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Salario minimo, invidiare la Spagna

Il governo, nei giorni scorsi ha annunciato  l’aumento dell’8% (pari a 80 euro) per il 2023 del salario minimo interprofessionale (Smi), portandolo a 1.080 euro mensili per 14 mensilità, con decorrenza dallo scorso mese di gennaio. In Italia siamo invece bloccati. E nell’era dell’AI non possiamo più permettercelo

Pubblicato il 06 Feb 2023

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

spagna salario minimo italia

C’è un’Europa diversa, che invece di seguire le destre, il populismo neoliberale e le loro pessime ricette economiche e (anti)sociali, guarda a sinistra.

E vince con i risultati ottenuti. Ma questo successo, che deriva da un rovesciamento delle politiche dettate/imposte dall’ideologia neoliberale degli ultimi quarant’anni, lo vedono in pochi; pochi – anche a sinistra – si peritano di guardare a questo modello alternativo – di un socialismo riformista – preferendo, come in Italia continuare a guardare soprattutto ai mercati e all’impresa (un pessimo sistema imprenditoriale, in realtà, poco capace di fare innovazione e ricerca e di investire sulle persone, preferendo competere riducendo il costo del lavoro – precarizzandolo sempre più), e sempre meno ai lavoratori e alla riconversione ecologica. 

Il caso dell’ingegnera genovese con una proposta di stipendio di 750 euro al mese

Il modello spagnolo

È la Spagna – questo modello invece alternativo e virtuoso, con il suo governo appunto di sinistra e presieduto dal socialista Pedro Sánchez, in coalizione con Unidas Podemos, di cui fa parte la ministra del lavoro e vicepremier, Yolanda Díaz. E il governo, nei giorni scorsi ha annunciato  l’aumento dell’8% (pari a 80 euro) per il 2023 del salario minimo interprofessionale (Smi), portandolo a 1.080 euro mensili per 14 mensilità, con decorrenza dallo scorso mese di gennaio. 

Sánchez ha colto l’occasione per criticare le grandi imprese che godono di profitti crescenti, anche in Spagna, ma che non aumentano il salario dei loro dipendenti – le imprese cogliendo anzi la scusa, offerta e sostenuta da tutti i banchieri centrali, che altrimenti si attiverebbe una spirale inflazione-salari pericolosissima, anche i banchieri centrali dimenticando però che l’inflazione che stiamo vivendo da mesi è l’effetto soprattutto degli extra-profitti delle imprese, non solo energetiche.

Doppiamente soddisfatta la ministra Yolanda Díaz che su Twitter ha commentato: “Grazie all’accordo con i sindacati rendiamo effettivo uno dei grandi obiettivi della legislatura”. E anche le pensioni aumenteranno, ma dell’8,5%. Soddisfazione è stata ovviamente espressa da parte dei sindacati spagnoli per i quali l’accordo andrà a vantaggio soprattutto dei 2,5 milioni di lavoratori, la gran parte donne e giovani di età compresa tra i 16 e i 34 anni, costretti in contratti a tempo determinato, favorendo inoltre la riduzione delle differenze salariali tra uomini e donne. Opposizione ha espresso invece la Confindustria spagnola, che non si è neppure seduta al tavolo negoziale con governo e sindacati.

E oggi è la Spagna, secondo il Fmi, a guidare la ripresa della zona Euro. Dunque, il sistema spagnolo dovrebbe essere preso davvero a modello. E invece in Europa vincono le destre neoliberiste e aziendaliste, anche con il voto di milioni di lavoratori che credono alla ricetta populista senza vedere che il populismo è la prosecuzione del neoliberismo con altri mezzi, sempre premiando la peggiore imprenditoria. Davvero la coscienza di classe sembra scomparsa, eppure mai come oggi il proletariato e il sottoproletariato sono stati così ampi, numerosi e diffusi. Un paradosso della storia e dell’antropologia (non solo italiana), accaduto in realtà anche giusto cento anni fa.

Salario minimo in Europa

E se è vero che in Europa, anche altri paesi hanno già annunciato aumenti significativi del salario minimo – e nell’UE,  21 paesi hanno introdotto il salario minimo garantito per legge mentre gli altri sei (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia) determinano i livelli salariali sulla base della contrattazione collettiva delle retribuzioni, così escludendo però ampie categorie di lavoratori – la Spagna è controcorrente in realtà proprio nel modo in cui ha gestito e riformato il proprio mercato del lavoro. Grazie a un governo di sinistra, con idee di sinistra; e capace – quindi e soprattutto – di uscire dalle paranoie neoliberiste che hanno contaminato/inquinato anche le sinistre europee negli ultimi quarant’anni, oltre ovviamente ai governi centristi o di centro-destra e delle tecnocrazie, iniziando da Margaret Thatcher, neoliberisti per i quali queste paranoie sono parte della propria ideologia.

La riforma spagnola del mercato del lavoro

Una riforma del mercato del lavoro che in Spagna ha rotto con l’offerta alle imprese della massima flessibilità del mercato lavoro e ha introdotto doverosi elementi di rigidità, cioè di libertà, partendo dal principio: prima i diritti delle persone e del lavoro, prima la coesione sociale, poi le esigenze di profitto privato delle imprese. Perché è surreale che siano le persone e le società a doversi adattare alle esigenze delle imprese, come appunto sostiene il neoliberalismo, e non viceversa: perché è l’economia che deve essere posta al servizio della società e non il contrario – e le imprese devono finalizzare sempre la loro azione all’utilità sociale e alla sostenibilità ambientale, come prescrive l’articolo 41 della Costituzione italiana. Il neoliberalismo dominante da quarant’anni ha invece rovesciato la Costituzione, ha rovesciato la logica economica, ha rovesciato a democrazia, ha rovesciato soprattutto il buon senso, cioè il senso della moralità e della solidarietà (si pensi alle politiche di austerità e al trattamento osceno riservato dall’Europa ordoliberale alla Grecia, impoverendo una intera nazione per salvare le banche creditrici).

Dal punto di vista politico e culturale, la riforma spagnola del mercato del lavoro è stata dunque un’autentica rivoluzione, anche se appunto è solo riformismo, ma anche il riformismo sociale è una parola, un concetto che sembra ormai superato e dimenticato. Perché la riforma spagnola – a forte impronta di Unidas Podemos –  e approvata nei primi mesi del 2022, prevede appunto il contrasto a tutte le forme di flessibilizzazione/precarizzazione del lavoro (e della vita) delle persone come invece richieste dalle imprese, rilancia il contratto di lavoro a tempo indeterminato come forma normale del rapporto di lavoro e conferma in pari tempo il ruolo della contrattazione collettiva, andando anche qui in controtendenza con le esigenze delle imprese che sempre più, anche in Italia, vorrebbero ridurre i contratti collettivi a favore di quelli soprattutto aziendali.

Ovvero, la norma e la normalità nella gestione dei contratti di lavoro deve essere non il contratto di lavoro a tempo determinato e simili, come in Italia, ma quello appunto a tempo indeterminato; e quelli a tempo determinato possono durare solo sei mesi e il loro utilizzo dev’essere giustificato, la legge al tempo stesso stabilendo l’obbligo di assumere a tempo indeterminato qualsiasi lavoratore che abbia accumulato 18 mesi di contratto con la stessa impresa negli ultimi due anni (anche svolgendo mansioni diverse).

Ma la riforma cerca di raggiungere anche altri due obiettivi, anch’essi essenziali e anch’essi in controtendenza rispetto all’ideologia neoliberale: 1) la limitazione delle forme di esternalizzazione del lavoro ottenuta mediante appalti e contratti interinali;  2) un adeguamento dei salari dei lavoratori comunque esternalizzati con quelli dei lavoratori interni alle imprese.

Risultato: i contratti di lavoro a tempo indeterminato sottoscritti tra gennaio e novembre 2022 sono stati oltre 6,5 milioni, contro i circa 1,9 milioni sottoscritti nello stesso periodo dell’anno precedente: in percentuale, un aumento del 238,4%.

Lavoro in Italia 

Rigidità irrazionali e anti-produttività? Ritorno a un passato che sembrava dimenticato? Nuovi lacci a lacciuoli – come diceva Guido Carli agli inizi della controrivoluzione neoliberale – posti  e imposti al sistema delle imprese e che frenerebbero la loro crescita e oggi i processi di innovazione tecnologica – quindi da sciogliere? Semmai il contrario, come dimostra la Spagna: un doveroso ritorno a pensare al lavoro come diritto (delle persone) e non come merce. Una doverosa lotta allo sfruttamento del lavoro praticato da troppe imprese – e stiamo pensando ora all’Italia, ma non solo – in nome di un ancor più doveroso principio di dignità del lavoro e della vita.

Già, perché la Costituzione italiana – riconfermata a larghissima maggioranza nel referendum del 2016 (quindi ha solo sette anni, è ancora una bambina – e cercare di stravolgerla oggi in nome del populismo dell’autonomia differenziata cioè della secessione dei ricchi dal resto della società, sarebbe un ennesimo tentativo di infanticidio) aspetta ancora di potere crescere e di farsi non solo, come è, legge fondamentale dello Stato ma anche norma di indirizzo se non norma  prescrittiva per tutte le politiche da adottare.

I Paesi europei più colpiti da automazione al 2030 (fonte: Distrelec, febbraio 2023) 

RankCountryLavori a rischio automazione
1Germany3,446,732
2France2,285,980
3Italy2,080,696
4Spain1,764,311
5Poland1,571,533
6Romania832,156
7Netherlands732,241
8Czechia501,132
9Portugal433,124
10Hungary417,239

La Costituzione italiana

E questa Costituzione ci ricorda che l’Italia è una Repubblica democratica (art. 1) fondata sul lavoro, cioè il lavoro è inteso come un diritto, come qualcosa che permette di essere cittadini, che è cosa diversa da dover essere solo produttori o consumatori come invece ci vorrebbe il sistema tecnico ed economico. Una Repubblica che quindi richiede (art. 2) l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale: ovvero non siamo uno Stato basato sulla concorrenza e la competizione, come vorrebbero neoliberisti e imprese, ma i doveri di solidarietà sono inderogabili e costituiscono la base della cittadinanza. Per questo (art. 3), è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Dal che si deduce che devono/dovrebbero essere rimossi – ovvero che ogni governo deve/dovrebbe rimuovere, e non crearli, ad esempio accrescendo la precarietà del lavoro – in Italia dal Pacchetto Treu al JobsAct – o riducendo i redditi), gli ostacoli di ordine economico e sociale, ostacoli che in sé limitano la libertà e l’uguaglianza e impediscono il pieno sviluppo della persona umana. E ancora, ma per citarne solo alcuni, l’ art. 35: la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni; e ogni lavoratore (art. 36) ha quindi diritto (un diritto, ancora) ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa; e la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. E i lavoratori (art.38) hanno diritto a che siano assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Senza dimenticare il già citato articolo 41.

Vista dalla Costituzione italiana, la Spagna sembra vicinissima. E invece è lontanissima. E con il governo in carica le cose stanno peggiorando ulteriormente. Un’Italia dove quasi il 70% delle imprese sono risultate irregolari nel 2021 ai controlli di Inl, Inps e Inail. E dove il sistema economico produce quasi tre morti sul lavoro ogni giorno.

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