I Business Angel che fanno uno “screening positivo” dei fattori ESG, per selezionare le startup più performanti in termini di sostenibilità, realizzano exit migliori: il dato emerge da uno studio recente dello European Investment Fund.
Entro fine anno, la Commissione Europea emanerà gli atti delegati sulla “tassonomia verde”, che indicheranno a imprese e investitori quali attività economiche avranno minor impatto negativo sull’ambiente. La “transizione verde” comporta una fase di forte stimolo a conformarsi a criteri e standard internazionali, volti ad omogeneizzare secondo specifici paradigmi valoriali lo standing delle società, dei valori mobiliari, dei fondi di investimento.
L’introduzione dei fattori ESG (Environment, Social, Governance), è espressione di questo cambio culturale, finalizzato a riconoscere il valore di una realtà organizzata misurabile non solo sulle sue performance economico-finanziarie ma anche sulla capacità di riconoscere ed applicare internamente dei parametri in principio solo reputazionali, espressione della sostenibilità.
Finanza sostenibile, lo stato dell’arte in Italia: ostacoli e margini di miglioramento
Si sta affermando una nuova concezione del ruolo dell’impresa nella società: un più ampio riconoscimento delle sue responsabilità “etiche” (es. la corporate social responsibility). L’adesione ai criteri ESG conferisce pertanto uno status nei confronti della business community, dei clienti, dei fornitori, degli stakeholders in generale, dal quale si evince la volontà dell’organizzazione di rendere coerenti e “virtuose” una serie di scelte di breve e di lungo periodo.
La moral suasion esercitata a tutti i livelli e volta ad adottare standard accomunati dalla medesima base volontaristica, spinge le imprese a rivedere i propri comportamenti e di conseguenza anche i rapporti con tutta la filiera, operando una riorganizzazione della struttura che sia omogenea e coerente.
Va sottolineato che dietro il termine sostenibilità possono nascondersi insidie ideologiche che meritano un cenno. Chi scrive ritiene infatti che il termine non debba confondersi con il facile e urlato ecologismo ideologico, critico e disfattista di chi cavalca un’idea di ambientalismo che ha le proprie radici nel ’68 e si fonda su una visione anti-imprese, anti-crescita (la cd. decrescita (in)felice) e non tiene conto delle esigenze sociali ed economiche delle persone.
Al contrario, uno sviluppo realmente sostenibile non può prescindere, naturalmente supportato da innovazione e investimenti, da un capitale umano con visione e condotta orientate a un fine e un bene comune.
È pertanto di assoluta evidenza come sia fondamentale la visione culturale che ispirerà il nuovo modello di sviluppo che ci accompagnerà nei prossimi decenni.
Gli ESG nei criteri di selezione degli investimenti
Il ruolo dei business angel (o BA) è particolarmente di rilievo in questo contesto su un piano strategico, giacché il loro intervento sulle società target avviene in un periodo critico per lo startupper, quello cioè dell’avviamento o del “primo sviluppo”.
Non dimentichiamo che il BA è un investitore privato, tipicamente una persona fisica che investe parte del proprio patrimonio personale apportando capitale di rischio in piccole imprese nella fase appunto iniziale. Egli non apporta solo risorse finanziarie, ma offre un costante supporto strategico e manageriale, coadiuvando lo startupper nella definizione del piano strategico e di marketing, nelle attività di recruiting in ordine alla struttura organizzativa e nella consulenza operativa delle attività a maggior rilevanza economica.
Da parte sua, il BA cerca tipicamente un valido progetto di sviluppo, uno startupper affidabile, una società target trasparente e un buon capital gain a seguito del disinvestimento. Il BA chiede pertanto – oltre a condizioni contrattuali convenienti – un buon reporting, informazioni chiare e veritiere.
Ma come impatta questo nuovo modello di sostenibilità sulla politica di investimento di un BA?
Come dimostrato da uno studio condotto recentemente dall’EIF[1] i fattori ESG sono ancora bassi nella gerarchia dei criteri di selezione degli investimenti, ma in crescita. Risulta poi che quanto più è maturo lo stadio dell’investimento (seed, early, o growth) tanto più è alto il grado di integrazione di fattori ESG da parte della società target. È nei business più maturi che intervengono i venture capitalist (o VC), che in quanto soggetti strutturati (fondi d’investimento, banche, investitori istituzionali) hanno a loro volta maggiori risorse e struttura per sviluppare una policy ESG e fare uno screening accurato.
Cosa cercano gli investitori, cosa ottengono da una buona due diligence
Nello studio comparatistico condotto dall’EIF sul diverso atteggiamento dei BA da una parte e dei VC’s dall’altra, emerge la generale difficoltà per i BA nell’ottenere informazioni e dati sui fattori ESG adottati dalla società target. È facilmente intuibile il maggior sforzo che il BA dovrà fare nell’interlocuzione con uno startupper che può non avere i mezzi per essere del tutto compliant con i criteri di sostenibilità fin dalla costituzione della startup, o più banalmente può ignorare le linee di condotta ESG.
Risulta poi che l’impatto finanziario di un investimento ESG sia maggiormente tenuto in considerazione dai VC, mentre i BA sarebbero molto più motivati dalla volontà di ottenere un riconoscimento positivo dalla società grazie all’investimento.
Quest’ultimo aspetto spiega alcuni dati di grande interesse rinvenibili nello studio. Partendo dalla premessa che i BA così come i VC si servono dei criteri ESG per fare una valutazione di sostenibilità del proprio investimento (valutazione che naturalmente si accompagnerà all’usuale esercizio di due diligence legale, contabile, fiscale, etc.), occorre qui distinguere due diverse strategie di valutazione.
Il negative screening, maggiormente utilizzato dai VC, è finalizzato a individuare quell’investimento che possa mitigare il rischio legato alla possibile violazione di principi ESG, mentre il positive screening individua e seleziona quelle società target più performanti in ambito ESG in ragione di una maggior conformità ai diversi fattori.
Il negative screening ha una portata più ampia, dal momento che si limita ad eliminare dal novero dei possibili investimenti quelle target più a rischio violazione dei principi ESG. Ebbene, nelle maglie più larghe del negative screening si muovono con maggior dimestichezza i VC, mentre al contrario i BA – soprattutto quelli con un background professionale di tech-engineering – risultano avere una sorprendente preferenza verso il positive screening come portfolio tool.
Un ulteriore dato molto importante offertoci dall’EIF è quello dell’impatto delle suddette strategie di valutazione (positive o negative) sul ROI (return on investment) nel momento in cui il BA decide di disinvestire e dunque cedere la propria partecipazione.
Secondo un campione rilevante di exit effettuate da BA all’interno dell’UE, a seguito di un positive screening condotto dal BA prima dell’investimento il 44% dei BA avrebbe ottenuto effetti che vanno da leggermente a significativamente positivi; per il 50% l’exit sarebbe stata neutrale, mentre solo per il 6% avrebbe avuto effetti leggermente negativi. Il negative screening avrebbe sortito invece effetti meno benefici: solo il 27% dei BA avrebbe effettuato una exit positiva, per il 58% sarebbe stata neutrale, per il 15% avrebbe avuto un ROI negativo.
Fermo restando che i dati meritano un’analisi accurata e che il risultato dell’exit qualificato come “neutrale” andrebbe debitamente interpretato caso per caso, si può tuttavia constatare come una due diligence minuziosa che si serva di un positive screening per individuare una target ESG compliant risulti alla fine premiale per il BA.
La difficoltà di ottenere informazioni e dati sui fattori ESG da una parte e il loro impatto determinante nel contribuire a realizzare exit di successo ha spinto IBAN, l’Associazione italiana dei Business Angels, insieme allo Studio Legale 3D Legal DANDRIA, a organizzare un percorso di formazione dedicato ai fattori ESG e ai criteri di valutazione che i BA possono adottare per scegliere le startup più virtuose.
ESG: come le buone pratiche rendono attraenti le startup
L’assessment di sostenibilità è certamente un maggior onere per il BA, perché comporta maggiori costi di due diligence e richiede il supporto dei consulenti per effettuare una valutazione delle cd. aree di analisi ESG della società target (governance, condizione lavoratori, impatto su stakeholders, ambiente).
La considerazione del BA verso lo screening come voce di costo piuttosto che come investimento (con un diverso impatto sul conto economico) può senz’altro dirigere la scelta dell’investimento in una direzione o nell’altra.
Per ovviare a questo maggior onere per il BA, occorre responsabilizzare lo startupper affinché fin dalla costituzione attui buone pratiche ESG, in modo trasparente e responsabile oltre che intelligente.
Le piccole e medie imprese invece, più strutturate e con una organizzazione più articolata, hanno la possibilità di creare dei presidi interni per un assessment costante e puntuale. Aldilà della presenza di “codici etici” – peraltro di discutibilissima efficacia – conta una buona gestione e procedure chiare e funzionanti.
Inoltre, una gestione virtuosa della società target da una parte e un positive screening da parte del BA dall’altra eliminano alla radice il rischio di green washing (l’appropriazione indebita di “virtù ambientaliste” finalizzata alla creazione di un’immagine verde).
Non solo: la gestione virtuosa e una buona due diligence creano maggior valore al momento dell’ingresso del BA, ma anche le condizioni per un’exit appetibile negli anni successivi. A quel punto infatti, il fondo d’investimento, la banca o il VC avranno a disposizione un pacchetto “chiavi in mano” che sarà conforme ai fattori ESG, già inserito in una supply chain armonizzata, e quindi decisamente sexy per il mercato.
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- European Investment Fund, Working Paper 2020/63, https://www.eif.org/news_centre/publications/EIF_Working_Paper_2020_63.htm ↑