Procede il cammino di evoluzione della proposta di legge per la sharing economy, di cui si è conclusa la fase di consultazione pubblica online e che si incrocia con la recente pubblicazione delle linee guida della Commissione Europea (“un’agenda europea per l’economia collaborativa”).
Un percorso che ha consentito di consolidare alcuni punti della proposta e di aprire approfondimenti sugli aspetti più controversi, e che sarà la base per la discussione alla commissione della Camera in cui è stata incardinata la legge. Ma andiamo per ordine.
Le linee guida della Commissione UE
Le linee guida si muovono prudentemente con l’obiettivo dichiarato di spingere i paesi membri a definire delle regole che eliminino le ambiguità o i vuoti normativi rispetto alle nuove situazioni che si sono create grazie allo sviluppo dell’economia collaborativa (il termine “sharing economy” è considerato sinonimo, ma la UE preferisce enfatizzare l’aspetto della collaborazione). L’atteggiamento è prudente, anche per la forma del documento (contiene indicazioni, suggerimenti, ma non direttive) e su alcuni aspetti si muove per evidenziare i rischi dei possibili divieti (es. quello relativo all’affitto temporaneo di appartamenti) invece che esplicitare dei percorsi da seguire. Qui, però, piuttosto che entrare nell’analisi delle linee guida, ci focalizziamo sugli aspetti di correlazione con la proposta di legge, per rilevarne brevemente allineamenti e differenze. In particolare possiamo sottolineare alcuni aspetti:
- la definizione di economia collaborativa, e l’individuazione delle tre tipologie di attori (service providers/utenti operatori, users/utenti fruitori, intermediaries/gestori), sono coerenti con quanto incluso nella proposta di legge;
- la definizione della Commissione UE per l’economia collaborativa fa riferimento non tanto “all’allocazione ottimizzata e condivisa delle risorse risorse di spazio, tempo, beni e servizi tramite piattaforme digitali” quanto ai “modelli di business dove le attività sono facilitate da piattaforme collaborative che creano un mercato aperto per l’utilizzo temporaneo di beni e servizi, spesso forniti da individui privati”. Una formulazione forse più modulata, ma che si indirizza esplicitamente alla presenza di attività economiche, remunerate, e quindi definisce i confini di applicabilità in modo differente rispetto all’approccio della proposta di legge italiana, non trattando ad esempio gli ambiti della collaborazione sociale e dell’economia del dono;
- per entrambi i documenti, la responsabilità dei gestori non si estende al controllo dell’illegalità delle azioni degli utenti, anche se è necessario far sì che siano poste in essere tutte le azioni utili per aumentare il livello di fiducia (la cui mancanza è tra l’altro il motivo principale per cui chi è a conoscenza delle piattaforme collaborative non le utilizza – 41% secondo i dati riportati dalla Commissione UE).
La proposta di legge e la consultazione pubblica
La conclusione della consultazione online (in cui sono intervenute 69 persone con più di 330 commenti) ha coinciso con un incontro di approfondimento dei punti più critici emersi in questi mesi, organizzato dall’Intergruppo parlamentare per l’Innovazione tecnologica con la collaborazione dell’associazione Stati Generali dell’Innovazione, e a cui hanno partecipato, insieme ai parlamentari Ivan Catalano e Veronica Tentori, diverse organizzazioni tra cui Airbnb, Altroconsumo, Cauto, Confcommercio, Federalberghi, Gnammo, “La Ruche qui dit Oui!” (l’Alveare-che-dice-sì), Palloncino Rosso, oltre che esponenti del mondo universitario.
Mi sembra che siano venute conferme e specificazioni importanti rispetto ai punti già emersi al giro di boa della consultazione online.
I punti evidenziati come condivisi, rimangono tali. In particolare:
- sono presenti posizioni di contrarietà alla presenza della legge in sé, ma sembra che da parte degli operatori di piattaforma, delle associazioni di categoria e dei consumatori la condivisione dell’approccio alla regolamentazione orizzontale prevalga;
- la scelta dei gestori come sostituti d’imposta in generale viene condivisa, ma si ha l’impressione che il tema debba essere confermato dopo una verifica sulla casistica di applicazione della legge;
- la soglia dei 10mila euro di reddito per il discrimine tra operatori non professionisti e professionisti (a cui si applica il 10% di tassazione) è coerente con i criteri suggeriti dalla Commissione UE, condivisa dagli operatori e anche dal recente studio Airbnb, dove il dato più frequente per gli utenti operatori non professionisti è di 2.300 euro.
Si confermano in gran parte anche i punti di criticità già evidenziati, con qualche specificazione ulteriore.
In particolare:
1. Necessità di maggior chiarezza sulla definizione di sharing economy e, di conseguenza, l’ambito di applicazione;
Sembra essere necessaria una verifica sui diversi modelli esistenti (ci sono anche casi specifici come quello dell’Alveare-che-dice-sì), sulla definizione del confine di applicazione, sul modo in cui si regolamenta la collaborazione sociale (es. economia del dono, dello scambio bene-tempo) e con che logica, oltre che la declinazione sul soggetto pubblico. In questo la definizione presente nelle recenti linee guida UE può essere un riferimento importante, ma forse non sufficiente rispetto al tema del sociale;
2. Necessità di maggiore chiarezza sulla definizione di reddito dell’utente operatore a cui si applica il 10% di imposta, in particolare per quelle attività il cui compenso per l’utente operatore è identificabile come rimborso spese.
Anche qui sono stati riaffermati diversi aspetti da approfondire, dalla presenza di una soglia minima oltre la quale si applica la regola soprattutto per alcuni tipi di scambio es.BlaBlaCar, alla documentazione necessaria per la determinazione del reddito (e quindi al netto delle spese) per evitare l’inondazione da burocrazia.
3. Istituzione del Registro dei gestori presso l’AGCM (Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato), considerato da alcuni complesso a livello burocratico per i gestori delle piattaforme; necessità di maggiore chiarezza anche sulla scelta dell’AGCM come autorità competente su questa materia;
Il ruolo dell’AGCM non è stato messo in discussione durante l’incontro, ma l’aspetto critico è il legame tra il registro e il poter aprire una piattaforma, soprattutto se si tratta di collaborazione sociale. È stata più volte riaffermata la necessità di spingere sulla logica dell’incentivazione piuttosto che dell’obbligo. Per questa ragione sarebbe probabilmente utile prevedere un periodo transitorio (es. 12 mesi) di sperimentazione in cui si persegue la logica incentivante, anche rispetto al vincolo sulla presenza di una politica aziendale che rispetti determinati requisiti, salvo poi valutare la via migliore.
4. Necessità di maggior chiarezza sul profilo dell’utente operatore, che non è operatore professionale, anche dal punto di vista previdenziale;
Bisogna tener conto della vasta casisticaper capire come intendere nei diversi contesti l’identificazione dell’utente operatore, e tener conto che sul confine di definizione si tiene il punto rispetto alle pratiche illecite;
5. L’obbligo della stabile organizzazione in Italia non è compatibile con norme comunitarie;
Punto che anche i parlamentari condividono sia da cambiare
6. Necessità di implementazione della parte relativa allo sviluppo della sharing economy e quindi di facilitazione e promozione anche per i gestori;
Questo punto emerge sullo sfondo, rispetto al pericolo che la legge abbia un impatto negativo sullo sviluppo della sharing economy. Probabilmente è da lavorare sulla logica incentivante, dando evidenza del vantaggio anche (soprattutto) per le nuove iniziative, per le start-up che propongono piattaforme collaborative digitali;
7. Necessità di sviluppo e implementazione delle previsioni relative alla PA
Questo punto è stato approfondito durante un convegno in ambito di ForumPA ed è riemerso durante l’incontro, come necessità di far emergere e valorizzare la parte sociale dell’economia collaborativa, in cui il settore pubblico ha un impatto rilevante.
Piccola riflessione: è sempre più evidente che la diffusione dell’economia collaborativa sui vari campi del vivere sociale, dalla mobilità al turismo, dallo scambio di oggetti alla cultura, dal coworking al crowdfunding, fino ai prestiti tra privati, non è un fenomeno confinato al mercato privato. È l’emergere di un modello nuovo che cambia radicalmente sia il ruolo del settore pubblico che quello del privato, mettendo al centro un protagonista assoluto: la comunità. Le PA sono così chiamate a un nuovo approccio non tanto e non solo per definire quelle regole chiare e quelle garanzie nell’utilizzo dei servizi, la cui mancanza è uno dei principali ostacoli a una maggiore diffusione dell’economia collaborativa, ma per riprogettare il proprio ruolo, come abilitatrici delle comunità. Se è così e si pensa di inserire questo aspetto nella legge (e quindi si va oltre l’ambito di applicazione delle linee guida della Commissione UE), allora la chiave è definire regole per consentire l’emersione del valore dello scambio che non avviene in denaro, come suggerito da più parti, oltre che correlarsi con la riforma della PA per quanto riguarda la condivisione di beni e servizi tra amministrazioni.
La ricchezza dei riscontri dalla consultazione consente di affrontare i passi successivi di raffinamento della proposta di legge sulla base di approfondimenti che altrimenti non sarebbero stati possibili.
Questo fa certamente ben sperare per i passi successivi di questa regolamentazione, ma credo anche indichi chiaramente la via che è bene far percorrere alle proposte di legge.
In attesa di una messa a sistema di queste modalità (uno degli obiettivi possibili del nuovo Forum OpenGov) questa esperienza ci dice che la via si può percorrere già adesso, se ci si crede come hanno fatto i parlamentari dell’Intergruppo parlamentare per l’Innovazione Tecnologica.