Durante le discussioni del COP 27 e in particolare quelle relative al loss and damages fund, è capitato di notare una notevole confusione tra pubblico, giornalisti e in alcuni casi anche delle autorità che vi hanno partecipato, sul concetto di paesi sviluppati e in via di sviluppo: confusione terminologica non irrilevante, dal momento che mediante tale distinzione, di primo acchito, si sarebbero dovuti individuare i beneficiari del fondo e i relativi sovvenzionatori.
Loss and damages fund cos’è?
Nei vari COP che si sono susseguiti (a proposito COP sta per Conference of Parties e si riferisce alla conferenza annuale dei paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici che fu firmata durante la Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite tenutasi a Rio de Janeiro, meglio nota come Summit della Terra, mentre il numero che segue l’acronimo indica l’edizione), si è sempre più creata la coscienza che la via virtuosa del contenimento delle emissioni dei gas serra è sempre più ardua.
Da qui l’introduzione di nuovi concetti quali l’adattamento climatico (sul quale mi sia consentito di rinviare ad altro mio articolo scritto per questa testata) e, ahinoi, il concetto che danni ve ne saranno e che bisognerà porvi rimedio.
Da qui poi l’idea di costituire un fondo che in qualche modo risarcisca i danni che derivano dal cambiamento climatico secondo una logica che di massima può così riassumersi: di fatto il riscaldamento climatico è dovuto alle emissioni di gas serra da parte delle nazioni maggiormente sviluppate, che ne hanno goduto i frutti in termini di benessere e ricchezza, mentre i danni per varie ragioni (di carattere geografico e non solo) sono di fatto subiti dai paesi meno sviluppati o in via di sviluppo.
Noto è il caso dell’Africa che contribuisce per il 3,8% delle emissioni globali di gas serra (contro il 23% della Cina, il 19% degli Stati Uniti e il 13% dell’Unione Europea – fonte Time For Africa) e che pure sta affrontando emergenze climatiche senza precedenti quali la siccità che sta devastando le zone più aride del Kenya.
Si pensi anche ai piccoli Stati insulari, quelli raccolti nella definizione di Small Island Developing States – SIDS, che corrono il rischio di essere sommersi dalle acque dei ghiacciai disciolti, senza considerare gli effetti che il cambiamento climatico sta avendo sull’inquinamento delle relative falde acquifere a causa delle inondazioni (si stima uno sconcertante 73% del totale delle falde inquinato – fonte Word Environment Programme). Non a caso tali Stati cercano di tutelarsi unendo le forze attraverso l’Association of Small Island States (AOSIS) e altre.
Paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo
Per lungo tempo siamo stati abituati a fare coincidere la geografia del benessere con l’Occidente: Occidente opulento, anche grazie alle tante risorse ricavate dal periodo coloniale, e di contro il resto del mondo meno sviluppato. Poche erano le eccezioni, quali ad esempio il Giappone, che già nel 1904/1905 nel conflitto con la Russia aveva meravigliato il mondo per il suo sviluppo tecnologico e la forza militare.
Tornando al tema dei paesi in via di sviluppo, il cui termine è stato utilizzato durante il COP 27 in maniera vaga dai vari operatori: vaghezza dovuta al fatto che di essi non esiste una definizione giuridica e, salvo che per alcune organizzazioni multilaterali per le quali il termine può essere rilevante, di solito ci si rifà a criteri che possono essere divergenti se considerati con approccio complessivo o individuale.
Uno dei criteri identificativi più ricorrenti è quello del reddito pro capite, la cui soglia oltre gli 8.000 dollari USA annui qualifica un paese come in via di sviluppo.
Come però ebbe modo di notare Robert F. Kennedy in un discorso memorabile all’Università del Kansas nel 1968, il prodotto interno lordo non indica per sé il benessere di una nazione perché esso conta anche il valore attribuito ai sistemi d’arma, alle testate nucleari, ma non considera i morti sulle strade se non per il valore dei funerali. Da qui l’utilizzo di un altro indice ben più significativo quello dello sviluppo umano (ISU), che considera aspettative di vita alla nascita, livello di istruzione e altri fattori di benessere (che in qualche modo sono influenzati dal benessere materiale). Un ISU superiore a 0,8 qualifica un paese quale paese in via di sviluppo (così almeno nel sistema di calcolo a base logaritmica utilizzato sino al 2009 che andava da 0 a 1).
Sia per il primo come per il secondo criterio, l’esclusione in alto si applica andando a considerare gli stati in cima alle relative classifiche che sono per questo considerati più sviluppati.
Il paradosso di Cina, Russia e Brasile
Tornando alla discussione del COP 27, possiamo quindi trovare la Cina annoverata tra le maggiori potenze economiche (e non solo militari) se consideriamo il prodotto interno lordo totale, ma poi vederla quale un paese in via di sviluppo se consideriamo il reddito pro capite o l’indice di sviluppo umano.
Questo avviene anche per grandi stati quali la Russia e il Brasile. Tant’è che accanto al gruppo delle maggiori economie del mondo G20 (che comprende 20 paesi e l’Unione Europea), si è costituito anche il gruppo del G20 dei paesi in via di sviluppo (che in realtà sono in 23) nei quali ci sono stati quali Cina, Messico e Brasile che rientrano anche nel G20 delle maggiori economie.
Aspetto curioso (e da ricordare) è che per il WTO (l’Organizzazione mondiale per il commercio), la qualificazione di paesi in via di sviluppo è rimessa allo stato stesso che reclama lo status (anche se poi tale qualificazione deve essere riconosciuta dagli altri stati) e questa è rilevante per ottenere trattamenti preferenziali: tra i casi più di discussi rientra di nuovo Singapore che in passato ha più volte reclamato un tale status sebbene si tratti di uno degli stati con più elevato reddito pro capite e ISU elevato.
Loss and damages fund, quali beneficiari
Tornando al tema in argomento, sebbene la confusione terminologica continui (è del 22 novembre una dichiarazione di un ministro di Singapore sui social media che “il fondo andrà in aiuto ai paesi in via di sviluppo”) e sebbene una decisione non emerga chiara, più che di parlare di paesi in via di sviluppo quali beneficiari, si dovranno considerare quegli stati considerati vulnerabili al cambiamento climatico e con livelli di prodotto interno, aumentato dalle rimesse degli emigrati, a livello medio basso o basso, secondo la classificazione della Banca Mondiale, perché in tal modo si andranno a identificare solo coloro che hanno effettivo bisogno da una lato, escludendo il rischio che si tratti anche di coloro che hanno contribuito con il proprio sviluppo al riscaldamento globale.
Paesi vulnerabili al cambiamento climatico quindi, ma per favore non chiamateli fragili, come è capitato di sentire, per non confonderli con quelli caratterizzati da governi deboli e ad alto rischio di guerra civile (vedi il Fragile State Index formulato dal Think Tank statunitense Fund for Peace e la qualificazione FCS del Gruppo Banca Mondiale: Fragile and Conflict-affected Situations riferita agli stati che vi ci versano)
È solo questione di parole, ma cariche di conseguenze e come insegnava Franco Cordero, “per il giurista la parola è tutto”.