aprire le menti per competere nel mercato globale

L’innovazione, come più volte è stato spiegato in altre pubblicazioni, non è un fatto tecnico, un metodo rigido, ma è piuttosto un’attitudine, una forma mentis che si acquisisce se si ha la capacità di variare continuamente il punto di osservazione della realtà. In questa fase di crisi avere una mente aperte diventa essenziale e questo lo si può ottenere cercando il confronto con quei contesti che stanno reagendo meglio ai cambiamenti del mercato e che quindi ci possono offrire suggerimenti e insegnamenti importanti.

Gary Hamel, nel suo famoso libro Il futuro del management (2008), insegna a tenere d’occhio l’innovazione tecnologica, l’innovazione di prodotto e di processo. Poi è necessario occuparsi di innovazione manageriale, che significa soprattutto aprire le menti. Per fare questo devi capire cosa fanno gli altri, vederli all’opera, adottando una logica di benchmark che non significa adattamento passivo o riproposizione passiva di quello che fanno gli altri, ma rilettura originale di metodiche, idee, processi. Il confronto può infatti essere decisivo per fare il salto di qualità.

Spesso ci si trova con gruppi di manager in giro per il mondo, immersi in contesti sociali e produttivi che sono lontani mille miglia dai nostri modi di pensare, e allora torna utile pensare all’affermazione di Gregory Bateson nel suo libro Una sacra unità: altri passi verso un’ecologia della mente «La cosa è semplice: siamo tutti troppo ignoranti e nell’ignoranza non c’è competizione». Si tratta, senza ombra di dubbio, di una intuizione profetica, ripresa da studiosi del calibro di Saskia Sassen, che parlano non a caso di coopetition per definire il paradigma di un capitalismo che deve ancorarsi a due valori essenziali: la ricerca e l’innovazione, ingredienti indispensabili che ci servono per sopravvivere.

Wiki impresa e trasformazione del capitale umano

Quando si sceglie di visitare multinazionali o aziende eccellenti è un modo di apprendere come esse attingono talenti e competenze da una serie di bacini globali, applicando la logica della “Wiki impresa”, costruita su un ecosistema economico digitale, cioè su infrastrutture aperte a basso costo. Queste iniziative sono volte da un lato a far nascere rapporti di business collaboration, dall’altro a facilitare l’aggregazione di un livello di capitale intellettuale sempre più elevato, che – travalicando i confini nazionali, etnici e culturali – può diventare una potente leva anticrisi. La prima slide che descrive Google è molto semplice, dice così: «Google è un progetto di ricerca di Stanford». È molto bello che un’azienda si presenti come figlia dell’università.

Sul piano dell’evoluzione e della formazione del capitale umano questo vuol dire trasformare le persone, che lavorano in concreto su quello che hanno visto, cercando i modi migliori per fare innovazione; vuol dire imparare a produrre un business plan delle idee all’interno delle organizzazioni. A seguito delle esperienze vissute si verificano trasformazioni importanti all’interno delle aziende e nei gruppi di lavoro. L’errore più grande che si può fare è quello di burocratizzare l’innovazione, non è affatto sufficiente creare dipartimenti ad hoc uguali a tanti altri settori dell’azienda, ma è importante creare una vera e propria mobilitazione all’interno ai fini di un coinvolgimento emozionale delle persone. L’obiettivo non è quello di sposare lo slogan innovazione, ma di trasformare concretamente l’azienda in un sistema aperto in cui si realizzi il passaggio da ambienti lavorativi chiusi e gerarchici, basati su rapporti rigidi fra imprese e dipendenti, a una serie di reti del capitale umano sempre più distribuite, collaborative e basate sull’organizzazione autonoma, che traggano conoscenze e risorse dall’interno come dall’esterno.

Verso organizzazioni liquide e leadership collaborativa

Come ampiamente detto nei miei libri, gli ultimi anni hanno visto il susseguirsi di cambiamenti radicali che hanno portato alla progressiva rimodulazione delle strutture delle organizzazioni aziendali, all’interno delle quali nuovi sistemi moderni, come la collaborazione e il networking, stanno definitivamente sostituendo le forme arcaiche di gerarchia e burocrazia. Parliamo di strutture organizzative che tendono a essere dinamiche, liquide, modulari e ad approcciare ad una leadership collaborativa sia per meglio rispondere alla complessità del cambiamento, sia per generare nuovi profili che le compongono, con skills finalizzate sempre più alla realizzazione di un progetto, piuttosto che ad una vision a lungo termine.

Abbiamo assistito, e continuiamo ad assistere perché in continua evoluzione, alla trasformazione del vecchio posto di lavoro, alla riformulazione dei contratti, al modellamento della società in comunità, a un diverso approccio all’apprendimento dove ciò che conta è il know how, l’esperienza, la conoscenza dei singoli all’interno dei team. In questa era della collaborazione le organizzazioni si aprono sempre di più a formare delle comunità per tendere ad un reciproco vantaggio, mantenendo la propria identità. Si genereranno dunque nuovi ecosistemi in cui i collaboratori, i fornitori e i clienti si troveranno a collaborare, a cocreare e ad evidenziare eventuali criticità, dando vita a nuove opportunità di crescita collettive.

Ecosistemi aziendali e l’emergere dell’head of ecosystem

Il vantaggio forse più significativo di un ecosistema aziendale che funziona è la fidelizzazione del cliente, che combina prodotti e servizi in maniera armoniosa e crea un’esperienza senza pari perché il cliente si trova immerso in un ambiente in cui ogni aspetto del servizio è progettato per lavorare in sinergia, dalla facilità d’uso alla personalizzazione.

Ed è per questo che una nuova figura si staglia nel panorama delle professioni aziendali: l’Head of ecosystem, il responsabile, cioè, della creazione e gestione di partnership strategiche, dello sviluppo del business e dell’analisi del mercato. Suo compito principale sarà quello di sviluppare e gestire le relazioni esterne in modo strategico al fine di favorire sinergie positive per tutte le parti coinvolte. Le sue skills saranno sia di tipo commerciale ma anche di business development per poter identificare sempre migliori opportunità di crescita.

E’ importante che un head of ecosystem tenga a mente in questo scenario di networking mondiale l’impatto che la pubblicità digitale ha sul cambiamento climatico in due modi principali: l’utilizzo di Internet e l’incoraggiamento a un consumismo ormai diventato insostenibile. Quindi sì a creare ecosistemi solidi e duraturi ma che siano principalmente sostenibili. Mirare a trovare un equilibrio tra persone, pianeta e profitto diventa un imperativo imprenscindibile se si vogliono raggiungere profitti che salvaguardino anche l’ambiente in cui viviamo, perché l’ecosistema aziendale è sicuramente un modello efficace ma non dimentichiamo che deve anche seguire un’etica e dei principi che sia sostenibili, equi e inclusivi.

Green skills: le competenze del futuro sostenibile

Come ha detto Mohammed Yunus al termine della pandemia “non torniamo al mondo di prima” abbiamo un’occasione incredibile per costruire un nuovo mondo, il mondo di prima non andava bene anche senza coronavirus. Competenze ambientali, big data, health organization, capacità di decisione, ascolto attivo, empatia queste ultime sono le cosiddette soft skills che dovremo assolutamente sviluppare nel futuro prossimo con molta attenzione se vorremo gestire con efficacia le organizzazioni. E oggi, passare da un management tradizionale a un management della complessità, implica anche la conoscenza e l’acquisizione delle green skills, perché il mercato del lavoro in Italia è purtroppo ancora troppo caratterizzato da uno squilibrio tra competenze richieste e offerta.

Non si può continuare con il modello convenzionale di produzione ma iniziare a ripensare nuovi schemi, nuovi prodotti e servizi che utilizzino materiali di recupero, scomponibili, aggiustabili o riciclabili. C’è necessità, insomma, di inserire nei contesti organizzativi strategie green, circolari, eco-sostenibili e a basso impatto ambientale e per far questo la formazione e l’informazione deve percorrere la strada verso l’acquisizione di conoscenze e competenze trasversali e green, prime fra tutte l’attitudine al risparmio energetico e la propensione alla sostenibilità ambientale.

Se parliamo di green jobs parliamo di realtà lavorative che puntano a salvaguardare la terra e a sostenere lo sviluppo economico senza impattare negativamente sull’ambiente: sostenere la tutela degli ecosistemi e della biodiversità, ottimizzare le risorse e utilizzare energie rinnovabili, ridurre al massimo gli sprechi. Le professioni più richieste nei prossimi anni riguarderanno sicuramente il fotovoltaico, il marketing green, la chimica green, l’agricoltura sostenibile, man anche lo sviluppo di software green, nuovi indirizzi socio-legali sulla tutela dell’ambiente e di conseguenza le soft skills come la capacità di problem solving, di gestione di soluzioni innovative e tecnologiche dovranno vestirsi di green.

Leadership innovativa per un futuro green

Un dato di fatto incontrovertibile è che la ridefinizione delle priorità deve essere sia individuale che collettiva e, soprattutto, il futuro è di chi saprà adottare uno stile di leadership diffusa, dove il singolo capo fa tesoro delle esperienze altrui e condivide con i colleghi responsabilità ed esperienze. Empatia, consapevolezza dell’organizzazione, una visione creativa, uno sviluppo delle potenzialità altrui, la diffusione della conoscenza e sono solo alcune delle qualità che un leader innovativo deve possedere. Porsi come modello di comportamento innovativo ai vertici richiede in effetto un pugno saldo nel mantenere i team di lavoro concentrati sulla discussione che migliorerà il prodotto o il servizio. Si deve insomma incoraggiare attivamente una cultura innovativa che indiscutibilmente si sta dirigendo verso una cultura sempre più green.

Qualcosa di nuovo sta arrivando, e anzi, in un certo senso, tutti e quattro i futuri sono già qui, distribuiti male, per dirla con William Gibson. Spetta a noi costruire un potere collettivo in grado di lottare per i futuri che vogliamo (Tratto da Peter Frase, Quattro modelli di futuro, Treccani 2019) ed esempi importanti già ne possiamo segnalare.

Dallo Zimbabwe arrivano le panchine dell’amicizia, un esempio di senso di comunità che affonda nelle radici delle tradizioni familiari. L’idea nata a Dixon Chibanda, il direttore del Programma di ricerca per la salute mentale in Africa e professore di psichiatria all’Università dello Zimbabwe è quella di poter raggiungere tutte quelle persone in un territorio povero, vasto e difficile, grazie all’aiuto delle nonne. Ha formato più di 400 anziane disposte a raggiungere 70 comunità sparse per il Paese che sedute su delle panchine sotto l’ombra degli alberi, ascoltano e si prendono cura dei pazienti che, in un secondo momento, riceveranno le adeguate cure farmacologiche. Ma il primo passo è sicuramente il lavoro di terapia colloquiale delle anziane volontarie, volta principalmente all’ascolto.

Esempi virtuosi di comunità che innovano

«Ho voluto far parte da subito del programma per aiutare le persone della mia comunità. I rapporti umani per me hanno sempre contato tantissimo e non voglio più vedere tante persone soffrire a causa di questa malattia». Sono le parole di Rudo Chinhoyi, una delle volontarie del progetto. L’importanza di questo esempio è legata, oltre al fattore umano, anche a quello economico perché investire nella salute mentale (ma più in generale nella salute) equivale a potenziare il mercato del lavoro e in un ambiente difficile come quello africano, questo aspetto ha una valenza ancora maggiore.

Anche una città cosmopolita e veloce come Milano si prende i suoi tempi e i suoi spazi per far stare insieme le persone tra basket di strada, subbuteo e biblioteche nei palazzi. E così nel quartiere Barona una trentina di associati dai 43 ai 65 anni che tutti i lunedì sera si ritrovano per giocare, come nel quartiere Corvetto dove è nata la Street basket academy, una scuola di pallacanestro di strada gratuita. Altra realtà che sta prendendo sempre più piede in ambito di innovazione sociale sono i condomini che si autorganizzano realizzando al proprio interno delle biblioteche o angoli di bookcrossing, come in zona Porta Ticinese.

Se non creiamo al più presto un sense of community fra le persone continueremo a subire le trasformazioni prodotte dall’innovazione tecnologica e dalla globalizzazione dell’economia anziché essere noi i protagonisti e gli agenti del cambiamento. Luoghi, comunità, idee e progetti, esempi di come l’evoluzione tecnologica e quella sociale stanno trasformando l’economia, il lavoro, la società. Persone che cercano, riuscendoci, di dare una risposta, un modello, alle moltissime mancanze che una governance inesistente non riesce a colmare in una realtà in continuo divenire.

Bibliografia

Appadurai A., 2014, Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello Cortina, Milano.

Bateson G., 1997, Una sacra unità: altri passi verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano.

Hamel G., 2008, Il futuro del management, Etas, Milano.

Panzarani R., 2012, Sense of Community, Palinsesto, Roma, nuova edizione 2022.

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