Due esempi su tutti – il nuovo piano di Unicredit per la digitalizzazione delle attività e quello di Volkswagen improntato alla decarbonizzazione e che potrebbe costare 30 mila posti di lavoro – fanno riemergere le domande e i dubbi legati al binomio digitale-occupazione, al quale si aggiunge, ora, anche l’inevitabile impatto sul mondo del lavoro della transizione energetica: le nuove tecnologie distruggono l’occupazione? O, al di là dei problemi che esse possono generare nel breve periodo, rappresentano una condizione necessaria per lo sviluppo? Impattano su alcune classi sociali piuttosto che su altre, con ricadute anche rilevanti sulla distribuzione del reddito e sulla politica? Impattano in maniera differenziata, nei loro effetti immediati e in quelli di lungo periodo, sui diversi territori e sui diversi Paesi?
Sono domande che spesso si sono poste gli storici, guardando al passato, e che si pongono (o dovrebbero seriamente porsi) il mondo politico e sociale e il sistema delle imprese, per gestirli al meglio, in presenza di fenomeni di rilevanza epocale quali:
- la trasformazione digitale, che sembra ancora lontana dall’esaurimento della sua spinta vitale,
- la transizione energetico-ambientale, che seppure di origine diversa (è la politica che ne determina le modalità e i tempi sotto la spinta dell’emergere di nuovi valori nella società), ha un impatto simile se non superiore – per portata e trasversalità – a quello delle più grandi ondate di innovazioni tecnologiche.
Automazione fa sempre rima con disoccupazione? Lo scenario italiano
Digitalizzazione del lavoro, i posti a rischio: esempi e numeri
Rispetto al passato (vedi box in basso), quello che stiamo vivendo oggi è un problema molto pesante: la sempre maggiore specializzazione richiesta nel mondo del lavoro, se non nei mestieri più umili, rende più difficile la ricollocazione delle persone che le nuove tecnologie e i nuovi business model rendono “obsolete”. Non solo: a chi perde il lavoro perché “obsoleto” si aggiunge chi perde il lavoro perché occupato in una impresa divenuta “obsoleta”, a causa ad esempio dei nuovi vincoli in materia ambientale.
Qualche esempio e qualche numero. Un recentissimo studio di tre accademici italiani -“Rischi di automazione delle occupazioni: una stima per l’Italia” (Stato e Mercato, dic. 2021) – valuta in una forchetta fra quasi 4 e oltre 7 milioni (a seconda della metodologia utilizzata) il numero di lavoratori a rischio in Italia come riflesso dei processi di digitalizzazione. Nello stesso momento in cui Confindustria denuncia l’enorme difficoltà delle nostre imprese nel reperire persone con competenze digitali.
Il nuovo piano appena presentato da Unicredit, fortemente improntato alla digitalizzazione delle attività (in linea con il progressivo passaggio a fintech del comparto in tutto il mondo), prevede la dismissione di un numero imprecisato ma sicuramente elevato di dipendenti che non hanno più un ruolo da svolgere (ad esempio per la riduzione del numero di filiali e le diverse modalità di erogazioni dei servizi in quelle attive), l’assunzione di 2.100 nuovi dipendenti con competenze digitali (a fronte dei 1.500 con competenze bancarie), nonché l’internalizzazione di una parte delle attività digitali attualmente in outsourcing.
Decarbonizzazione: criticità occupazionali e ruolo della politica
Agli esuberi “figli” della digitalizzazione di Unicredit si possono far corrispondere quelli “figli della decarbonizzazione” di Volkswagen, dovuti al progressivo passaggio all’auto elettrica reso cogente dall’UE: 30mila nella sola Germania secondo l’AD Herbert Diess, cui si aggiungeranno molti di quelli operanti nelle imprese (tante le italiane) produttrici di componenti destinati all’obsolescenza. E nello stesso momento, nel suo piano 2022-2026, essa prevede di investire 30 miliardi di euro nel software, visto come strategico per la differenziazione: con l’obiettivo, analogo a quello di Unicredit, di fare crescere dal 10 al 60% la quota prodotta “in casa”.
In sintesi, non ci sono dubbi sulla risposta da dare alla domanda che retoricamente ho posto all’inizio di questo articolo: i Paesi e le imprese che meglio sanno “cavalcare” le nuove tecnologie e i nuovi business model e più velocemente sanno adattarsi al sistema di vincoli e incentivi in tema di ambiente sono quelli che hanno le maggiori prospettive di crescita.
I Paesi però devono essere capaci di gestire le criticità occupazionali a breve e i riflessi sociali e politici che i cambiamenti comportano.
La strategicità della formazione continua
Essi devono innanzitutto considerare strategica la formazione continua, vista non solo come aggiornamento ma anche come spostamento verso competenze diverse, incentivando le imprese a muoversi nella stessa direzione: con l’obiettivo di contenere il fenomeno della disoccupazione per obsolescenza, riducendo i costi che altrimenti dovrebbero essere sostenuti (prepensionamenti, reddito di cittadinanza, etc.) ed evitando il radicalizzarsi di forme di luddismo a livello sociale e politico.
Imprese, il problema delle dimensioni
Essi devono considerare strategica la nascita di nuove imprese innovative e favorire in ogni modo la loro crescita: sapendo che l’aspettativa di vita delle imprese su scala mondiale è in continuo calo e che le startup hanno spesso una maggiore facilità nel gestire le tecnologie e i business model innovativi. La dimensione poi è un problema molto serio per l’Italia, “orfana” di grandi imprese, per il fondamentale contributo di diffusione delle competenze e capacità manageriali che esse possono dare e per l’influenza che (se presenti su scala mondiale) possono avere sulle decisioni assunte negli organi multilaterali.
Il problema della contrazione della classe media
Essi dovrebbero infine cercare di evitare, anche se è un tema che richiederebbe uno sforzo comune almeno all’area occidentale, la contrazione della classe media. È un tema che è stato ampiamente dibattuto a metà dello scorso decennio nell’ambito del World Economic Forum di Davos e ripreso ad esempio recentemente in uno studio pubblicato dalla MIT Technology Review – “The work of the future: Building better jobs in an age of intelligent machines” – che riguarda il tipo di lavori più a rischio di essere delegati ad algoritmi di intelligenza artificiale o a robot: sono i lavori che richiedono un certo livello di competenza, con remunerazioni perciò da classe media, ma che hanno un grado elevato di ripetitività tale da essere trasferiti a macchine intelligenti.
Il pericolo, per la stessa sopravvivenza della democrazia, è quello della proletarizzazione della maggior parte della popolazione – per lo “scivolamento verso il basso” di una parte della classe media – e della concentrazione della ricchezza nelle mani di una percentuale ristretta della popolazione.
Innovazione e problemi connessi, dal Medioevo ai giorni nostri
Parto dalla storia, una materia che mi ha sempre appassionato, scusandomi per le possibili/ probabili imprecisioni.
La bardatura a collare e l’aratro
E parto dal basso Medioevo, dai primi secoli del secondo millennio, quando si diffuse una importante innovazione nell’agricoltura (l’attività all’epoca largamente dominante) – la rotazione triennale delle coltivazioni in luogo della biennale – che ne permise un forte incremento della produttività. E che, insieme con l’introduzione di nuovi dispositivi tecnologici – la bardatura a collare degli animali impiegati nell’aratura e l’aratro pesante – ridusse il fabbisogno di lavoratori agricoli, penalizzando i livelli di occupazione.
Fu un grosso problema? Sicuramente sì per gli individui costretti a cercare posti di lavoro precari nelle città, all’epoca ancora poco sviluppate dopo la lunga parentesi seguita alle invasioni barbariche. Sicuramente no in termini complessivi e su un orizzonte temporale più lungo, perché si liberarono risorse umane – in quantità rilevante e (almeno all’inizio) a basso costo – che permisero lo sviluppo delle attività artigianali (l’industria di allora) e, con il PIL da esse generato, la crescita delle città e di una serie di nuove attività legate allo sviluppo delle stesse (a partire tipicamente dalle costruzioni).
Fu un fenomeno che si verificò ovunque? La risposta è no. Alcuni territori (molti di essi in Italia) godettero di una grande crescita, mentre altri viceversa rimasero depressi: con un processo che tendeva ad autoalimentarsi, perché la crescita delle attività commerciali e i connessi fenomeni di specializzazione produttiva premiavano i territori più sviluppati.
L’arrivo dell’automobile
Mi sposto a molti secoli dopo, al periodo a cavallo fra ‘800 e ‘900. quando venne al mondo l’automobile. Le principali vittime furono coloro che fabbricavano carrozze e gli allevatori di cavalli, ma con Ford nacque l’idea stessa di industria e iniziò il lungo processo di messa a punto delle infrastrutture indispensabili per l’espansione dell’auto come nuovo mezzo di spostamento e di trasporto: quali le strade innanzitutto, le reti di distributori di carburanti, le officine per la manutenzione e la riparazione, i concessionari; ma anche le supply chain, l’insieme di fornitori e subfornitori delle imprese automobilistiche per tutto quello che non veniva prodotto all’interno; ma anche le attività bancario-finanziarie-assicurative connesse con l’automobile.
Fu un fenomeno uniforme? La risposta è no: la maggiore occupazione e ricchezza si creò soprattutto nei Paesi e nelle aree ove si producevano le auto e/o i loro componenti più critici e/o ove erano locate le attività bancario-assicurativo-finanziarie di supporto al mondo dell’auto.
Fu un fenomeno veloce? La risposta è ancora no, se si guarda alla diffusione dell’auto a livello popolare: il decollo del “maggiolino” della Volkswagen (letteralmente come noto “vettura del popolo”) – un modello progettato su espressa volontà di Hitler in forma semplificata per renderne più accessibile l’acquisto – avvenne solo nel dopoguerra. E la Fiat 600, simbolo del boom economico italiano, fu lanciata nel 1955, lo stesso anno in cui fu approvata la legge per lo sviluppo organico del sistema autostradale italiano, di cui preesistevano pochi tratti prebellici. Le attività di fabbricazione delle carrozze e gli allevamenti di cavalli da tiro non morirono quindi subito – come è capitato viceversa in tempi più recenti ai produttori svizzeri di orologi non di lusso con l’avvento degli elettronici o alle imprese quali Kodak con l’abbandono delle tradizionali pellicole a favore della fotografia digitale – ma ebbero un progressivo declino nel tempo.
Ed è interessante notare che non furono le abilità e competenze dei singoli a entrare in crisi, quanto piuttosto le imprese (ancorché di dimensione minima) a morire per la perdita di rilevanza del loro output.
L’automazione della produzione industriale
Se mi sposto a un periodo più vicino, agli ultimi decenni del secolo scorso, con l’aumento del costo del lavoro ci fu una accelerazione dell’automazione della produzione industriale, espressamente volta a ridurre i costi di produzione, aumentandone allo stesso tempo il livello di qualità di conformità. Nuovi impianti sempre più automatizzati, e da un certo momento in poi robotizzati, al posto delle persone: con una penalizzazione delle attività più facilmente automatizzabili e un aumento viceversa dei livelli di professionalità richiesti per gestire gli impianti e la logistica.
Con quali conseguenze a breve per l’occupazione? La risposta è articolata e (non solo nel nostro Paese) territorialmente molto differenziata. I problemi maggiori – nel riassorbimento della disoccupazione generata dall’automazione o dal fallimento delle imprese che non automatizzandosi perdevano competitività – si sono ovviamente avuti nelle aree economicamente più depresse, già afflitte da una disoccupazione/ sottoccupazione endemica. Minori i problemi nelle aree più ricche, per la crescita della domanda complessiva e lo sviluppo di nuovi settori, tra cui quali quelli legati al “tempo libero” (favoriti dalla riduzione degli orari di lavoro e dalla crescita del reddito disponibile).