La transizione ecologica ed energetica ha fame di terre rare, i 17 elementi chimici della tavola periodica necessari per la produzione di auto elettriche e impianti fotovoltaici.
Ma l’estrazione di terre rare, che avviene con metodi inquinanti, ha un impatto sui territori ed effetti devastanti sulla biodiversità e sulle comunità locali, oltre a ricadute significative in ambito geopolitico.
Da un lato le terre rare sono le “vitamine” della transizione ecologica, grazie alla miriade di dispositivi in cui trovano applicazione strategica, grazie alle loro caratteristiche di duttilità e malleabilità, versatilità e magnetismo stabile; dall’altro sono complicate, sia da estrarre che da gestire sul fronte della supply chain.
Sono strategiche (dei 14 materiali classificati critici, secondo la definizione del dipartimento dell’Energia statunitense, non è un caso che nove siano lantanoidi), ma, secondo la definizione del presidente a vita cinese Xi Jinping, sono l’oro della Cina (come il petrolio è l’oro nero del Medio Oriente). Ecco quali soluzioni propongono gli esperti, sia per evitare una guerra fredda delle materie prime strategiche che per rendere più sostenibile la transizione ecologica.
Transizione ecologica e terre rare: l’impatto su comunità locali e ambiente
Senza terre rare non esisterebbe transizione ecologica o digitale. Le terre rare (e una lista di 35 minerali critici nel 2021 saliti oggi a 50, secondo gli USA) trovano impiego negli smartphone, a bordo delle auto ibride e nei motori elettrici, nei laser, nei cavi di fibra ottica, e naturalmente negli impianti eolici e fotovoltaici, solo per citare alcune delle killer application della transizione ecologica e digitale.
Per esempio, le auto elettriche richiedono sei volte i minerali e i metalli rispetto ai motori tradizionali. Le turbine 30 volte di più. Significa che la domanda di terre rare e metalli critici è destinata ad aumentare da 3 a 7 volte entro il 2040.
Si chiamano terre rare, ma non sono neanche così rare; tuttavia è raro trovarle in una concentrazione tale da supportare un’estrazione profittevole per le aziende minerarie. E la Cina ne detiene, di fatto, il monopolio. Le terre rare si trovano comunque in abbondanza negli Stati Uniti, Vietnam, Brasile, Russia, Australia, oltre ai depositi del prezioso disprosio in Cina.
Le terre rare sono dunque abbondanti, ma ciò che è davvero difficile è separarle: il processo estrattivo richiede l’uso di elevate temperature e sistemi di estrazioni molto aggressivi, ad altissimo impatto ambientale.
Il paradosso delle terre rare
Per le loro caratteristiche intrinseche (metodi estrattivi inquinanti e monopolio cinese), le terre rare stanno diventando lo sporco segreto della transizione ecologica e della sua catena di fornitura. L’estrazione delle terre rare, infatti, ha un impatto devastante sull’ambiente e riduce la qualità della vita della comunità locali.
Inoltre l’estrazione di metalli critici in Cina, come quella del cobalto nella Repubblica democratica del Congo (che controlla dal 60 al 70 per cento della filiera del cobalto, ed è uno dei Paesi più inquinati del mondo), del Litio in America Latina (in Cile si registrano livelli di inquinamento altissimi) stanno provocando nuove problematiche di natura ambientale, innescando una forte opposizione e resistenza da parte delle popolazioni locali.
Il paradosso è che coloro che supportano la transizione ecologica sono i maggiori oppositori delle attività estrattive di minerali critici a causa del loro impatto ambientale. Contaminazione da metalli pesanti, erosione del suolo, inquinamento del ruolo e delle risorse idriche sono fra le maggiori problematiche riscontrate con la supply chain delle terre rare.
La Geopolitica delle terre rare
La Cina ha iniziato a usare il suo monopolio nelle terre rare come arma negoziale e geopolitica, la prima volta contro il Giappone, quando giunse al blocco delle esportazioni a cui seguì un forte rialzo dei prezzi.
Pechino ha saputo intrecciare un’intricata rete di merger, acquisizioni e investimenti strategici attraverso l’utilizzo di State-owned enterprises (SOEs) e società private in Paesi con enormi risorse minerarie e al contempo ad elevate rischio, in modo da consolidare il proprio monopolio di terre e metalli critici. Solo di cobalto, elemento essenziale delle batterie elettriche, la cui produzione sfiorerà le 90mila tonnellate entro il 2030, è in mano alla Cina, che detiene l’80% della processazione internazionale e oggi produce oltre tremila tonnellate.
Nel post-pandemia, il tema dell’indipendenza delle risorse è riemerso ancora più forte di prima. Entro il 2050, l’UN Environment Programme (UNEP) prevede che la transizione ecologica alle energie rinnovabili supererà la soglia dei 600 milioni di tonnellate di metalli rari estratti.
Le contraddizioni legate alle terre rare: il fattore geopolitica
“All’inizio del decennio scorso, la Cina estraeva il 98% circa delle terre rare, oggi questa cifra si è quasi dimezzata. Ciò è avvenuto a causa della consapevolezza che è un’industria dannosa per l’ambiente e la salute delle comunità locali”, commenta Guido Alberto Casanova, assistente alla Ricerca dell’Ispi, laureato in Scienze diplomatiche e internazionali (Sid) dell’Università di Trieste e Msc in Politiche asiatiche, conseguito alla School of Oriental and African Studies of London, “i dati provenienti dalla miniera di Bayan Obo in Cina parlano chiaro: i rifiuti tossici rilasciati nelle risorse idriche hanno causato cancro al polmone, una patologia in aumento a doppia cifra a causa delle polveri, frutto dell’esplosione dei metalli, per estrarre le terre rare”.
Infatti, i 17 elementi chimici, di cui 15 del gruppo dei lantanoidi più i metalli di transizione ittrio e scandio che godono di affinità chimico-fisica con le terre rare, si caratterizzano per la solubilità nei minerali che fa sì che si trovino in composti rocciosi del mantello terrestre o in depositi minerari della crosta terrestre, spesso insieme a materiale radioattivo. L’estrazione e la separazione sono processi dannosi per l’ambiente.
“L’estrazione delle terre rare”, continua Casanova “è dunque un processo che causa problemi di salute pubblica e salubrità ambientale. Negli anni ’70-’80 questa industria è migrata dagli Stati Uniti, all’epoca i più grandi produttori di terre rare, a causa dell’adozione di legislazioni più stringenti sull’ambiente, emanate da Nixon in seguito a casi di inquinamento radioattivo. Le terre rare hanno da sempre una cattiva nomea: nell’ultimo decennio anche la Cina ha iniziato questo processo contro i reati ambientali, già avviato ormai quarant’anni fa negli Usa”.
Il ruolo della Cina e il fenomeno del reshoring
“La Cina ha avviato una delocalizzazione della propria produzione di terre rare attraverso imprese che operano all’estero“, mette in evidenza l’esperto dell’Ispi, “grazie a investimenti in Australia, in Groenlandia eccetera. Sempre di più i governi stanno aprendo gli occhi sui danni ambientali causati dall’industria delle terre rare, con ricadute negative sulle comunità locali e stanno prendendo l’iniziativa.
Dal punto di vista geopolitico, Stati Uniti e Paesi occidentali vorrebbero ricostruire una supply chain, riportando “in casa” la filiera dell’industria delle terre rare. Ma non è facile, perché il re-shoring comporterebbe la creazione di standard di produzione elevatissimi che superino gli impatti negativi di questo processo estrattivo (ma azzerare il rischio sembra impossibile): in Texas le comunità locali si sono unite contro una multinazionale australiana, temendo alti tassi di inquinamento”.
Dunque, “da un lato, c’è il tema del riportare le produzioni in casa, anche per creare posti di lavori e per venire incontro a questioni di geopolitica; dall’altro, c’è l’opposizione delle comunità locali contro filiere produttive altamente inquinanti, seppur necessarie“, mette in guardia Casanova. Sono questi i paradossi della transizione ecologica.
Soluzioni per un’industria più sostenibile
In realtà ci sono prove tecniche di nuovi approcci di produzioni più sostenibili di terre rare, “limitando le scorie radioattive, ma si tratta di investimenti ingenti”, continua il ricercatore dell’Ispi, “in cui le multinazionali che se ne occupano hanno lavorato per lo più in perdita, sussidiate da governi centrali per evitare i fallimenti. In realtà, la necessità di terre rare sta esplodendo con la transizione ecologica, la domanda in aumento di tecnologia durante la pandemia e di motori elettrici e ibridi.
Nel post-pandemia, infatti, è esploso il prezzo delle materie prime, in alcuni casi i prezzi sono raddoppiati, ma la Cina è intervenuta, sfruttando il suo potere e il monopolio di mercato, aumentando le quote per stabilizzare i prezzi.
La soluzione più efficace per affrontare queste problematiche consiste nell’investire in ricerca e sviluppo: chi investirà di più in R&D, avrà maggiore opportunità di trovare il giusto equilibrio fra transizione verde, salute delle popolazioni locali e sostenibilità ambientale, coniugando la nostra fame di terre rare con la salvaguardia dell’ambiente e delle comunità locali. Servirà naturalmente un contributo dei governi centrali, attraverso finanziamenti imponenti perché sono ricerche costose”.
Il ruolo dell’Europa
Finora abbiamo parlato di Usa e Cina, ma la è anche l’Europa a nutrire un fortissimo interesse per le materie prime, per alimentare la transizione ecologica nel Vecchio continente: “La Commissione europea”, commenta Luigi Di Marco, segretario AsVis (Alleanza Italiana per lo sviluppo sostenibile), “ha adottato nel settembre 2020 un piano d’azione per le materie prime critiche, usate nella transizione ecologica, in particolare nel fotovoltaico e nell’eolico”.
“Il rialzo della domanda”, continua Di Marco, “rispetto a una disponibilità limitata delle terre rare sta creando un collo di bottiglia, in cui s’innestano problemi come il fattore geopolitico e il rischio delle speculazioni finanziarie. In questo contesto portare avanti il piano d’azione che la Commissione europea aveva introdotto nel 2020 è ormai un’urgenza non più rinviabile: il tema delle materie prime in generale e dei mercati dovrebbero essere la priorità delle politiche economiche europee.
Dal punto di vista geopolitico, è importante il ruolo della diplomazia internazionale che deve lavorare sul tema della pace del mondo, uno degli obiettivi principali dell’Agenda Onu 2030: bisognerebbe passare dalle guerre commerciali alla pace commerciale, facendo fronte comune rispetto al fatto che tutti i Paesi, Russia e Cina compresi, hanno sottoscritto l’Agenda Onu 2030. Inoltre, sarebbe necessario uno sforzo creativo per stabilire regole per la finanza per neutralizzare i fenomeni speculativi che altrimenti potrebbero ostacolare la transizione verde e digitale. La necessità di regolamentare la finanza è ormai inderogabile, anche perché stiamo vedendo, in assenza di paletti, come è la finanza a dettare regole alla politica: ma ciò non è accettabile perché impedisce di risolvere i problemi, mentre ne stanno emergendo di nuovi”.
Puntare su riuso e riciclo
Mentre si cercano soluzione tecnologiche ai problemi emersi, “possiamo compiere sforzi per ridurre/frenare la domanda”, sottolinea Di Marco, “abbracciando il paradigma dell’economia circolare e del riuso, il diritto alla riparazione, e anche una maggiore sobrietà nelle strategie e nel consumo delle risorse. Ma invece di misurare solo il PIL, dovremmo cambiare gli indicatori di crescita, misurando anche il benessere.
Inoltre il piano d’azione europeo afferma che la transizione ecologica e digitale è necessaria, ma dobbiamo pensare a trovare nuovi materiali a pari prestazioni, utilizzando materie prime a più ampia disponibilità.
Purtroppo queste tematiche sono assenti nel PNRR: si parla di economia circolare e ricerca, ma in termini un po’ generici, invece sarebbe necessario in fase attuativa entrare più nello specifico per centrare questi obiettivi della transizione ecologica e digitale.
Nel 2007 ’Italia ha adottato una strategia nazionale di sviluppo sostenibile, ma che è rimasta inattuata: un documento finito nel cassetto. Ora con il PNRR speriamo di raddrizzare ciò che non va in corso d’opera e centrare gli obiettivi. Anche con la strategia digitale dobbiamo puntare su maggiore consapevolezza, capacità critiche, rispetto ambientale”. Le risorse europee ci sono, il resto tocca a noi.
Conclusioni
Non sappiamo se dopo le guerre per il petrolio, il mondo rischi una guerra per le terre rare e i metalli critici per la transizione ecologica e digitale. Tuttavia sappiamo che abbiamo bisogno di supply chain trasparenti, accessibili a livello universale e stabili, senza rischi ambientali e sociali, per poter operare in un contesto competitivo e governare la transizione energetica, senza subire contraccolpi e un’eccessiva volatilità dei prezzi.
Possiamo scommettere sul riuso e sul riciclo in maniera importante. Infatti, un’industria del riciclo e una robusta economia circolare potrebbero rendere più sostenibile le filiere, disinnescare le mine vaganti dell’industria delle terre rare e rendere più pacifica la transizione ecologica, raffreddando le tensioni geopolitiche fra le potenze globali.
Nel frattempo bisogna investire nello sviluppo di nuove tecnologie di estrazione, più sofisticate e sostenibili, soprattutto senza impatto negativo sugli ecosistemi, mentre si studiano e sviluppano tecnologie innovative per affrancarci dal ricorso a materie prime inquinanti per l’ambiente e dannose per le comunità locali.