l’analisi

Bertelè: “Sostenibilità ambientale, le tre aree critiche da curare”



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La transizione energetico-ambientale presenta costi molto elevati, un alto livello di complessità e richiede una forte determinazione e continuità nelle singole aree e su scala globale. Per il successo di qualunque strategia, l’attenzione va posta su tre elementi: reti, auto e case. Ma le attuali politiche affrontano i problemi in modo adeguato?

Pubblicato il 26 giu 2023

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano



green tech smart city

Quali sono le premesse affinché il perseguimento della sostenibilità ambientale abbia successo? A mio parere, i fattori cruciali sono tre.

Il perseguimento della sostenibilità ambientale:

  • deve risultare economicamente e socialmente sostenibile,
  • deve saper affrontare i problemi in tutta la loro complessità,
  • richiede grande determinazione e continuità nel tempo, senza frenate ma senza anche accelerazioni velleitarie.

Sostenibilità economica e ambientale della transizione energetico-ambientale

Primo punto. La transizione energetico-ambientale – a dispetto di quanto è stato spesso detto e si continua talora a sostenere – presenta costi molto elevati, che solo un’economia solida può permettersi. BloombergNEF stima in circa 200 trilioni di $ l’ammontare globale di investimenti necessari per conseguire il net zero nel 2050.

Essa può richiedere sacrifici anche molto rilevanti alle persone, che – se non attenuati con misure di sostegno – rischiano di generare risentimenti e reazioni sul piano sociale e politico e di incrinare la grande determinazione richiesta per perseguire la transizione stessa.

Per non parlare degli squilibri geopolitici che può comportare, avvantaggiando fortemente alcuni Paesi e penalizzandone altrettanto fortemente altri, e delle reazioni che tali squilibri possono indurre. Nonché delle distorsioni che le misure di supporto, se improntate al protezionismo come in buona misura l’IRA-Inflation Reduction Act di Biden o le recenti green hydrogen subsidy auctions dell’UE, possono generare negli scambi internazionali, mettendo in crisi i rapporti fra Paesi “amici” e ancor più quelli con i Paesi che per conseguire il net zero – entro il 2070 nel caso dell’India (il Paese ora più popoloso del mondo) – devono rendere compatibile la loro forte crescita con il progressivo abbandono dei combustibili fossili di cui dispongono (del carbone nella fattispecie) a favore delle rinnovabili.

La complessità della transizione energetico-ambientale

Secondo punto. La transizione energetico-ambientale, dovendo modificare in profondità l’economia (quale formatasi “con un contributo fondamentale dei combustibili fossili” dalla rivoluzione industriale di fine ‘700 in poi) e i nostri stessi stili di vita, presenta un alto livello di complessità, che non permette di trattare le specifiche tematiche ignorando il contesto in cui esse sono collocate, pena rallentamenti, frenate e costi addizionali.

Determinazione e continuità nel tempo della transizione energetico-ambientale

Terzo punto. La transizione energetico-ambientale, essendo proiettata su un orizzonte temporale che non ha precedenti nella storia, richiede una forte determinazione e continuità nelle singole aree e su scala globale, senza però accelerazioni velleitarie che – violando uno o più dei requisiti evidenziati in precedenza – sortiscano effetti di segno opposto a quelli desiderati.

Sono tre le tematiche – che hanno a che fare con almeno una delle premesse – su cui voglio sinteticamente concentrare l’attenzione in questo articolo: reti elettriche, auto e case.

Reti elettriche, la strozzatura che sta frenando la crescita delle rinnovabili

La strozzatura che le reti elettriche costituiscono attualmente per la crescita delle rinnovabili è un chiaro esempio di cosa può accadere quando il perseguimento di un obiettivo – nella fattispecie lo sviluppo delle energie rinnovabili in sostituzione (quasi totale in termini percentuali) dei combustibili fossili e a copertura delle nuove esigenze – non è affrontato in tutta la sua complessità e guardando a tutte le sue ramificazioni. È un problema che tocca in misura più o meno acuta tutti i Paesi del mondo. È un problema che, per la sua rilevanza, è oggetto di continua attenzione da parte della grande stampa economica internazionale.

È ad esempio dell’11 giugno scorso l’importante servizio del Financial Times dedicato a questo tema: “Gridlock, how a lack of power lines will delay the age of renewables: A backlog of wind and solar projects is waiting to connect to infrastructure built for another era, threatening net zero plans”.

Le Figure. 1 e 2 fanno comprendere chiaramente i problemi: la prima, di fonte International Renewable Energy Agency, mostra come il conseguimento nel 2050 dell’obiettivo di limitare a 1,5 gradi la crescita della temperatura media rispetto all’era preindustriale richieda – negli scenari messi a punto – una triplicazione su scala mondiale della produzione di energia elettrica, in larghissima prevalenza da rinnovabili; la seconda rappresenta una stima dei cavi – 80 milioni di km secondo BloombergNEF – che dovrebbero coerentemente essere posti in opera. Ricordando un fatto importante: che le attuali reti, in larga misura concepite nel secondo dopoguerra, erano funzionali a un sistema in cui la produzione era concentrata in un numero ristretto di centrali e in cui erano le imprese energivore a fare la parte del leone nei consumi; mentre ora la produzione – in prevalenza eolica e solare – è molto più diffusa e scarsamente programmabile (“il vento non sempre soffia e il sole non sempre risplende”) e i consumi privati, per i riscaldamenti/raffreddamenti delle case e l’alimentazione delle auto elettriche, sono destinati a impennarsi.

Fig. 1 Fig. 2

Investimenti in questi anni ne sono stati fatti nelle aree più sviluppate del mondo (come si vede dalla Fig. 3 costruita su stime IEA-International Energy Agency), ma evidentemente non abbastanza: con la conseguenza che aumenta la coda di nuovi progetti nelle rinnovabili in attesa di autorizzazione a creare collegamenti alla rete.

La tesi del FT è che, mentre si stabiliscono obiettivi sempre più ambiziosi per le rinnovabili – in sede UE e G7 di recente e quasi certamente nel COP28 di Dubai a dicembre prossimo – si parla molto meno di reti, anche negli ambienti politici. “Grids are not part of public consciousness,” (“Le reti non fanno parte della coscienza pubblica”) sostiene l’esponente di una non-profit per la promozione dello sviluppo delle reti. “We are all aware that for our energy future, we need wind, solar, renewables. But grids aren’t often part of the conversation.” (“Siamo tutti consapevoli che per il nostro futuro energetico abbiamo bisogno di energia eolica, solare e rinnovabile. Ma le reti spesso non rientrano nella conversazione”).

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Fig. 3

Meno sensibile agli aspetti psicosociologici e più alle difficoltà di reperimento dei componenti e delle materie prime – a partire dal rame – per il potenziamento delle reti elettriche negli Stati Uniti è The Wall Street Journal, nel suo articolo dello scorso gennaio “Investors Plow Into Renewables, but Projects Aren’t Getting Built: Potential $40 billion spending spree for renewable-energy projects hits slowdown in wind and solar installations”.

E anche The Economist ha dedicato ampio spazio alle reti nel suo Technology Quarterly di aprile “Electric grids: The ultimate supply chains, analizzandone alcune delle principali problematiche (ne cito solo alcune): gli “immensi” requisiti tecnologici e regolamentari per una rete elettrica in fase di profonda trasformazione; le grandi difficoltà da affrontare per aggiungere capacità alle reti elettriche, soprattutto se da fonti rinnovabili; le altrettanto grandi difficoltà per bilanciare domanda e offerta nelle nuove reti elettriche, per l’erraticità della produzione da fonti rinnovabili e la crescita del numero di soggetti con consumi rilevanti.

Un determinante aiuto, per accrescere al massimo l’efficienza delle reti stesse e garantire la continuità delle loro prestazioni, potrà/dovrà essere giocato dalla tecnologia. È in continua crescita il ricorso alle tecnologie digitali per rendere smart le reti e ci si aspetta che l’intelligenza artificiale – con la sua capacità di dominare sistemi anche molto complessi – le possa rendere ancora più smart.

E cosa accade nel nostro Paese? Secondo BloombergNEF è uno dei tre – insieme a UK e Spagna – dove ci sono più progetti di investimenti in rinnovabili fermi, in attesa dell’autorizzazione alla connessione con la rete. E non è un caso che l’Italia, tra i Paesi più avanzati in Europa qualche anno fa per percentuale di copertura da rinnovabili, sia in progressivo scivolamento verso posizioni relative più arretrate (come chiaramente emerso dal recentissimo Rapporto di Energy & Strategy della School of Management del Politecnico di Milano).

Euro 7: scelta lungimirante dell’Ue o senza sensibili vantaggi per l’ambiente?

La domanda è molto semplice: perché introdurre un nuovo standard – l’Euro7 in sostituzione dell’Euro6 – per le tradizionali auto a combustione interna, che (se definitivamente approvato) non potrà entrare in funzione prima del 2025, se è già tassativamente previsto il divieto assoluto di vendita nell’UE stessa di auto a benzina/diesel a partire dal 2035? Perché obbligare i grandi produttori di auto a investire in una costosa transizione tecnologica – con costi che verranno poi in larga misura ribaltati sugli acquirenti europei ma che non potranno esserlo nel resto del mondo – con una prospettiva di utilizzo per soli 10 anni, a meno che non ci sia un retropensiero di spostare nel tempo la data di “morte definitiva” dei veicoli alimentati con combustibili fossili? E come si concilia questo con l’importanza dei mercati extra-UE dei grandi produttori tedeschi (Volkswagen realizza in Cina metà dei suoi profitti e BMW oltre il 40 per cento dei suoi ricavi), che non a caso sono fortemente contrari all’introduzione del nuovo standard “a tempo determinato”?

È una proposta, questa della Commissione Europea, già approvata dal Parlamento Europeo ma ancora in attesa del confronto finale “a tre” con il Consiglio Europeo.

L’Italia ha assunto, per bocca del ministro competente, una posizione nettamente contraria. Così ha fatto la Francia, con il ministro dell’Economia Bruno La Maire che chiede all’UE di evitare di concentrare risorse su tecnologie passate, imponendo ai propri costruttori norme che né Cina né Stati Uniti chiedono ai loro, e di proteggere viceversa il lavoro, le tecnologie e l’industria europea in un comparto storicamente così rilevante. Contradditoria la posizione del governo di coalizione tedesco, con il ministro dell’Ambiente che chiede di anticipare al massimo l’entrata in vigore del nuovo standard e viceversa quello dei Trasporti, che ne respinge con forza l’introduzione perché ingiustamente penalizzante le imprese nel momento in cui sono impegnate nella non facile transizione all’elettrico.

Perché tanta spinta da parte dell’UE a essere la “prima della classe”, nonostante i rischi che questo può comportare per l’economia e l’occupazione – con ovvi riflessi sociali e politici – dell’area? Soprattutto, io credo, perché il cosiddetto Fit for 55, ovvero l’accelerazione delle misure per combattere il riscaldamento globale e nello specifico per conseguire entro il 2030 una riduzione del 55% delle emissioni di gas-serra rispetto ai livelli del 1990 (a fronte del 40% stabilito in precedenza), è stato l’obiettivo simbolo – con il lancio dell’European Green Deal – del programma della Commissione UE al momento della nomina a presidente di Ursula von der Leyen per il quinquennio 2019-2024. Un obiettivo che – proprio per il suo valore simbolico – la Commissione UE insiste nel mantenere nei suoi contenuti originali, nonostante l’impressionante cambio nello scenario mondiale nel frattempo verificatosi: che, nel giro di soli quattro anni ha visto il succedersi della pandemia, della guerra in Ucraina, dell’accendersi dell’inflazione con i conseguenti interventi delle banche centrali e dello scoppio della rivalità fra Cina e Stati Uniti (prima latente) per la leadership globale.

C’è un ulteriore punto che merita un commento, se si guarda alle nuove prescrizioni previste dall’Euro 7. Esse non riguardano solo le auto con motori a combustione interna, ma anche – creando un ulteriore livello di potenziale confusione e rischiando di scoraggiarne le vendite (in crescita ma ancora lontane dai livelli desiderati) – le auto elettriche. Questo perché, per la prima volta, vengono considerati formalmente come fonti di inquinamento sia il particolato che proviene dall’azione delle gomme sul terreno e dalla loro abrasione, sia le emissioni di polveri dell’impianto frenante, andando a colpire due dei pochi componenti dell’auto – pneumatici e freni – destinati a sopravvivere alla transizione all’elettrico (o eventualmente all’idrogeno). Gli stessi due, curiosamente, che vedono in questo momento un avvicinamento fra le principali imprese italiane che li producono – Pirelli (recente oggetto dell’esercizio della golden power da parte del nostro governo) e Brembo – se non addirittura una loro fusione.

La nuova Direttiva comunitaria sulle case green

Non c’è dubbio che le case diano un contributo molto forte sia al consumo energetico sia alle emissioni che contribuiscono al riscaldamento globale: una stima che riporto è che in termini percentuali esse pesino rispettivamente per il 40 e per il 36% su scala globale. Non c’è dubbio quindi che le case esistenti debbano essere oggetto di ristrutturazioni in media pesanti e che le case di nuova costruzione debbano obbedire a norme rigide in linea con il net zero. Il problema, essenzialmente per le ristrutturazioni del patrimonio esistente, sono – oltre ovviamente agli ingentissimi costi e alla percentuale quasi totalitaria della popolazione coinvolta – i tempi (dettati dal Fit for 55) entro cui almeno parte delle ristrutturazioni stesse dovrebbe essere attuata a fronte dei ritardi nell’entrata in funzione della EPBD Energy Performance of Buildings Directive, tuttora in fase di discussione fra Commissione UE, Parlamento e Consiglio Europeo.

Senza entrare in estremi dettagli, ricordo che a ogni edificio (a uso residenziale o con altre destinazioni d’uso) è associata la classe energetica di appartenenza, che per convenzione G è la classe che comprende gli edifici più energivori (ancora per convenzione il 15% del totale) e A la migliore, che sono 1,8 milioni (il 15% sui totali 12) gli edifici residenziali facenti capo in Italia secondo l’Istat alla classe G.

L’EPBD, nella sua attuale formulazione, richiede che tutti gli immobili residenziali debbano raggiungere la classe E entro il 2030 e la classe D entro il 2033, che per gli edifici non residenziali (con poche eccezioni) i tempi si accorcino rispettivamente al 2027 e 2030, che tutti i nuovi edifici debbano essere realizzati a emissioni zero a partire dal 2028, che gli Stati membri presentino piani nazionali per la riqualificazione che prevedano interventi prioritari per gli edifici residenziali in classe G (in Italia come detto 1,8 milioni). E tra gli interventi, per arrivare a emissioni zero nel 2050: cappotto termico, sostituzione degli infissi, nuove caldaie a condensazione, pannelli solari.

Un piano realizzabile nei tempi previsti o una bomba sociale – particolarmente in Italia (che ha un’ampia parte del suo patrimonio edilizio residenziale costruito prima che fossero emanate norme di costruzione più attente ai consumi energetici) – soprattutto se nel futuro venisse negato a chi non è in regola (penalità al momento esclusa) di vendere o affittare gli edifici/abitazioni? Lascio a chi mi legge di esprimere il proprio parere, a me sembra un compito immane. Un compito immane innanzitutto per chi ha attualmente la propria abitazione in classe G, che penso che spesso non abbia le risorse finanziarie, le conoscenze tecniche e la capacità di gestire i rapporti burocratici necessarie per le ristrutturazioni. Un compito immane per la carenza di imprese e tecnici specializzati, come emerso chiaramente nella gestione di bonus e superbonus. Un compito immane che rischia di spingere – usando un termine elegante – alla ricerca di scorciatoie: lo abbiamo purtroppo visto in occasione dei diversi terremoti che hanno colpito il nostro Paese, con il crollo di edifici che disponevano di una completa certificazione antisismica anche molto recente.

Due osservazioni, relative alle difficoltà di stabilire una Direttiva che valga per tanti Paesi diversi, La prima è che, come appare dalla Fig. 4, esiste attualmente una vera e propria Babele nei criteri di definizione delle classi energetiche nei diversi Paesi: Babele che dovrà essere superata per poter varare la Direttiva. La seconda – su cui punta l’Italia – è che nella definizione delle classi energetiche si tenga conto del clima: il mantello termico ad esempio, prezioso nel nord della Svezia, lo è un po’ meno a Trapani o a Malta.

In sintesi: rendere green le case è indispensabile se si vuole conseguire il net zero nel 2050, ma se si vogliono evitare tensioni sociali e politiche eccessive (che anche in Germania cominciano a manifestarsi come evidenziava The Economist di recente) e si vogliono “fare le cose per bene” si deve partire subito, ma con una pianificazione più realistica dei tempi rispetto a quelli imposti dal Fit for 55.

Fig. 4

*L’idea di scrivere questo articolo nasce in parte da una conversazione con Lucio Poma, capo economista di Nomisma, moderata da Gianfranco Barbieri, presidente ACEF, nell’ambito del ciclo “Pillole di sostenibilità sostenibile”

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