Smart cities, fra sei anni risultati su larga scala

Ma bisognerà fare sistema, per passare dalle tante idee alle grandi opere. Cruciale il ruolo dell’Agenzia per l’Italia digitale. Ne parliamo con Mauro Annunziato di Enea, Carlo Ratti del Senseable Lab del MIT di Boston e Michele Vianello del Vega Park

Pubblicato il 26 Set 2012

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Per aggirarsi in una smart city italiana degna di questo nome bisognerà aspettare altri 6-7 anni. A dichiararlo al nostro sito Mauro Annunziato, coordinatore del progetto Enea per le città intelligenti. L’occhio critico di Annunziato si posa sul tema mentre il tic tac che ci separa dalla presentazione dell’Agenda digitale si sta facendo sempre più incessante. E ansiogeno: fonti del ministero allo Sviluppo economico hanno confermato ad agendadigitale.eu che venerdì 28 sarà il giorno fatidico, ma l’argomento non è nell’ordine giorno del Consiglio dei ministri. Le smart cities, a prescindere dalla citazione all’interno del decreto in gestazione, sono state già oggetto di due bandi del Miur da 665,5 milioni di euro, quello nazionale, e 240 milioni di euro, quello per il Sud della Penisola, e beneficiano di iniezioni economiche comunitarie. Genova, ad esempio, ha portato a casa 6 milioni di euro messi a disposizione da Bruxelles.

Annunziato tiene a sottolineare come si tratti “di bandi inclini verso la ricerca e lo sviluppo e non in direzione di opere infrastrutturali”. Non si sta quindi, ancora, lavorando a qualcosa che porterà a “realizzazioni visibili su larga scala”, ma piuttosto sulle metodologie da adottare. Un esempio degli esperimenti a cui fa riferimento Annunziato è la rete energetica locale di teleriscaldamento e telefraddamento che il capoluogo ligure si accinge a realizzare alle Gavette e pensata per servire le utenze industriali, commerciali e residenziali della zona. “Il problema”, prosegue, “sarà coordinare i singoli progetti che stanno cogliendo nel segno e stimolando il mercato a costruire filiere e partnership in direzione di una produzione coordinata”. Secondo Annunziato, bisognerà attendere o che questi “prototipi dimostrino la loro veridicità e sostenibilità economica”.

Il discorso è questo: i fondi di ricerca possono finanziare soluzioni volte allo sviluppo di un modello per l’ottimizzazione dei processi in un quartiere, 2 milioni di euro la cifra ipotetica citata dal ricercatore Enea, ma per arrivare ai 50-100 milioni (in su) necessari per ripensare una cittadina di media grandezza bisogna presentare un business model competitivo e ingolosire aziende o banche convinte della bontà dell’investimento. Tornando alle tempistiche, nel corso dei prossimi tre anni “saranno una sessantina i test urbani su piccola scala, è possibile che alcuni passino allo stato di maturità e inneschino progetti realizzabili, a morire sarà l’80% delle idee“. L’àmbito in cui si è già individuato il bandolo della matassa è quello dell’efficenza energetica: “Se sostituisco l’illuminazione pubblica con un’illuminazione intelligente che abbatte del 50% il consumo dopo un certo numero di anni recupero l’investimento”, spiega Annunciato. Altri esempio è quello degli edifici, “se opero sull’involucro soltanto in alcuni casi riesco ad avere un rientro dell’investimento veloce, se invece intervengono sull’automazione risparmio il 20% di energia, percentuale contenuta, ma non devo affrontare una spesa consistente e ho un ottimo ritorno”. Sono le aree relative sicurezza, qualità dell’aria e mobilità a richiedere un’analisi del rapporto, squisitamente economico, costi-benefici.

Carlo Ratti, ingegnere torinese che dirige il Senseable Lab del MIT di Boston, ritiene che la sfida consista nell’utilizzare “le infrastrutture che già esistono. Un esempio è il traffico: abbiamo già auto che si guidano da sole o reti che ci permettono di non sprecare tempo e benzina alla ricerca di un parcheggio”. Lo spaccato disegnato da Annunziato si ripropone con la Copenhagen Wheel che, anticipa Ratti, sta evolvendo proprio in questi giorni in una startup. Trattasi della nota ruota in grado di trasformare un bicicletta tradizionale in un veicolo ibrido a zero emissioni e in grado di interagire con l’ambiente circostante tramite sensori ambientali. Presentata nel 2009, sta cominciando il percorso per trasformarsi in un prodotto commerciale a tutti gli effetti. Nel laboratorio statunitense si sta inoltra lavorando a un progetto chiamato ENERNET che “utilizza i dati relativi alle connessioni wi-fi come parametro sulla presenza di persone nelle abitazioni”. Siamo in grado, spiega Ratti, di “creare una funziona che lega gli utenti ai loro consumi energetici, ribaltando i normali criteri di produzione e apporto di energia”.

In Italia un primo consistente passo dovrebbe essere “mettere a sistema i dati immagazzinati dalle centraline Enel presenti nelle nostre case”: lo spunto è di Michele Vianello, direttore del Vega Park di Venezia. La privacy, ci tiene a sottolineare, “non è un problema”, non si sta parlando di dare informazioni sui consumi di un singolo utente, ma di aggregare il materiale relativo a edifici e interi quartieri per realizzare una mappa dell’efficienza energetica della città. Altro investimento minimo citato consiste nell’inserimento negli edifici di sensoristica che metta le singole componenti in grado di denunciare il bisogno di manutenzione: “La pubblica amministrazione potrebbe rendere lo standard obbligatorio quando concede i permessi edilizi”. Come negli appartamenti, anche negli autobus sono già presenti centraline in grado di rilevare il grado di efficienza del mezzo, “solo che i dati non sono aggregati”. “La città intelligente non è quella con tanti sensori, ma quella che crea una generazione di algoritmi in grado di rendere visibili i benefici ottenuti in base a metriche prestabilite”, è la sentenza di Vianello, convinto – come Annunziato – della bontà di alcune singole iniziative ma “deluso da una mancanza di visione di fondo”.

La palla balza fra le pagine dell’atteso decreto, all’interno del quale si chiede all’Agenzia per l’Italia digitale di definire “strategie e obiettivi”, coordinare “il processo di attuazione” e predisporre “gli strumenti tecnologici ed economici per il progresso delle comunità intelligenti”. Fare sistema, insomma. E cominciare con la nomina, trasparente, del direttore non sarebbe male.

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