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Quanto inquina il digitale? La (complessa) realtà oltre il mito



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Il digitale ha un impatto ambientale misurabile: dalla produzione allo smaltimento. L’analisi comparativa dimostra che, nonostante i consumi, rappresenta frequentemente un’alternativa più sostenibile rispetto ai processi tradizionali equivalenti

Pubblicato il 29 apr 2025

Stefano Epifani

Presidente della Fondazione per la Sostenibilità Digitale Autore del libro “Sostenibilità Digitale: perché la tecnologia non può fare a meno della trasformazione digitale”



ingegneria e digitale (1) impronta ecologica del digitale e inquinamento

Parlare di digitale porta spesso con sé un paradosso: si tende a considerarlo leggero, intangibile, pulito. Un universo fatto di bit, nuvole virtuali, streaming e dispositivi “smart” che sembrano non lasciare traccia. Ma è davvero così? La risposta, ovviamente, è no.

Ogni processo digitale ha una base fisica, un consumo energetico, un ciclo di vita, un impatto.

Ma attenzione: nel valutare questi impatti, dobbiamo sempre chiederci quale sarebbe l’alternativa. Cosa succederebbe, cioè, se non ci fosse il digitale? Di questo abbiamo parlato nel quinto episodio di “Sostenibilità Digitale: il podcast”.

L’impronta ecologica del digitale: la materialità nascosta dietro il cloud

Nell’immaginario collettivo, “cloud” fa pensare a leggerezza. Eppure, quel cloud è fatto di server, cavi, sistemi di raffreddamento, infrastrutture distribuite in enormi data center. Non è una nuvola, è un’industria. Così come uno smartphone non è una bacchetta magica, ma un oggetto che contiene materiali rari e preziosi. La loro estrazione, lavorazione e smaltimento ha costi ambientali concreti.

Eppure, se confrontiamo uno smartphone con una serie di strumenti analogici che sostituisce — fotocamera, telefono, registratore, agenda, lettore musicale — ci rendiamo conto che il suo impatto va considerato rispetto all’alternativa. Il digitale consuma, certo. Ma siamo sicuri che l’alternativa sia meno impattante? Oppure il digitale, almeno in parte, “sconta” il fatto di essere misurabile in maniera relativamente semplice, mentre il resto richiede valutazioni più complesse?

Ogni bit ha un costo. Ma anche un risparmio

Un esempio concreto lo troviamo nella digitalizzazione della Pubblica Amministrazione italiana: il passaggio da moduli cartacei a piattaforme digitali come SPID e PagoPA ha ridotto notevolmente il consumo di carta e i trasporti fisici legati alle comunicazioni tra cittadini e PA. Questo ha comportato una riduzione significativa non solo dell’impatto ambientale, ma anche dei costi e dei tempi di gestione burocratica.

Ciò ovviamrnte non toglie che ogni email inviata generi consumo energetico. In media tra i 10 e i 20 grammi di CO₂. Su scala globale, con 350 miliardi di email al giorno, il bilancio è significativo. Ma pensiamo all’alternativa: stampare una lettera, imbustarla, affidarla a un corriere. Tra carta, inchiostro, trasporto e smaltimento, il peso ambientale sarebbe di almeno un ordine di grandezza maggiore.

Lo stesso vale per l’archiviazione digitale. I documenti conservati in un data center hanno un impatto, ma quale sarebbe quello richiesto da archivi cartacei fisici: edifici, climatizzazione, logistica, sicurezza. Il digitale sposta il peso, non lo elimina. In molti casi, lo riduce. Ma dobbiamo saperlo calcolare, e la risposta (come nel caso degli archivi digitali) può essere anche molto difficile da ottenere.

Impronta ecologica del digitale nel ciclo di vita completo

Per valutare correttamente l’impronta ecologica del digitale, è indispensabile un’analisi di ciclo di vita (Life Cycle Assessment, LCA) che consideri:

  • La fase di produzione: i dispositivi digitali, dai server agli smartphone, contengono materiali critici come litio, cobalto, terre rare, oro e rame. La loro estrazione ha impatti ambientali devastanti, sia in termini di consumo di risorse che di alterazione degli ecosistemi.
  • L’uso operativo: data center, cloud, streaming, intelligenza artificiale. Ogni processo computazionale consuma energia, spesso in quantità elevate. Il raffreddamento dei server è particolarmente energivoro, e rappresenta una quota rilevante dei consumi globali del digitale.
  • Lo smaltimento: i rifiuti elettronici (e-waste) costituiscono una delle categorie di rifiuti in più rapida crescita al mondo. Solo una minima parte viene correttamente riciclata; il resto alimenta flussi informali di esportazione verso Paesi con normative ambientali inadeguate.

Il dilemma della sostenibilità

Non esistono tecnologie intrinsecamente sostenibili o insostenibili. Esistono tecnologie più o meno energivore. Esistono tecnologie usate bene o male, con maggiore o minore consapevolezza. Ma ogni valutazione di impatto va fatta in relazione all’alternativa disponibile. L’intelligenza artificiale, ad esempio, consuma energia per l’addestramento dei modelli.

Ma può ottimizzare i consumi energetici degli edifici, riducendone l’impatto complessivo. Addestrare un algoritmo può costare centinaia di tonnellate di CO2. Ma se poi quell’algoritmo consente di tagliare del 10-15% le emissioni di un sistema di riscaldamento o raffreddamento centralizzati (che sono la principale fonte di emissione di CO2 in ambito urbano) il bilancio finale è positivo. Ancora una volta: non è il dato assoluto che conta, ma il confronto tra scenari.

Gestione dei rifiuti e impronta ecologica del digitale

Tuttavia: alcuni elementi sono critici. Ogni anno, produciamo oltre 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici. Dato allarmante, reso ancor più critico dal fatto che solo una minima parte viene trattata in modo adeguato. Tuttavia, non è il digitale in sé a rappresentare il problema, quanto il modo in cui lo utilizziamo, lo progettiamo e lo smaltiamo. È la mancanza di una filiera del riuso efficiente, di regolazioni che disincentivino l’obsolescenza programmata, e di una cultura diffusa del riciclo a rendere questo fenomeno insostenibile.

Il digitale, pur concentrando le criticità, offre anche una maggiore possibilità di tracciabilità e gestione sistemica del problema. E soprattutto, il confronto resta necessario: in assenza di tecnologie digitali, avremmo probabilmente più dispositivi, meno integrati, con una dispersione dell’impatto ambientale ancora più ampia e difficile da contenere. Il digitale può pesare, ma spesso pesa meno dell’alternativa. Tuttavia la sua gestione ottimale – senza la quale il suo impatto rischia di essere devastante – è totalmente nelle nostre mani.

Il valore della sostituzione efficiente

Serve un cambio di prospettiva. Non possiamo parlare di sostenibilità ambientale del digitale senza chiederci: qual è il costo dell’alternativa? Ogni email ha un costo, ma molto inferiore a una raccomandata. Ogni videochiamata consuma, ma meno di un viaggio per una riunione di un’ora. Ogni server inquina, ma molto meno di un archivio fisico distribuito in decine di sedi aziendali.

È su questo terreno che il digitale mostra il suo potenziale: nel sostituire processi esistenti con alternative più efficienti e meno impattanti, anche se non prive di criticità. Pensiamo, ad esempio, alla gestione documentale nella pubblica amministrazione: dove prima si stampavano migliaia di copie cartacee per ogni procedimento, oggi è possibile centralizzare e razionalizzare la documentazione tramite piattaforme digitali interoperabili. Questo riduce drasticamente la duplicazione dei dati, lo spreco di carta e i tempi di trattamento, con un vantaggio netto in termini ambientali, organizzativi e di servizio. Certo: se poi la prassi fa sì che non si rinunci al cartaceo, il costo della duplicazione dei canali diventa non solo insostenibile, ma folle.

La responsabilità collettiva per ridurre l’impronta ecologica del digitale

Il digitale va giudicato nel suo contesto. Serve un’analisi sistemica, che tenga conto dei benefici, dei costi evitati, dei consumi sostituiti. Non si tratta di scegliere tra tecnologia e ambiente, ma di usare la prima per tutelare il secondo.

In quest’ottica, dobbiamo essere consapevoli di avere due obiettivi principali: da un lato, minimizzare gli impatti negativi del digitale, che sono certi e misurabili; dall’altro, massimizzare quelli positivi, che invece dipendono strettamente da come costruiamo, regoliamo e usiamo queste tecnologie. È una responsabilità collettiva, che coinvolge utenti, sviluppatori, imprese e istituzioni. Anche la Pubblica Amministrazione può e deve contribuire in modo determinante: basti pensare ai progetti di dematerializzazione dei procedimenti amministrativi promossi da molte Regioni e Ministeri, o alle iniziative di monitoraggio energetico degli edifici pubblici attraverso l’uso dell’Internet of Things per ridurre sprechi e migliorare la gestione delle risorse.

E, in particolare, è una responsabilità che coinvolge le grandi piattaforme digitali che spesso si autodefiniscono sostenibili, ma che adottano modelli di business in aperto contrasto con i principi della sostenibilità. Piattaforme che incentivano l’accumulo di contenuti e dati, spingendo verso un aumento indiscriminato della capacità di calcolo e degli spazi di archiviazione, spesso per finalità marginali. Piattaforme che non implementano strumenti per il controllo dell’impatto perché – paradossalmente – il loro modello di business è strettamente legato all’aumento di tale impatto.

Piattaforme che, per misurare la loro attenzione “reale” alla sostenibilità, quando chiamate a rendere conto del proprio impatto sociale, tanto per non parlare solo di ambiente, rinunciano in meno di quindici giorni a politiche di Diversità, Equità e Inclusione per compiacere i nuovi equilibri politici. In questo contesto, la sostenibilità non può essere uno slogan, ma deve diventare un principio operativo vincolante.

Il digitale ha trasformato il nostro mondo. Ora dobbiamo imparare a trasformare il digitale. Ma per farlo, serve conoscenza, consapevolezza e capacità di comparazione.

Per un’analisi più approfondita di questi temi, l’episodio del podcast Sostenibilità Digitale dedicato all’impronta ecologica della tecnologia esplora scenari, numeri e implicazioni di questa complessa relazione tra tecnologia e sostenibilità.

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