La definizione “for benefit” sta cominciando ad essere di uso comune e denota un’impresa che si impegna dal punto di vista giuridico attraverso l’adozione dello status di società benefit o entrando a far parte del movimento delle B Corp.
In Italia le società benefit sono già più di 3000 e le B Corp più di 240, e rappresentano 11 miliardi di euro di fatturato e 16.800 lavoratori. Un movimento importante ma che non esaurisce il panorama delle possibilità che le imprese hanno di generare un impatto positivo sulle persone, la società e l’ambiente.
Da qui la necessità di definire un termine più ampio. “For good” nasce infatti dall’ispirazione e dal lavoro fattivo con il professor Claudio Baccarani che, già nel 1991, ha definito il concetto di “impresa armonica”, che è un altro modo di caratterizzare l’idea d’impresa di cui si parla.
Ecco cos’è la responsabilità integrale d’impresa, ma facciamo una premessa per ripercorrerne la storia e capire l’impatto del cambio di paradigma.
Responsabilità integrale d’impresa: la storia
Nel 2000 le Nazioni Unite, attraverso la pubblicazione del Global Compact, lanciarono una “chiamata” con lo scopo di chiarire alle imprese, di ogni latitudine e settore, come applicare i principi della sostenibilità e della responsabilità sociale ed ambientale.
I dieci principi si esprimono in termini positivi. Al contrario si possono evidenziare
altrettanti comportamenti che nella nostra era si sono diffusi e che si riscontrano nel mondo del business.
In tema d’ambiente, per esempio, ci sono ancora imprese che non adottano il principio della precauzione rispetto alle sfide ambientali, che non portano avanti iniziative per promuovere la responsabilità ambientale e che sviluppano e diffondono tecnologie
dannose per l’ambiente.
Il modello capitalistico tradizionale ha contribuito all’accesso a livelli di benessere crescenti per molte persone. Ma a pagare il prezzo di questo benessere sono state altre persone, l’ambiente e le generazioni future.
Dell’esigenza di un cambiamento di cui le aziende si possono far carico, se n’è accorta – almeno sulla carta – anche la Business Round Table, di cui fanno parte proprio i CEO delle aziende che rappresentano lo zoccolo duro del modello tradizionale di capitalismo nordamericano. Lo stesso Larry Fink, numero uno di Blackrock, ha abituato i suoi CEO a ricevere lettere con messaggi chiari “un’impresa non può ottenere
profitti nel lungo periodo senza abbracciare uno scopo e considerare i bisogni di un ampio gruppo di stakeholder”.
Aziende come agenti di cambiamento
Le aziende possono, e devono, essere agenti di cambiamento ed evolvere il modo in cui affrontano il loro ruolo nella società. Non basta più la “compliance”, che comunque non è scontata ovvero il rispetto delle leggi, da quelle fiscali a quelle sui diritti dei lavoratori, da quelle sulla sicurezza sul lavoro a quelle sulla salvaguardia dell’ambiente. Bisogna osare di più e chiedersi se la propria supply chain, e quindi i propri fornitori, rispettano le stesse leggi, ovunque siano localizzati nel mondo, magari in Paesi dove le norme sono meno prescrittive o più facilmente eludibili. Questa attenzione alla compliance non deve peraltro essere vista come un onere, anzi va affrontata in modo proattivo facendola diventare un’opportunità, perché anticipare l’evoluzione delle normative permette di innovare esattamente così come accade quando si anticipano le tendenze nella società.
Se si affronta preventivamente e proattivamente il problema, si acquisisce un vantaggio nei confronti dei concorrenti meno tempestivi.
Seppur lodevole, non basta nemmeno la filantropia. Infatti, nonostante permetta di risolvere problemi specifici o di valorizzare delle opportunità sociali, ha il limite di non aver nessun impatto su come l’impresa agisce nella sua quotidianità e quindi su come la sua attività “core” impatta sulla società e sull’ambiente.
Si potrebbe pensare che la soluzione sia la Corporate Social Responsibility che, pur ampliando il raggio della responsabilità delle imprese ad aspetti sociali, si è espressa nella sostanza in episodi, che seppur positivi non hanno cambiato l’agire delle imprese, mentre spesso è stata asservita al marketing. La risposta a come fare in modo che le aziende siano agenti reali di cambiamento sta quindi nel passare a stadi successivi di evoluzione nella creazione di impatto ambientale e sociale: la strategia e il cambiamento di paradigma.
Un nuovo approccio: business for good
L’approccio strategico è quello che sta prendendo piede con maggiore frequenza nel
comportamento delle imprese oggi. Una moltitudine di imprese si sta muovendo per rendere più etiche e sostenibili le proprie pratiche e la propria offerta di prodotti o servizi, come dimostra la rincorsa frenetica ad occupare i segmenti di mercato “green”. Basti pensare all’evoluzione del mercato dei prodotti biologici, dove nel nostro Paese a fronte di una certa stabilità dei consumi domestici nel 2022 è invece letteralmente esplosa la componente extra domestica (+53% rispetto al 2021). Ma anche questa non è la situazione ottimale, perché quando questo modo di agire è basato su una strategia, gli obiettivi permangono quelli tradizionali: il profitto, la crescita, le quote di mercato. Ciò porta a fare quanto basta e quanto conviene, più che ciò che è realmente necessario per minimizzare il proprio impatto negativo e massimizzare quello positivo.
Serve infatti un nuovo paradigma, che per forza di cose si scontra con quella che è stata considerata a lungo e continua a essere la normalità e cioè il fatto che le imprese esistano esclusivamente per creare profitti per i loro azionisti. Una pesante eredità culturale da superare, mettendo l’etica al centro del modo di agire dell’impresa. E lo pervade.
La responsabilità integrale d’impresa
La comprensione del nuovo paradigma, che definisco del business for good, richiede uno sforzo notevole. L’impatto sociale ed ambientale deve infatti diventare parte della ragione d’essere dell’impresa e non essere un effetto collaterale od accessorio della sua attività. Questo comporta assumere un concetto di responsabilità ancora più
ampio, definita come responsabilità integrale d’impresa, quella che abbraccia tutte le fasi della catena del valore e non solo l’attività diretta dell’impresa. Essa prevede di conciliare in modo virtuoso tutte le forma d’impatto e quindi non solo l’impatto economico ma anche quello umano, quello sociale e quello ambientale. Infine, coinvolge tutti gli stakeholder. Fra le altre cose, questo ampio concetto di responsabilità richiede il cambiare i sistemi di misurazione e controllo delle performance. Servono infatti nuovi KPI, che però sono meno intuitivi e quindi più difficili da dominare.
Tutti sappiamo quanto valgono mille euro, più difficile è materializzare il significato di una tonnellata di CO2 o il valore del benessere generato nelle persone con le quali l’impresa interagisce. Ne consegue la necessità di cambiare radicalmente il modo in cui si formano le persone che guideranno le imprese. Ciò richiede una svolta profonda nei nostri sistemi educativi, a partire da quelli della scuola dell’obbligo sino a quelli delle business school.
Primo passo: gli stakeholder
Il primo passo verso questa nuova evoluzione di pensiero è aver chiaro chi sono i propri stakeholder: dalle persone che lavorano per l’impresa ai suoi fornitori e a chi lavora per loro, dagli azionisti e finanziatori ai partner commerciali e ai clienti, dalla comunità all’ambiente ed alle istituzioni. Perché la “terza via”, rispetto ai due sistemi che si sono contrapposti a partire dal secolo scorso, cioè il capitalismo e il comunismo, sarà una forma nuova e diversa di capitalismo, quella definita come il “Capitalismo degli Stakeholder”, tema a cui ha dedicato un libro Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum di Davos.
Il concetto risale già agli anni ’50 e ’60, ma ha evidentemente avuto meno successo dell’idea che “the business of business is business”. Consiste nell’affermare che lo scopo di un’impresa non sia solo quello di garantire i profitti agli azionisti ma di creare
nel contempo valore per i suoi stakeholder, cioè tutti coloro che detengono un interesse nei confronti dell’impresa.
Conoscere e ingaggiare gli stakeholder quindi diventa urgente per chi guidi un’impresa oggi, sia per sentirsi coerente se persegue fini nobili, come l’impegno “for benefit”, sia perché permette di comprendere come agire con essi nei confronti dei macro-temi ambientali (la neutralità carbonica, l’inquinamento, la biodiversità e la circolarità) e umani o sociali (JEDI – Justice, EquaIity, Diversity, Inclusion, il benessere e la realizzazione delle persone che lavorano nell’impresa e la relazione con la comunità e il territorio) e adottare così l’approccio for good.
Conclusioni
Immaginando per ciascuno degli incroci fra macro temi e stakeholder quali iniziative si
possono intraprendere per affermare il principio della Responsabilità Integrale, permette di stimolare la creatività e identificare ciò che serve per realizzare un piano di azione coerente a questo nuovo paradigma.
È questo un approccio potente, coerente, competitivo e conveniente per tutti.
Siccome siamo tutti stakeholder di qualcuno, infatti l’approccio “for good” conviene sia all’imprenditore che lo realizza, che in questo modo assolve alla sua funzione sociale e permette alla sua impresa di affrontare il futuro con successo, ma anche a chi:
- quando è cliente vuole avere la certezza di acquistare prodotti sicuri, rispettosi dell’ambiente e provenienti da filiere composte da imprese responsabili;
- qualora da fornitore voglia essere trattato con equità;
- quando è cittadino vuole che le imprese dei luoghi in cui vive se ne prendano cura;
- da amico vuole che i propri amici si realizzino nel loro lavoro;
- quando è genitore vuole che i propri figli abbiano almeno le stesse possibilità di soddisfare i propri bisogni materiali e immateriali.
In definitiva, conviene a chi crede in un’umanità onesta, giusta e solidale. Una bella idea in cui credere.