Sempre più spesso, ragionando di compliance aziendale, si fa riferimento ai fattori ESG (Environmental, Social, Governance) e il perché è presto detto. Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del decreto legislativo 254/2016 che recepisce la Direttiva 2014/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2014, sono entrate in vigore nuove disposizioni in materia di disclosure non finanziaria che hanno definitivamente sdoganato, anche in Italia, la responsabilità sociale d’impresa.
Principi ESG, quando un’azienda può dirsi sostenibile: criteri di valutazione e impatti
La reportistica non finanziaria
Cristallizzando l’obbligatorietà della reportistica aziendale cosiddetta non finanziaria, per le società di grandi dimensioni, il citato decreto ha stabilizzato quella che la letteratura specialistica ha definito alla stregua di una vera e propria prassi gestionale virtuosa. Una prassi gestionale, questa, che peraltro aveva già innestato le proprie radici nel terreno imprenditoriale italiano.
Ciò non toglie che il citato decreto abbia rappresentato un’importante innovazione in materia, contribuendo significativamente a mettere in moto quella che è stata elegantemente definita un’importante catena sostenibile del valore in grado di condurre, nel tempo, anche società di più piccole dimensioni a comunicare informazioni destinate ad impattare sul piano della sostenibilità.
Il modello 231
L’articolo 3 del già citato decreto legislativo 254/2016, prevede che le informazioni debbano essere comunicate unitamente alla descrizione “del modello aziendale di gestione ed organizzazione delle attività dell’impresa” nonché dell’eventuale modello 231 che la stessa abbia adottato, come da decreto legislativo 231/2001, con riguardo alle prestazioni di carattere non finanziario, nonché “dei principali rischi, generati o subiti, connessi ai suddetti temi e che derivano dall’attività dell’impresa, dai suoi prodotti, servizi o rapporti commerciali incluse, ove rilevanti, le catene di fornitura e subappalto”.
Da ciò deriva che, allorquando si ragiona di dichiarazione individuale di carattere non finanziario, i temi che devono essere lumeggiati sono quelli, direttamente connessi alle macro-aree vale a dire: ambiente, società, personale, diritti umani e corruzione. Quest’ultime aree impattano sull’utilizzo delle risorse energetiche “distinguendo tra quelle prodotte da fonti rinnovabili e non rinnovabili”, sull’impiego delle risorse idriche, sull’emissioni di gas a effetto serra, sulle emissioni inquinanti in atmosfera, sugli aspetti sociali, sugli aspetti attinenti alla gestione del personale, “incluse le azioni poste in essere per garantire la parità di genere, le misure volte ad attuare le convenzioni di organizzazioni internazionali e sovranazionali in materia e le modalità con cui è realizzato il dialogo con le parti sociali“.
Inoltre, occorre porre l’accento sulle misure adottate per prevenire la violazione di diritti umani, sulle azioni attuate per impedire pratiche discriminatorie, nonché sulla lotta alla corruzione, attiva e passiva.
Se così stanno le cose, però, è allora evidente come, tra il mondo della disclosure non finanziaria e quello del modello 231, insistano punti di contatto concettuale davvero importanti. Ragionare sull’uso delle risorse energetiche, sull’impiego delle risorse idriche, sulle emissioni di gas ad effetto serra – ovvero d’emissioni inquinanti nell’atmosfera – significa necessariamente ragionare di reati contro la pubblica amministrazione, di delitti di criminalità organizzata, di riciclaggio e d’autoriciclaggio nonché di reati ambientali (articoli 24 e 25 del decreto legislativo 231/2001).
La prevenzione delle discriminazioni
Com’è stato correttamente osservato, nell’area inerente alle misure adottate per prevenire la violazione dei diritti umani e alle azioni realizzate per impedire pratiche discriminatorie, il pendolo è destinato ad oscillare tra parità di genere, convenzioni lavoristiche anche internazionali e libertà sindacale, con tutto ciò che ne consegue in punto di prevenzione delle discriminazioni, rispetto dei diritti umani, salute e sicurezza sul lavoro e, in ultima analisi, di delitti informatici, di delitti di criminalità organizzata, di delitti contro la personalità individuale, d’omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nonché d’impiego di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Il rimando è ancora una volta agli articoli 24 e 25 del decreto legislativo 231/2001.
La sostenibilità e i temi materiali
La sostenibilità riflette i cosiddetti temi materiali, ovvero gli ambiti su cui si concentra il comma 1 dell’articolo 3 del succitato decreto legislativo 254/2016, e che la società è chiamata a rendicontare. In quest’ottica, particolare importanza sembrerebbe assumere la cosiddetta matrice di materialità prevista dagli standard Gri (Global reporting initiative), l’output finale di un’analisi condotta a partire da interviste somministrate agli stakeholder e finalizzate a mettere a fuoco aree d’interesse e priorità degli stessi in materia ambientale, sociale e di governance.
Una volta intervistati in merito gli stakeholder, ciò che si costruirà, sarà una lista che passa in rassegna tutti gli aspetti più rilevanti (materiali, appunto) in chiave ESG consentendo con ciò di mappare i valori caratterizzanti.
Una volta mappati, tali valori verranno graficamente incastonati nell’anzidetta matrice che rappresenterà gli esiti del confronto tra aziende e stakeholder, dedicando l’asse delle ascisse a ciò che è rilevante per le prime e l’asse delle ordinate a ciò che è rilevante per questi ultimi.
Se quanto precede è corretto, però, non sembra allora revocabile che, anche la risk analysis (decreto legislativo 231/2001), possa essere usata per alimentare l’asse delle ascisse, andando a meglio focalizzare gli ambiti rilevanti lato azienda: una volta mappate, in sede di costruendo modello 231, le principali aree a rischio di commissione di reati, infatti, non sarà disagevole ragionare per sottrazione, andando a ricavare dalle stesse i principali temi salienti in chiave ESG. Così, a mero titolo esemplificativo, una volta definito il rischio d’astratta commissione di delitti contro la personalità individuale – ovvero d’impiego di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare – in ambito aziendale, sarà facile estrapolare da protocolli etico organizzativi e procedure atti a contenere lo stesso quanto rilevante in punto di sostenibilità.
Oltre a dovere comunicare le informazioni che impattano sul piano della sostenibilità (così come da decreto legislativo 254/2016), le aziende dovranno comunicare anche la descrizione del modello di gestione e organizzazione delle attività d’impresa nonché, ove adottato, anche quelle del modello 231.
La qual cosa, ove l’anzidetto modello sia stato effettivamente adottato, equivale a dire che la dichiarazione individuale di carattere non finanziario dovrà peritarsi d’illustrarne le principali componenti strutturali, con particolare riguardo a quelle a caratura più squisitamente etico organizzativa.
L’adozione del modello 231
Sull’opposto versante, però, è parimenti vero che il modello 231, ove effettivamente adottato, potrà cedere alla dichiarazione individuale di carattere non finanziario le più importanti informazioni rilevanti. Ciò che consentirà una più immediata e più agevole perimetrazione dei cosiddetti temi materiali, anche in merito alle politiche aziendali adottate in materia.
Informazioni rilevanti, queste, che, una volta impacchettate nel report di sostenibilità, potranno essere diffuse, contribuendo, a loro volta, a favorire una più capillare conoscenza del modello 231 sul versante e interno ed esterno. Quanto precede, peraltro, è certamente destinato ad impattare anche sul piano proprio dell’effettiva attuazione del modello 231.
Affinché la società sia esente da responsabilità (para)penale, infatti, è necessario che la stessa abbia, non solo adottato, ma anche efficacemente attuato il modello 231.
L’elusione del modello 231
Come osservato anche dalla Corte di cassazione, perché si possa concretamente parlare di fraudolenta elusione del modello 231, occorre che il management abbia commesso il reato aggirando con malizia l’ostacolo rappresentato dalle norme contenute nel comma 1, lettera C, dell’articolo 6 del decreto legislativo 231/2001. (Sentenza 23401 dell’11 novembre 2021 della Cassazione penale Sezione VI).
Ciò implica, come detto, che il modello 231 sia stato altresì efficacemente attuato perché, in difetto (ovvero, dove emergesse che lo stesso tende a non vivere nella quotidianità aziendale), diventerebbe disagevole affermare che, per commettere il reato, il management si sia visto costretto a bypassare la politica d’impresa in materia di compliance normativa.
Conclusioni
Se quanto precede è corretto, non può essere messo in dubbio che la biunivocità esistente, tra dichiarazione individuale non finanziaria da un lato, e modello 231 dall’altro lato, possa riverberare i propri fruttuosi riflessi anche sul concetto d’efficace attuazione dell’anzidetto modello. Il report di sostenibilità, infatti, contribuirà a fornire la prova della proattività che andrà a contrassegnare la quotidiana azione conformante dell’azienda.