In questi giorni, un gruppo di parlamentari appartenenti all’Intergruppo “innovazione” ha presentato una proposta di legge che ha lo scopo di «disciplinare le piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi» e di «promuovere l’economia della condivisione». Tale proposta – che qualcuno ha già ribattezzato Sharing Economy Act e che rappresenta il primo caso di regolamentazione Europa del fenomeno – tuttavia presenta alcuni limiti che sono legati, anzitutto, ad una incapacità concettuale di capire cos’è davvero la sharing economy e quale differenza sussiste tra sistemi che si fondano sull’idea di condivisione di beni e servizi rispetto a forme di business vere e proprie, che fino ad adesso hanno agito senza alcun quadro normativo in grado di regolamentarle.
Collaborative economy
Tutti amiamo la sharing economy: sviluppatori software utilizzano piattaforme come SorceForge e Github che consentono di portare avanti progetti open-source in modo collaborativo, aspiranti creativi utilizzano una piattaforma di content creation crowdsourced come Zoopa per generare video, campagne virali, loghi, semplici utenti possono offrreogni tipo di servizio, dalla spesa a domicilio al montaggio di mobili Ikea, vendendo il proprio tempo su Taskrabbit. In Sicilia dove per fare cento chilometri coi trasporti pubblici ci si impiega più di quattro ore, BlaBlaCar è diventato oramai la migliore alternativa plausibile al viaggio su rotaie. Alcuni di noi amano un po’ meno sistemi come AirBnb o Uber, di cui ne colgono meno lo spirito volontaristico e la logica di scambio e condivisione.
Certamente c’è enorme differenza tra un progetto open source e un’esperienza di car sharing ma, tralasciando i diversi modelli di business che caratterizzano questi sistemi, possiamo dire che l’elemento che le dovrebbe accomunare è la centralità attribuita all’aspetto collaborativo, reinventato ed esteso attraverso le tecnologie digitali in modalità e tempistiche mai rese possibili prima. Non è un caso che oggi molti preferiscono sostituire il concetto di sharing economy con quello meno equivoco di collaborative economy, che permette di specificare più declinazioni empiriche del fenomeno in questione. Si collabora per fare un uso migliore e più efficiente di beni, competenze e altre risorse utili a disposizione, promuovendo filosofie di vita che possono portare benefici alla comunità: che sia la massimizzazione di potenziali che rischierebbero di essere dispersi, la ridistribuzione del denaro, la sostenibilità ecologica, il risparmio o le semplici dinamiche di socializzazione. L’indagine IPSOS del 2014, difatti, ha evidenziato come l’adesione all’economia collaborativa non ruoti esclusivamente attorno a motivazioni individuali – come i possibili benefici economici, ma anche al desiderio di contribuire ai bisogni della propria collettività di appartenenza, una forma di adesione a un sistema valoriale condiviso.
Molti esempi di tale logica provengono dall’ambito della produzione collaborativa. Pensiamo ai Fabrication Laboratories (FabLabs) laboratori aperti e attrezzati con macchinari e strumenti tecnologici (come le stampanti 3D), dove ogni utente è libero di auto-fabbricare qualunque cosa e metterla a disposizione delle proprie comunità di riferimento oppure al crescente fenomeno del coworking luoghi di aggregazione di più soggetti che condividono competenze, tempo e risorse a fini di lavoro e produttivi. Tutte queste realtà affondano le loro radici nelle pratiche peer-based emerse dalla tecnocultura della Silicon Valley, di cui ne condividono l’orientamento allo sviluppo di forme organizzative non gerarchiche e i cui cui vincoli di appartenenza e coinvolgimento dei partecipanti ruotano principalmente attorno all’”oggetto” di produzione e alle dinamiche di socialità in grado di attivare.
Ma la collaborazione attiene anche all’ambito del consumo, grazie allo sviluppo di piattaforme e realtà innovative che hanno applicato i principi peer-to-peer a sistemi tradizionali come il baratto, la donazione o lo scambio. Si pensi al fenomeno dello swapping, per cui si va per negozi non per comprare beni come capi di abbigliamento, opere d’arte, gioielli, accessori, articoli di antiquariato, ma per barattarli. Sistema do ut des: ad oggi ci sarebbero più 120 piattaforme che offrono servizi collaborativi, più 40 di crowdfunding e circa un centinaio di coworking. La portata di tali realtà è tale che spesso la sharing economy viene identificata quasi esclusivamente con il consumo collaborativo. Ed è paradossale, se consideriamo che i suoi principi ispiratori – l’elemento tecnologico e quello peer-to-peer – nascono da esperienze che riguardano maggiormente le logiche di produzione e apprendimento collaborativo.
Ma, al di là che attenga ai settori della produzione, dell’apprendimento o del consumo, certamente l’idea di collaborazione che sta alla base di tutti questi sistemi si fonda su un principio ben preciso, quello del trasferimento della proprietà. Tale trasferimento può essere inteso come una forma di scambio o condivisione: io ho una cosa – un’idea, una conoscenza appresa, un vestito usato, la carrozzina di mio figlio che sta in cantina a prendere muffa – decido di metterlo in comune o scambiarlo con un’altra persona o in cambio di un altro bene e servizio. È la reciprocità del dono e del baratto, oggi implementate grazie alle possibilità offerte dalla Rete: come sosteneva Marcel Mauss, il dono è volto principalmente a rafforzare legami e relazioni sociali, è un modo, dunque, per trovare un proprio posto nella società.
Rental economy
Esistono, tuttavia, altre forme di sharing economy che usano il concetto di “collaborazione” in termini diversi. Mentre, infatti, nei casi precedentemente illustrati le pratiche di collaborazione si fondano sullo scambio e condivisione, ci sono esempi dove la collaborazione è un modo per definire nuove forme di mercato che tendono a riprodurre relazioni non necessariamente dissimili da quelle dei mercati tradizionali. Non a caso, spesso i protagonisti di tali realtà sono aziende il cui obiettivo è determinare l’incontro tra un consumatore che possiede una risorsa e un consumatore che al contrario ha bisogno di quella risorsa, a fronte di un certo costo di transizione. In tal caso, le modalità di condivisione possono produrre anche profitti e valore finanziario. AirBnb o Uber sono alcuni tra i più famosi sistemi di renting a pagamento, in cui un utente offre e condivide per un tempo limitato ad altri utenti un posto letto o un posto macchina, dietro congruo compenso. Invece di comprare nuovi beni di consumo, si collabora per condividere cose che già si hanno e di cui in quel momento non si ha bisogno: da una stanza ad una casa, da una macchina ad una bicicletta, sino addirittura al proprio cane. Si pensi, a Borrowmydoggy, un social network inglese in cui è possibile prestare i propri cani, dietro versamento di una quota di iscrizione che varia a seconda del profilo utente.
Vediamo come in tal caso, l’idea della collaborazione si basa sul principio dell’accesso alla proprietà. Tale accesso può essere inteso come una forma di affitto o cessione: io ho una cosa – un divano letto, un posto in macchina, un oggetto che non utilizzo più – decido di cedertelo temporaneamente a titolo remunerativo. Più che una condivisione, si tratta di una riorganizzazione delle logiche della domanda e dell’offerta, La differenza tra AirBnb e realtà come il Couchsurfing o l’HomeExchange è tutta qui: nel primo caso parliamo di affitto, nel secondo caso di messa in comune. Una contraddizione che caratterizza, ad esempio, realtà di social eating come Gnammo: organizzare un pasto in casa propria con altri utenti e chiedendo in cambio un rimborso sui costi sostenuti è un modo per socializzare o una scorciatoia per farsi un vero e proprio ristorante in casa?
Più che di sharing economy, nel caso di sistemi come Uber o AirBnb dovremmo parlare quindi di rental economy. Nascosti dietro una retorica neocomunitaria di collaborazione, condivisione e disintermediazione, in realtà troviamo modelli tradizionali for profit di mercato. Altro che volontarismo: secondo il Wall Street Journal, Airbnb ha raggiunto il valore record di 25,5 miliardi dollari, mentre, sempre secondo il giornale americano, Uber, con i suoi 50 miliardi di dollari di fatturato, rappresenta la startup più “ricca” nella storia, superando anche Facebook. E non è un caso che società come General Motors stanno indirizzandosi verso i servizi di car sharing.
Non solo questi sistemi fanno enormi fatturati, ma stanno creando una nuova economia informale di lavoratori “a rimborso spese” non regolamentati, non tassati e senza alcuna copertura assicurativa. Il caso di Barcellona è esemplare: sebbene molti annunci che compaiono su Airbnb non hanno regolare licenza e quindi sono illegali e esentasse, la compagnia ha declinato qualsiasi responsabilità, pur continuando a trattenere le dovute commissioni. E sebbene sia difficile solidarizzare con il protezionismo corporativo di alberghieri o tassisti, sarebbe altrettanto opportuno non cadere nella facile narrazione della comunità peer-to-peer che si organizza dal basso per sfidare le potenti lobby consolidate. Né risulta del tutto convincente l’idea che normali cittadini possono “inventarsi il lavoro”, diventando veri e propri imprenditori di sé stessi, come avviene ad esempio su Taskrabbit, un social network che funziona come un sistema di placement interinale che permette di far incontrare velocemente la domanda e l’offerta di qualsiasi tipo di lavoro: da fare la spesa a ritirare i vestiti in lavanderia, da pulire la casa a montare i mobili Ikea. Il sistema oggi conta circa un milione e mezzo di utenti e conta soprattutto studenti, disoccupati, pensionati e casalinghe.
Quali i limiti di questo sistema? Come ben spiegato da un articolo di Left, uno dei maggiori rischi di sistemi come questo è che tutti i rischi e gli inconvenienti d’impresa diventano esclusiva responsabilità dei lavoratori: dagli investimenti in capitale produttivo – in fondo la macchina in Uber la mettiamo noi così come la casa su AirBnb – alle possibili oscillazioni della domanda e dell’offerta come nel caso di Taskrabbit. Mentre le società che intermediano fatturano miliardi, qualsiasi possibile perdita viene esternalizzata e ricade esclusivamente sul lavoratore. E, in questa sorta di fordismo individualizzato, guai a perdere il sorriso sulle labbra, perché si rischia di diventare antipatici e scendere nelle classifiche di rating c previste da molti di questi servizi: molti autisti di Uber a Los Angeles hanno raccontato di essere costretti a dire agli utenti che adorano il proprio lavoro, per paura di ricevere un basso rating. Benvenuti nell’era del turbo prosumerismo direbbe qualcuno o della deregolamentazione a tutti i costi del mercato. Ma – come diceva il compianto sociologo Ulrich Beck: “Il fondamentalismo del mercato è una forma di analfabetismo democratico. Il mercato non si giustifica affatto da sé.” L’errore più grande, come sostiene Tiziano Bonini, è quello di chiamare, con la parola sharing economy, tutta una serie di attività che solo apparentemente hanno la condivisione come tratto comune, E quindi per favore: non confondiamo la libera concorrenza con l’antica arte di arrangiarsi per sbarcare il lunario.
I limiti della sharing economy act
La sharing economy non va fermata, ma al contrario implementata. Ma è assolutamente necessario che la rental economy mascherata da “economia collaborativa” sia al più presto regolamentata. Per questo, la proposta di legge del 2 marzo può essere valutata come un primo significativo passo in tale direzione. Tale proposta prevede che un utente che arrotonda i suoi introiti affittando stanze, dando passaggi o organizzando cene debba pagare una imposta del 10% se i suoi guadagni non superano la cifra dei 10 mila euro all’anno. Superata tale cifra, gli introiti saranno considerati redditi veri e propri e dunque andranno sommati agli altri percepiti. I gestori opereranno semplicemente in qualità di sostituti di imposta degli utenti operatori: saranno considerati cioè come come abilitatori che mettono in contatto gli utenti. Pertanto, se residenti all’estero, realtà come AirBnb dovranno devono dotarsi di una organizzazione in Italia e comunicare i dati all’Agenzia delle entrate sulle transazioni economiche tra i propri utenti, che d’ora in poi, potranno avvenire solamente per vie elettroniche.
Tuttavia, nonostante le novità sostanziali, tale legge è limitata da una serie di problematiche che riguardano probabilmente una confusione concettuale tra collaborative e rental economy. Ad esempio non si spiega perché si debba prevedere la medesima aliquota per un passaggio offerto con BlaBlaCar o una stanza data in affitto su AirBnb. Sebbene i costi relativi alla gestione della propria attività possano essere molto simili – l’usura della macchina in un caso, le spese attive nel caso dell’affitto di una stanza – stiamo parlando di due realtà che hanno finalità profondamente diverse. BlaBlaCar è un sistema di trasferimento della proprietà su un bene limitato – io ti offro un passaggio, tu mi dai un rimborso spese; AirBnb, invece, è un sistema di accesso alla proprietà che funziona come un vero e proprio contratto di affitto. A questo punto, gli utenti di BlaBlarCar avrebbero poca convenienza ad usare tale piattaforma. E avrebbero ragione: siamo sicuri che BlaBlaCar debba essere intesa come “una microattività non professionale ad integrazione del proprio reddito di lavoro”? La legge propone di istituire un modello fiscale centralizzato per le multinazionali che tuttavia rischia di apparire deleterio nel caso di servizi online decentralizzati che nascono dal basso e si fondano sui principi dell’economia collaborativa. Nonostante l’esclusione di tutte quelle attività in cui è il gestore a stabilire tariffe fisse – come nel caso di UberPop che decide qual è il prezzo di ogni corsa – resta comunque difficile valutare cosa sia un semplice scambio di beni e servizi e cosa una vera e propria attività professionale che rischia di generare uno squilibrio competitivo rispetto a professionisti sottoposti a molti più costi e vincoli.
Allo stesso tempo, pur preoccupandosi di tassare i lavoratori freelance che superano certe soglie di reddito ponendo come discrimine i redditi superiori ai 10 mila euro, la proposta di legge non dice nulla sui temi previdenziali o quelli relativi ai diritti sociali di questi lavoratori. Anzi, la norma esclude un rapporto di lavoro subordinato tra gestore e utente. Ma siamo sicuri che gli autisti di servizi come Uber debbano essere trattati alla stregua di liberi professionisti e non invece come veri e propri impiegati?
Non si può che salutare benevolmente tale proposta di legge. Ma si sia consapevoli che la strada per normare un fenomeno così complesso come la sharing economy è ancora all’inizio. La buona notizia è che i quarantasette pilastri dell’economia collaborativa e della condivisione, Uber e Airbnb in testa – come raccontato dal Manifesto – hanno scritto una lettera al presidente dell’Unione Europea per ribadire la loro contrarietà a qualsiasi legge che limiti l’economia collaborativa. Se il nuovo capitalismo della condivisione è preoccupato, vuol dire che qualcosa si sta finalmente muovendo nella giusta direzione.