moda e ambiente

Nuove tecnologie per un’industria tessile ecosostenibile: quali sono e come funzionano

Quella dell’industria tessile è una filiera lunga e inquinante in tutti i molti passaggi che vanno dalla materia prima al prodotto finito. L’attenzione verso una moda più responsabile sta però crescendo, così come la produzione di tessuti sostenibili che possano sostituire quelli “tradizionali”

Pubblicato il 06 Set 2022

Egle Conisti

Ricercatrice presso il CNR IIA - Istituto sull’Inquinamento Atmosferico del CNR

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Tra le attività economiche che incidono maggiormente sulla sostenibilità ambientale, l’industria tessile è tra i primi posti insieme a quella petrolifera, che impiega fonti fossili per produrre energia. Dalla materia prima al prodotto finito, sono moltissimi i passaggi richiesti: ognuno di questi ha un impatto rilevante.

Di fronte a questo scenario, considerato che la produzione mondiale di indumenti è destinata a crescere del 63% entro il 2030, si dimostra necessario aderire ai progetti e alle proposte che le nuove tecnologie stanno avanzando in merito, attraverso una serie di interventi mirati e ragionati anche al cambiamento delle abitudini di noi esseri umani.

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I problemi principali causati all’ambiente dall’industria tessile

I capi di abbigliamento sono probabilmente il bene più comune che le persone acquistano nel mondo, e il numero medio di capi che un individuo acquista ogni anno è cresciuto drasticamente: una ricerca di McKinsey & Company mostra che il numero di capi prodotti annualmente, a partire dal 2000, è più che raddoppiato e che aveva superato i 100 miliardi di pezzi l’anno già nel 2014.

Tralasciando le condizioni di lavoro e di sfruttamento alle quali purtroppo ancora molto spesso sono sottoposti i lavoratori del settore, i problemi principali causati dall’industria tessile includono il consumo di risorse, l’inquinamento delle acque, l’inquinamento atmosferico e l’inquinamento derivante dalla produzione di rifiuti solidi. Se consideriamo il boom più recente della “fast fashion” (ovvero la “moda veloce”, che consente una disponibilità costante di nuovi stili a prezzi molto bassi), è scontato immaginare il forte aumento della quantità di indumenti prodotti, utilizzati e infine scartati.

I cittadini europei consumano ogni anno quasi 26 kg di prodotti tessili e ne smaltiscono circa 11 kg. Globalmente, ogni anno, circa 90 milioni di capi di abbigliamento finiscono nelle discariche. Gli indumenti usati possono essere esportati al di fuori dell’UE, ma per lo più vengono inceneriti o portati in discarica (87%). A livello mondiale, meno dell’1% degli indumenti viene riciclato come vestiario, in parte a causa di tecnologie inadeguate. Alcuni degli agenti inquinanti che finiscono nelle discariche includono: la filaccia, gli scarti delle fibre, i ritagli e gli imballaggi usati prodotti nella preparazione del tessuto; i fanghi prodotti dal trattamento delle acque di scarico; contenitori dei prodotti chimici e dei coloranti utilizzati nei processi di colorazione e finissaggio dei tessuti.

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L’impatto della produzione e dei rifiuti tessili sull’ecosistema

Si calcola che l’industria tessile sia responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio, più del totale di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme.

Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’UE nel 2017 hanno generato circa 654 kg di emissioni di CO2 per persona. Nello specifico, l’inquinamento atmosferico prodotto dall’industria tessile include: ossidi di azoto e diossido di zolfo derivanti dalle fasi di produzione energetica; composti organici volatili (VOCs) prodotti nella fase di coating, asciugatura, colorazione, trattamento delle acque di scarico e stoccaggio; vapori di anilina, acido solfidrico, cloro e diossido di cloro prodotti nelle fasi di colorazione e decolorazione.

Abbigliamento, una filiera molto lunga e inquinante

Inoltre, ogni giorno, le fabbriche tessili rilasciano milioni di litri di acque reflue non trattate nelle fognature pubbliche che di fatto vengono scaricate nei fiumi e nei mari. Tendenzialmente vengono impiegati 95-400 litri di acqua per kg di tessuto a seconda del processo di lavorazione in corso e le acque reflue tessili ad oggi sono circa il 22% del volume totale generato da tutti i diversi tipi di industrie. Per questo motivo lo smaltimento delle acque reflue è divenuta una delle maggiori preoccupazioni ambientali negli ultimi decenni.

Il processo di colorazione delle fibre rappresenta il passaggio più inquinante, consumando più di 100 litri di acqua per chilogrammo di materiale trasformato. L’80% di questo volume viene scartato come acque reflue estremamente colorate, visto lo scarso assorbimento da parte delle fibre tessili. Si stima che ogni anno circa 105 tonnellate di coloranti vengano rilasciate nell’ambiente tramite i 200 miliardi di litri di acque reflue.

Le tinte sono composte da molecole che sono state studiate e scelte appositamente per garantire grande stabilità e resistenza. Questo implica che il colorante rappresenti un enorme problema nelle acque di scarico perché non facilmente degradabile: la maggior parte di queste tinte sono dette azotate perché posseggono un particolare legame chimico tra due atomi di azoto, solitamente non presente in natura e quindi particolarmente resistente alla degradazione. Quella dei capi di abbigliamento è una filiera molto lunga, nella quale l’indumento è trattato, impregnato, imbevuto, vaporizzato con i più svariati prodotti chimici: coloranti, pigmenti artificiali, formaldeide, nichel, ammoniaca, cloruro, nitrato, fosfato, solfato, metalli pesanti e altro ancora. Alcune fibre vengono trattate, per esempio, con il dimetilfumarato, un tipo di antimuffa usato per preservare i tessuti durante lunghi periodi di stoccaggio.

Non è un caso infatti che Rapex, il sistema di allerta rapido europeo per i prodotti di consumo pericolosi (esclusi quelli alimentari, farmaci e presidi medici), metta al primo posto della classifica per sostanze chimiche a rischio, proprio vestiti e capi di moda e che il 7-8% delle patologie dermatologiche, stando ai risultati di uno studio commissionato dalla Commissione UE – Chemical substances in textile products and allergic reactions – siano dovute ai vestiti che indossiamo. Quindi, oltre che per l’ambiente, l’abbigliamento che indossiamo ogni giorno è potenzialmente dannoso direttamente per la salute umana essendo contaminato da sostanze tossiche che interagiscono con il nostro organismo tramite il contatto prolungato con la pelle.

Inoltre, il lavaggio di indumenti sintetici è responsabile del rilascio del 35% di microplastiche primarie nell’ambiente marino. Un ciclo di lavaggio di soli capi sintetici produce fino a un milione di microfibre, tutte di dimensioni inferiori a 5 millimetri, il 40% non viene intercettato da nessun impianto e completa il suo viaggio solo in mare. Dai dati ottenuti con la ricerca A New Textiles Economy della fondazione Ellen MacArthur è emerso che ogni anno vengono scaricate in mare mezzo milione di tonnellate di microfibre, l’equivalente di cinquanta miliardi di bottiglie di plastica. Secondo una ricerca dell’University College of Dublin, su un carico da 6 kg, i tessuti misti cotone e poliestere rilasciano quasi 138 mila fibre, il poliestere circa 496 mila e l’acrilico 729 mila. Dall’impianto di depurazione poi, i frammenti potrebbero tornare all’uomo attraverso la catena alimentare. Sia tramite i fanghi di depurazione usati come fertilizzanti nei campi, sia attraverso il bioaccumulo in quegli organismi usati per l’alimentazione umana. Come detto in precedenza, una delle ipotesi sulla tossicità delle microplastiche è legata soprattutto alle sostanze nocive impiegate per la loro produzione ma anche ai contaminanti organici e metallici raccolti in ambiente e assorbiti sulla loro superficie. In questo modo le microplastiche potrebbero fungere da vettori per tali composti tossici, aumentando l’esposizione effettiva.

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Prospettive di risanamento: natura e tecnologia ci vengono in soccorso

Una strategia per ridurre, ad esempio, le microfibre prodotte dei nostri lavaggi è fare un investimento in un prodotto tecnologico come la Cora Ball. Creata dal Rozalia Project for a Clean Ocean e finanziata in crowdfunding su Kickstarter, si tratta di una sfera che cattura le microfibre che vagano per il cestello dopo essersi staccate dai vestiti. Evitando che finiscano negli scarichi, riduce i residui dei capi sintetici del 26%. Un’altra soluzione è il sacco Guppy Friend: i vestiti vanno inseriti e lavati al suo interno. L’acqua passa attraverso le maglie del sacco, l’azione della lavatrice rimane efficace ma le microfibre vengono intercettate, per poi essere raccolte alla fine del bucato. Esiste anche la possibilità di inserire dei filtri per le microfibre sia all’interno che all’esterno della lavatrice, che garantiscono una protezione quasi totale.

Ulteriore strategia per ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile riguarda l’orientamento ecosostenibile della filiera, le cui potenzialità sono enormi, fino a rappresentare il 20% del fatturato del settore in Italia (4,2 miliardi). D’altra parte, già ora il 55% degli italiani è disposto a pagare di più per capi di abbigliamento eco-friendly realizzati con eco-tessuti. Negli ultimi anni, infatti, l’attenzione verso una moda più responsabile sta crescendo esponenzialmente, così come la produzione di tessuti sostenibili che possano sostituire quelli “tradizionali” e avere un minore impatto ambientale.

Tessuti e sostenibilità

Una comune classificazione delle fibre suddivide i tessuti naturali, ovvero derivati da fibre organiche o di origine animale, dai tessuti man made, cioè prodotti artificialmente. Alla prima classe appartengono, ad esempio, il cotone, la seta, il caucciù, la lana, il lino e la canapa, mentre nella seconda troviamo tutti i tessuti sintetici come il nylon e il poliestere, ottenuti da materiali fossili, e il rayon e l’acetato, realizzati partendo dalla cellulosa degli alberi. In termini di sostenibilità, tuttavia, questa suddivisione non può considerarsi valida perché l’origine non decreta l’impatto. Infatti, nonostante il cotone sia una fibra naturale, la sua produzione prevede un elevato consumo d’acqua che risulta quindi di notevole impatto ambientale.

Perciò è più appropriato suddividere i tessuti in base ad altri criteri: tessuti non rinnovabili, ovvero che hanno un bassissimo tasso di biodegradabilità, derivanti da risorse sempre meno reperibili in natura e il cui processo produttivo produce consumi energetici esorbitanti, emissioni di CO2 elevate e un alto rischio di disperdere sostanze chimiche pericolose durante la lavorazione.

tessuti riciclati, che possono essere riutilizzati così come sono o riciclati all’interno di un nuovo ciclo produttivo usando materiali provenienti dalla raccolta di abiti dismessi, da oggetti post-consumo appartenenti ad altri settori industriali o da scarti ed eccedenze prodotti nei diversi stadi della filiera.

Infine i tessuti innovativi, provenienti ad esempio dal riutilizzo di scarti agroalimentari che vengono impiegati per produrre materiali a basso impatto ambientale. Proprio riguardo questi ultimi, l’attenzione alle risorse naturali si è fatta sentire fortemente in questo settore tanto da creare prospettive per nuovi tessuti, realizzati con materiali organici e quindi biodegradabili al 100%, ecosostenibili, facilmente riciclabili o dismissibili. L’innovazione nel connubio moda-tecnologia, così, è divenuta la scelta più responsabile, vincente e competitiva.

Esempi di tessuti innovativi

Tra i tessuti innovativi vi è Orange Fiber che deriva dalla trasformazione dei materiali vegetali della filiera agrumicola. La cellulosa, estratta dagli scarti delle arance utilizzate negli stabilimenti che producono succhi e profumi per l’ambiente, viene trasformata in rocchetti di filo per creare tessuti del tutto simili alla seta.

Una fibra tessile naturale ricavata dalla cellulosa delle alghe marine è Seacell, una fibra cellulosica nella quale sono inseriti in modo permanente estratti di alghe e ioni di argento. La cellulosa di alga marina viene disciolta ed incorporata in cellulose provenienti da altre piante e successivamente convertita in fibre caratterizzate da una elevata resistenza e da una bassa percentuale di restringimento.

In Giappone, fin dal tredicesimo secolo, le banane vengono utilizzate per realizzare un tessuto leggerissimo, lo jusi, tuttora impiegato per il confezionamento dei kimono. Lo jusi è un simil cotone, la cui materia prima proviene essenzialmente dagli scarti del raccolto che solitamente vengono gettati via. Alcuni studi condotti in India dal Centro Nazionale di Ricerca sulla Banana (National Research Centre for Banana), insieme all’Istituto Centrale di Tecnologia del Cotone di Mumbai, sono giunti alla conclusione che, essendo, oltre che economici, completamente biodegradabili ed eco-compatibili, i prodotti in fibra di banana sono destinati ad incontrare una grande domanda sui mercati internazionali.

Numerosi stilisti invece utilizzano la fibra di eucalipto ricavata dall’omonimo albero (Tencel Lyocell Eucalyptus), per creare abiti ecologici. Questa fibra, grazie alla sua straordinaria morbidezza, risulta ottima per la realizzazione di capi in maglieria. La fibra di eucalipto, ottenuta sminuzzando e riducendo in poltiglia il legno proveniente da boschi certificati FSC (Forest Stewardship Council), assorbe bene l’umidità, ed è soprattutto traspirante e antibatterica.

L’ortica poi è entrata a tutti gli effetti nel mondo della moda grazie a diversi progetti europei, fra cui l’italiana Grado Zero Escape con la sua giacca 100% in fibra d’ortica. I vantaggi di questa pianta sono notevoli: non ha bisogno di fertilizzanti e richiede poca acqua per la coltivazione, classificandosi così tra le fibre più sostenibili.

Soyebean Protein Fiber è una fibra tessile botanica avanzata, derivante dalla soia post-oliatura. Il processo di produzione di questo tessuto è ecologico al 100% e prevede che la proteina base venga estrapolata dalla soia distillata e raffinata. Il liquido estratto viene prima sottoposto ad operazioni di polimerizzazione che ne modificano fortemente la struttura compositiva e poi viene cotto per produrre il filato ad umido. Infine il materiale ottenuto viene tagliato e termoformato. Le sostanze ausiliarie di polimerizzazione del materiale base sono naturali e gli scarti che ne derivano vengono utilizzati come mangime.

L’azienda Aquafil, leader mondiale nel settore delle fibre sintetiche, ha progettato Econyl, un filo di nylon rigenerato creato partendo da quello che nessuno usa più. Si recupera il nylon dai rifiuti delle discariche e abbandonati in mare, e viene rigenerato dandogli una nuova vita. Ottenuto dai rifiuti, come reti da pesca abbandonate, scarti tessili e plastica, questa fibra è riciclabile all’infinito. Il processo produttivo prevede quindi che il nylon proveniente dai tessuti a fine vita (tappeti, abiti, reti, materiali edili) venga separato dagli altri materiali, conservato, pulito, triturato e inviato allo stabilimento di depolimerizzazione dal quale viene poi inviato ad impianti di produzione dove viene trasformato in Econyl. Il prodotto può essere utilizzato per pavimentazioni tessili e per produrre costumi da bagno e capi d’abbigliamento.

Da una particolare lavorazione dello zucchero rilasciato da mais, amidi e da alcuni legumi, si ottiene un polimero chiamato PLA (acido poliattico) che viene filato ottenendo il Corn Fiber, un materiale ecologico ad alto assorbimento di umidità, traspirante, lucido e con una buona resistenza al calore e ai raggi UV. Le macchine necessarie alla sua produzione producono livelli bassi di CO2 e i residui rilasciati dall’operazione vengono riciclati per diventare dei fertilizzanti. Il limite è che il materiale finale risulta un po’ rigido e delicato ma può essere utilizzato per confezionare abiti e per imbottire materassi, cuscini e divani e per realizzare giochi per bambini. La sua alta capacità isolante permette l’utilizzo anche nel campo edile, nei cappotti, nelle coperture ventilate, nelle intercapedini interne e nei solai.

Per quanto riguarda i tessuti che possono sostituire l’uso di pelle animale, l’azienda italiana Mymantra S.r.l. ha creato un materiale ecologico chiamato Nuo Leaf, composto da cellulosa vegetale tessuta e spalmata. La composizione vegetale, la totale assenza di parti animali e di sostanze provenienti da idrocarburi rendono il materiale completamente biodegradabile. Ancora un pellame interamente ecologico, questa volta proveniente dagli scarti della lavorazione del vino, è quello prodotto dall’azienda Vegea. Il processo inizia dalla spremitura dell’uva e dalla separazione delle vinacce, fasi che sono alla base della produzione del vino e che vengono eseguite dalle aziende vinicole. La vinaccia viene essiccata e in seguito vengono eseguiti dei trattamenti fisici e meccanici brevettati. Si realizza una miscela che viene spalmata, fino a realizzare dei veri e propri teli. Il processo produttivo termina con trattamenti di finitura specifici e diversificati in modo tale da conferire diverse gradazioni di peso, spessore, elasticità, goffratura e colore differenti in base alle diverse applicazioni.

La startup islandese Atlantic Leather propone invece di utilizzare un altro scarto alimentare: la pelle del pesce. Per colorare le pelli sfrutta l’acqua calda delle fonti geotermiche, mentre l’energia proviene da una centrale idroelettrica. Le pelli di diverse specie presentano diverse caratteristiche: quella del salmone, ad esempio, è resistente e prende bene il colore; quella del persico è spessa e ruvida, mentre quella del merluzzo è sottile e flessibile.

L’altra alternativa vegana ai prodotti in pelle si chiama Piñatex, brevettato dalla società Ananas Anam: un nuovo materiale ricavato dalle foglie della pianta di ananas, sottoprodotti del raccolto. Simile a una tela, e quindi molto versatile perché può essere tinto e stampato, questo innovativo materiale è anche sostenibile dal punto di vista della produzione dal momento che per realizzarlo sono usati prodotti di scarto e non c’è ulteriore consumo di risorse. Le fibre vengono estratte dalle foglie attraverso un processo di decorticazione. Lo scarto di questo processo è biomassa, che può essere ulteriormente convertita in fertilizzante organico o biogas. Un materiale, dunque, utile anche a generare reddito supplementare per le comunità agricole dei paesi produttori di ananas.

Bioassorbimento e biodegradazione per ridurre l’inquinamento da acque reflue

Per quanto riguarda invece le tecnologie di riduzione dell’inquinamento attualmente prodotto durante le fasi di lavorazione industriale (acque reflue), possono essere messe in campo dalle aziende tessili diverse soluzioni: è il caso, ad esempio, del bioassorbimento e della biodegradazione tramite ingegneria genetica.

Il bioassorbimento è una metodologia nella quale si utilizza una biomassa organica per assorbire gli inquinanti, solitamente da una matrice liquida. Le tipologie di biomasse organiche usate sono molteplici: il chitosano (derivato dalla chitina, solitamente dei crostacei), alghe, batteri, alcuni dei quali utilizzabili anche vivi perché incrementano l’assorbimento dell’inquinante, o tramite l’uso di loro molecole in grado di assorbire gli inquinanti dal mezzo nel quale si trovano. Un metodo di bioassorbimento è ad esempio la fitodepurazione, ovvero l’utilizzo di piante per assorbire inquinanti, come metalli pesanti, solitamente dai suoli. Il principale limite della fitodepurazione, e quindi del bioassorbimento in generale, è che sposta l’inquinante dal suolo/acqua alla biomassa (alghe o batteri che siano) che resterà contaminata e andrà gestita in maniera opportuna.

La vera sfida quindi è la biodegradazione, ovvero distruggere l’inquinante tramite il metabolismo (reazioni chimiche di un organismo in vita) e trasformarlo in qualcosa che non possa nuocere. Ad esempio, essendo le tinte azotate uno dei principali inquinanti dell’industria tessile, sono stati condotti molti studi per capire come degradare efficacemente queste sostanze. In una ricerca condotta dall’Istituto di Tecnologia Chimica e Biologica di Lisbona, tramite l’ingegneria genetica è stato possibile isolare e produrre in grandi quantità una proteina che, come una “forbice molecolare”, è in grado di rompere in due le molecole delle tinte azotate a livello del legame azoto-azoto. Sfortunatamente queste due sotto molecole prodotte sono ancora più tossiche della tinta iniziale. Grazie all’utilizzo di una seconda proteina, però, queste due sotto-molecole si possono trasformare in molecole base per la sintesi di composti nell’industria agroalimentare e chimica, permettendo di ricavare da ciò che era un inquinante un valore aggiunto, oltre che a pulire e purificare l’acqua. Questo studio ha permesso di conoscere la potenzialità del biorisanamento delle acque industriali e la loro valorizzazione. Ulteriori studi dovranno essere fatti per rendere questa tecnologia fattibile e vantaggiosa su scala industriale.

Invece la biodegradazione microbica delle microplastiche, provenienti ad esempio dal lavaggio dei tessuti, non è altro che una digestione enzimatica che causa la scissione dei legami all’interno della struttura polimerica, quindi, produce un’alterazione delle caratteristiche del materiale plastico. Oltre ai batteri, anche i funghi sono in grado di aderire alle microplastiche e degradarle. I funghi, infatti, possono promuovere la formazione di diversi legami chimici all’interno della loro struttura, dando origine a diversi gruppi funzionali (carbonilico, carbossilico ed estereo) che diminuiscono l’idrofobicità e, facilitano la trasformazione delle materie plastiche nell’ambiente. In seguito, le particelle degradate, vengono diffuse nell’ambiente per essere riutilizzate nuovamente da altri microrganismi.

Recenti studi hanno dimostrato che l’introduzione del materiale plastico nell’ambiente ha addirittura portato alla formazione di una nuova nicchia ecologica microbica che dalle plastiche ricava una fonte di carbonio e un supporto per la crescita. Questo processo attualmente non è applicabile su tutti i tipi di plastica, poiché ogni tipologia di materiale possiede differenti peculiarità chimico-fisiche. Da anni i ricercatori studiano come vari tipi di organismi potrebbero essere in grado di “smaltire” i nostri rifiuti ma bisogna sempre tenere a mente che la soluzione più importante è affrontare il problema all’origine, cioè smettere di produrre in quantità estremamente superiori al necessario e rendere i

Bibliografia

Tessuti ecosostenibili, di cosa stiamo parlando realmente? (greenplanetnews.it)

Tessuti sostenibili: sono loro il futuro della moda – Snap Italy

Tessuti ecologici: innovativi filati green per l’abbigliamento (architetturaecosostenibile.it)

Inquinamento dell’industria tessile e possibili soluzioni green al suo impatto ambientale (geopop.it)

Industria tessile e inquinamento ambientale – Associazione Vesti la natura

Impatto dell’Industria Tessile sull’Ambiente | greenofchange

L’impatto della produzione e dei rifiuti tessili sull’ambiente (infografica) | Attualità | Parlamento europeo (europa.eu)

Industria tessile e inquinamento: ecco come indumenti, calzature e biancheria impattano sull’ambiente (mediaset.it)

Inquinamento: Il Lato Oscuro Dell’Industria tessile (sacchettiditessuto.it)

Wasteful Azo Dyes as a Source of Biologically Active Building Blocks – PubMed (nih.gov)

Microplastiche, l’inquinamento parte dalle lavatrici di casa – Altreconomia

Biodegradazione Microbica delle Microplastiche – parte prima (microbiologiaitalia.it)

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Processi Biologici Degli Inquinanti (isprambiente.gov.it)

Le nuove frontiere dell’industria tessile ecosostenibili: dal ‘bambù’ alle ‘bucce di arancia’ – LtEconomy

Alla scoperta della nuova Strategia Europea per il Tessile Sostenibile (solomodasostenibile.it)

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