Nel mondo, e in Italia in particolare, pressocché tutto il comparto/bacino di utenza del trasporto di persone e merci (così come altri comparti, in verità) si interroga da diverso tempo su quale tipo di risposta offrire per il raggiungimento degli obiettivi della decarbonizzazione così come pur faticosamente identificati e convenuti nei consessi di pertinenza a livello internazionale.
Fra questi, di rilievo, il settore aeronautico, così come rappresentato nell’articolo di Gwyn Topham, pubblicato il 10 giugno 2023 su The Guardian, dal titolo Airlines hope that sustainable fuels will propel them to a guilt-free future, a commento della riunione annuale IATA (International Air Transport Association), tenutasi la settimana precedente a Istanbul, Repubblica di Turchia.
Anche in questo caso, così come in quello del trasporto navale (vedi nave Zeus a idrogeno verde, varata da Fincantieri a Castellammare di Stabia nel 2022, gli stessi cantieri, per inciso, che costruirono la Vespucci nel 1931), dell’automotive su terra, del trasporto ferroviario, si osserva il tentativo di reperire e ricorrere a una materia prima intrinsecamente dotata della proprietà di generare energia green, in ogni caso capace di eliminare o almeno ridurre drasticamente il ricorso al fossile. C’è dunque un comune denominatore nelle risposte dei diversi bacini di utenza e comparti produttivi: “io mi rendo energeticamente indipendente e lo faccio in modo green”. Per farlo in modo green, la citazione più frequente è quella dell’idrogeno verde, materia che non esiste libera in natura e va prodotta tipicamente per elettrolisi, dunque a scapito di energia elettrica (già forma di energia pulita che da qualche parte deve pure provenire: e qui si citano sorgenti certamente possibili, quali bacini idrici) e fotovoltaico, ma pure certamente altrettanto insufficienti.
Non è questione di indipendenza energetica, ma tecnologica
Risulta del tutto evidente mettere in luce un primo punto cruciale: nessuna regione del pianeta, ricca di qualsivoglia materia prima opportunamente manipolata può dirsi con proprietà “energeticamente indipendente”, dal territorio più grande a quello più piccolo. La ragione è evidente: non basta la risorsa materia prima (qualunque essa sia), bensì occorre la capacità tecnologica di trasformarla, attraverso diverse metodologie tecnico-scientifiche e corrispondenti impianti tecnologici (a volte di grande complessità), in una qualche forma di energia realmente fruibile, ovviamente nel modo più sostenibile possibile con il vincolo di un adeguato periodo di tempo per fare tutto quanto. Spesso si è assistito, specie in Italia, a sterili dibattiti, frequentemente televisivi, dal titolo “indipendenza energetica italiana”: ecco, proprio a partire dal titolo, la questione è mal posta: occorre sostituirla con “indipendenza tecnologica italiana”, che è il presupposto per ottenere sufficiente energia fruibile. E questo, si noti bene, a partire da qualsiasi risorsa intesa come materia prima: carbone, gas, nucleare, bacini idrici, etc.: si tratta di essere capaci e forti per progettare e sviluppare tecnologie sempre più sofisticate per produrre l’energia necessaria, magari pure a partire da un mix opportuno di materie prime.
È sempre una questione di competenze
Da qui discendono diverse considerazioni sulle conoscenze, competenze e capacità che vanno perseguite riguardo la formazione dei tecnici e degli ingegneri, a ogni livello. Tutto ciò è progressivamente stato trascurato, certamente in Italia, per molti decenni, sulla presunta e fallace idea che “tanto le tecnologie si possono comprare, è solo una questione di risorse economiche”: con tutta evidenza, non è così, perché secondo questa logica si diviene culturalmente dipendenti da quelle persone, comunità, Paesi, che quelle determinate tecnologie hanno progettate, sviluppate e via via migliorate, con consapevolezza anche degli effetti potenzialmente avversi e i corrispondenti “piani B”.
Del resto, questa è la strada che intraprese proprio l’Italia con Enrico Mattei, negli anni ’50, a valle del secondo conflitto mondiale e che ha consentito il “miracolo economico” italiano negli anni ’60. Si trova traccia di questo approccio oggi nell’eccellenza del comparto manifatturiero italiano, specie delle PMI, che riescono ad avere successo nel mercato internazionale, ma andrebbe recuperata una visione sistemica perché si possa conseguire una stabile indipendenza tecnologica, la quale è il presupposto per evitare crisi energetiche di varia natura.
L’insostenibile vaghezza della transizione tecnologica italiana
Deve essere chiaro altresì come tale indipendenza tecnologica, basata sul sapere e sul saper fare debba ispirarsi alla massima qualità in termini di sostenibilità, valutando tempi e costi in senso lato del termine. Qui si lega la seconda questione, ovvero quella della cosiddetta “transizione ecologica”: l’Italia è stata perfino capace di denominare con tale dizione un suo Ministero in tempi recenti. Tuttavia, va osservata anche qui la vaghezza della denominazione.
Quando infatti si parli di una qualsivoglia transizione (si pensi solo alle transizioni delle particelle della fisica!) dovrebbe essere ben chiaro il punto di partenza (forse questo lo era, nella dizione ministeriale), ma certamente era assai vago il punto di arrivo. La ragione è che quella transizione, così aggettivata come ecologica, non poteva essere disgiunta dalla dimensione sociale ed economica: dunque, “transizione ecologica” costituisce dizione non corrispondente a qualcosa di attuabile in un tempo definito perché priva delle considerazioni relative agli impatti sulla società e sull’economia, impatti entrambi ben più rilevanti e immediati di quello sull’ambiente naturale.
Valga su tutto l’esempio del passaggio banalizzato da automobili a motore endotermico a automobili elettriche e di tutto quanto il dibattito e le perplessità scatenate dai tempi indicati, certamente sottostimati. Tutto quanto fin qui scritto può essere riassunto nella dizione “indipendenza tecnologica per sostenibilità energetica e ambientale”.
Miniere sottomarine: ora si rischia il far west
C’è però un’altra considerazione che va a chiudere il cerchio di quanto sopra rappresentato, seppure essa faccia riferimento a un orizzonte temporale un poco più lontano, ma sempre ineludibile. Questo punto è bene illustrato nell’articolo di Sissi Bellomo su Il Sole 24 Ore del 21 luglio 2023, relativo alle miniere sottomarine, dal titolo “Metalli green dagli abissi, ora si rischia il Far West”.
In buona sostanza, si tratta di una corsa contro il tempo per trovare un accordo internazionale che prevenga lo sfruttamento selvaggio dei fondali oceanici: terre rare, cobalto, rame nickel a 4000 metri di profondità in quantità inestimabile, miliardi di tonnellate di risorse minerarie, più di quelle estratte in tutta la storia dell’umanità, proprio quelle materie prime sulle quali innestare il discorso dell’indipendenza tecnologica di cui sopra al fine di provare il percorso della transizione completa nei suoi aspetti diversi, comprendenti natura e carne viva delle persone umane che lavorano oggi, in modo socialmente, economicamente ed ecologicamente sostenibile.
Forse pochi sanno, almeno in Italia, dell’esistenza di un organismo dell’ONU, costituito nel 1982 e denominato International Seabed Authority (ISA), che ha il mandato di regolare, tuttavia senza risultati da decenni, le attività denominate come deep sea mining, nei fondali marini che si trovano fuori dalle acque territoriali degli Stati (circa il 60% del totale), aree classificate come “patrimonio comune dell’umanità”. Pochi giorni fa, si è tenuto in Giamaica, un vertice dell’ISA (il prossimo si terrà a ottobre 2023), dove si è discusso della eventuale attivazione dello sfruttamento commerciale di un’area sottomarina ultraprofonda nell’Oceano Pacifico da parte di società di Paesi diversi, già pronti ad agire dal 2024 e con capitali consistenti.
Tutto questo però in assenza di un quadro definito di regole e prima di avere un quadro completo del possibile impatto, anche perché l’ecosistema degli abissi è delicato e misterioso, popolato da migliaia di micro organismi in gran parte non ancora classificati. Deep sea mining (necessario) e biodiversità (da salvaguardare) vanno messi in equilibrio, con una visione internazionale e almeno linee guida condivise, attualmente non esistenti. L’Italia è presente con il MASE e il MIMIT e potrebbe pure fare sentire la sua voce, richiamando proprio a tutti quello che scrisse 1500 anni fa Giustiniano: quaedam enim naturali iure communia sunt omnium.