La proposta

Smart cities, andiamo oltre la visione riduttiva del Crescita Digitale 2020

La smart city allora non si può ridurre a tre pagine della “Strategia per la crescita digitale” ma, deve tradursi nell’ossatura centrale che tiene assieme il tutto. Le smart citiesnon si fanno a Roma nei Ministeri, né all’Agid

Pubblicato il 21 Apr 2015

Michele Vianello

consulente e digital evangelist

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Il documento “Strategia per la crescita digitale 2014-2020”, tra gli altri, affronta anche il tema della smart city, ma la visione, e non poteva essere diversamente, è molto –troppo- centralistica.

Riproporre la catena decisionale ministeriale e delle varie agenzie/comitati nazionali è cosa già vista in questi anni. Ma è questa catena che, a partire dai bandi MIUR sulle smart cities, ha decretato lo scarso successo delle politiche smart nei comuni italiani.

Abbiamo assistito all’enfatizzazione delle componenti tecnologiche, poi, alla prova dei fatti (Genova su tutti), ovvero all’impatto della tecnologia sulla vita quotidiana dei cittadini, ci siamo fermati.

Non è un caso che la dizione “smart city” sia passata di moda nella vulgata comune.

Gli stessi indicatori per il calcolo dei benefici e KPI indicati nel documento “Strategia digitale” sono molto generici e ancora una volta centralistici. Li ricordo ai fini della completezza del nostro ragionamento:

– numero di città e cittadini impattati dalle soluzioni;

– progetti inclusi nella piattaforma nazionale e replicabili;

– partnership e alleanze fra città su singoli interventi;

– indicatori ambientali, di mobilità sostenibile;

– indicatori sul miglioramento della qualità della vita dei cittadini.

Come si vede i criteri qualitativi abbondano. Vorrei ricordare che l’obiettivo “smartness” di un ambiente urbano deve essere prevalentemente qualitativo. Deve inoltre prevedere la centralità della qualità dell’intervento del fattore umano.

Chi scrive, per professione, incontra decine di amministrazioni comunali, soprattutto quelle dimensionate fino a 200.000 abitanti (ovvero il 90% dei comuni italiani).

Tutti loro, gli amministratori, combattono quotidianamente con la quadratura del bilancio, con la carenza e la qualità del personale, con gli switchoff che li costringono a digitalizzare l’esistente. Tranne qualche grande città –Milano in primis- i Sindaci italiani hanno smarrito la dimensione del futuro.

Le smart cities –come sostengo da tempo- non si fanno a Roma nei Ministeri, né all’AGID. Le politiche smart si praticano sui territori e devono partire dai Sindaci e dalle Amministrazioni Regionali.

Gli amministratori locali vanno aiutati –soprattutto sotto il profilo culturale- a recuperare una dimensione strategica nelle loro attività.

Sempre di più autorevoli economisti e sociologi segnalano come la competizione economica e sociale (i fattori di progresso o di regresso) si siano spostati dalla dimensione statuale nazionale –caratterizzante tutto il ‘900- alla dimensione cittadina.

Sono cioè le aree urbane lo scenario, il luogo della competizione e dell’evoluzione delle dinamiche economiche e sociali. Le aree urbane in Italia si rassegnano ad essere solo lo scenario, o diventano le protagoniste dell’innovazione e della crescita?

Di questa “verità” c’é scarsa consapevolezza. All’opposto, in Italia, si tende a tornare a logiche, anche nel campo dell’information technology, fortemente improntate alla regolamentazione centralistica.

Propongo allora, per uscire da questo dannoso impasse, di iniziare una inversione di rotta, a partire dalla definizione di indici di smartness in una città. Ciò andrà poi accompagnato dalla revisione culturale e politica–anche in sede comunitaria- delle idee e delle attività smart.

Tutto ciò non attiene, ovviamente, solo alla componente IT. L’IT.. è un fattore trasversale, non LA componente, o L’INDICE.

Dobbiamo operare per metticciare diversi filoni e aree che riguardano lo sviluppo delle città. In particolare dobbiamo evidenziare come obiettivi (da trasformare in KPI) da raggiungere per rafforzare la componente smartness di un tessuto urbano:

– la dimensione urbana (per forza dobbiamo essere piccoli) ;

– il quadro demografico urbano (è inevitabile essere sempre più vecchi???)

– le capacità infrastrutturali e logistiche;

– la capacità/possibilità di offrire incentivi a chi (imprese o persone) si insedia in un’area urbana;

– la capacità di favorire la realizzazione di cluster e filiere produttive, soprattutto nel mondo dei servizi e delle economie vecchie (turismo e beni culturali in primis);

– la capacità di consolidare forti e autorevoli leadership politiche e civili (è quella componente che nei miei libri definisco come la costruzione delle governance cittadine)

– la capacità di offrire fattori inclusivi sul piano civile e una offerta di prodotti/servizi di assoluta qualità, sia sotto il versante pubblico che, soprattutto privato.

L’I.T. offre già oggi tutte le piattaforme tecnologiche per sviluppare e monitorare l’attuazione di molte di queste componenti.

Il Governo deve allora favorire questo processo e puntare ad incentivare politiche che realizzino la crescita, lo sviluppo, l’innovazione.

Vorrei ricordare a tutti noi che il PIL, prima di tutto, si forma nelle città. La smart city allora non si può ridurre a 3 pagine della “Strategia per la crescita digitale” ma, deve tradursi nell’ossatura centrale che tiene assieme il tutto.

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