l’analisi

Transizione energetica equa: chi paga il conto del cambiamento climatico?



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La transizione energetica richiede investimenti colossali, ma il costo dell’inazione sarà maggiore. Occorrono meccanismi equi per distribuire i costi tra paesi ricchi e poveri e tra classi sociali

Pubblicato il 26 mar 2025

Roberto Bonino

Volt Europa



green bond (1)

Non è possibile mettere un’etichetta su un uragano che dica ” Generato dal cambiamento climatico”. SI può invece calcolare le probabilità che il cambiamento climatico aumenti frequenza e gravità di eventi catastrofici. Ad esempio una recente ricerca ha concluso che “… il cambiamento climatico ha accresciuto la possibilità di disastri dovuti a incendi nelle aree esposte di Los Angeles“.

Si tratta di calcoli astratti, eccetto ovviamente per chi ha visto la propria casa andare in fumo, ed è facile affermare che incendi e disastri meteorologici ci sono sempre stati. L’atteggiamento di chi nega l’urgenza della crisi climatica fa pensare alla storia della rana che, se messa in una pentola d’acqua bollente scappa via ma, se messa in una pentola in acqua fredda, riscaldata lentamente, rimane tranquilla fino a morire cotta.

Chi paga le conseguenze del cambiamento climatico

In realtà, anche se siamo tutti sullo stesso pianeta, non siamo tutti esattamente nella stessa pentola. Possiamo ad esempio usare il simulatore En-Roads, il gemello digitale del pianeta, per visualizzare gli effetti del cambiamento climatico sui rendimenti agricoli. La figura qui sotto, mostra la diminuzione percentuale globale a fine secolo della resa dei raccolti di varie culture, in nero se si lascia salire la temperatura di 3°C rispetto alla media pre-industriale e in blu se si limita l’aumento a 1,5°C ( corrispondente alle temperature che stiamo per raggiungere) e il trattino verticale la situazione attuale.

En-ROADS ci mostra l’impatto globale, ma gli effetti varieranno molto da paese a paese. In alcune zone nordiche, come Russia o Canada , l’effetto di temperature più miti ed un aumento del CO2 nell’atmosfera potrebbero determinare rendimenti agricoli più abbondanti.

Per quel che riguarda l’Unione Europea, uno studio ha concluso che anche se i rendimenti tenderanno a scendere, fattori di mercato dovuti al fatto che il resto del mondo subirà effetti peggiori, dovrebbero compensare l’impatto commerciale.

Gli effetti saranno particolarmente gravi invece in una zona che va dal Sudamerica attraversa l’Africa e si spinge fino all’Asia centrale. Se guardiamo la cartina FAO della fame nel mondo notiamo che l’area della malnutrizione si sovrappone a quella che subirà pesanti perdite dei rendimenti agricoli. Chiaramente non sono questi i paesi che hanno contribuito di più alle emissioni di gas a effetto serra. E qui emerge un dato ricorrente : chi pagherà di più le conseguenze del cambiamento climatico, non sono i responsabili.

Rischi geopolitici del cambiamento climatico

In quanto Europei, potremmo tirare un sospiro di sollievo pensando che, almeno per quel che riguarda l’agricoltura, non ce la caveremo troppo male. Tuttavia gli effetti del cambiamento climatico rischiano di destabilizzare definitivamente decine di paesi, scatenando crisi politiche sociali, e militari.

Infatti se prendiamo la cartina degli stati fragili, cioè ad alto rischio di collasso sociale , economico e politico, vediamo che in gran parte sono proprio quelli colpiti sia dalla malnutrizione che dal crollo dei rendimenti agricoli. Gli effetti sugli equilibri geopolitici, il terrorismo e le migrazioni rischiano di essere pesanti non solo per chi dovrà viverli in prima persona ma anche per noi europei

Discorsi simili si potrebbero fare per quel che riguarda l’aumento del livello del mare, gli incendi, la perdita della biodiversità e altro ancora. Tutti effetti che si possono esplorare con En-ROADS. La domanda che ci poniamo oggi è : quanto vale la pena spendere adesso per evitare gravi rischi futuri? Si tratta di ragionamenti complicati, ma per fortuna esiste una professione che fa proprio questi calcoli. Sono gli attuari : sono loro ad esempio che calcolano il valore delle polizze delle nostre assicurazioni.

La Facoltà degli attuari britannica, assieme all’università di Exeter, ha recentemente pubblicato una ricerca sul tema della gestione dei rischi legati al cambiamento climatico. Uno degli elementi presi in considerazione è l’impatto del cambiamento climatico sul Prodotto Mondiale Lordo. Il Network of Central Banks and Supervisors for Greening the Financial System (NGFS) stima infatti che nel 2050 l’economia mondiale potrebbe perdere il 15% del suo valore a causa del cambiamento climatico .

Il costo della mancata transizione energetica

La figura qui sotto mostra la perdita annua dell’economia mondiale secondo En-ROADS, il nostro gemello digitale del pianeta espressa in trilioni di dollari ( con un trilione uguale a mille miliardi). Se non si prendono misure concrete, entro il 2050 l’economia mondiale rischia perdite dell’ordine di decine di migliaia di miliardi di dollari, un valore superiore alla produzione dell’economia USA odierna.

L’investimento necessario per la transizione energetica

Quanto dovremmo spendere per evitare questo rischio? Il rapporto dell’AIE “Net Zero by 2050” indica che per raggiungere emissioni nette zero a livello globale entro il 2050, gli investimenti annuali in energia pulita in tutto il mondo devono salire a circa 5.000 miliardi di dollari. Secondo il rapporto dell’AIE, “Financing Clean Energy Transitions in Emerging and Developing Economies”, gli investimenti annuali in energia pulita nelle economie emergenti devono arrivare a oltre 1.000 miliardi di dollari entro il 2030.

Nel loro studio, gli attuari britannici vanno molto più a fondo nell’analisi, utilizzando le tecniche di gestione del rischio adottate per le grandi imprese o per gestire le migliaia di miliardi di dollari dei sistemi pensionistici mondiali. Il loro approccio si basa sulla semplice constatazione che il sistema “umanità” conta sul sistema “natura” per servizi essenziali e non sostituibili come disponibilità di acqua, cibo, aria respirabile e una temperatura vivibile. Mettono così in luce che stiamo globalmente accettando livelli di rischio che, nella loro pratica professionale, raccomanderebbero di ridurre con la più grande urgenza. Introducono quindi il concetto di insolvenza planetaria, definito come la possibilità di incorrere in una catastrofe sociale globale a causa della perdita dei sistemi di supporto critici forniti dalla natura. Gli autori mostrano che l’esposizione attuale al rischio di insolvenza planetario è eccessiva e, in assenza di azioni molto più concrete di quelle messe attualmente in atto, finirà per raggiungere livelli inaccettabili.

La conclusione degli Attuari britannici insomma è che, anche se i costi della transizione energetica sono astronomici, l’investimento è ampiamente giustificato perché eviterebbe perdite economiche ben più importanti e ci proteggerebbe da rischi reali di collasso economico e sociale.

La responsabilità dei paesi ricchi

Uno dei problemi però è che gran parte delle emissioni future verranno dai paesi in via di sviluppo, che non dispongono dei mezzi finanziari per promuovere una crescita economica a emissioni basse o nulle. In altre parole, i paesi ricchi, responsabili della grande maggioranza delle emissioni storiche, hanno una scelta : mettere la mano al portafoglio per finanziare la transizione energetica dei paesi emergenti, oppure lasciare andare avanti le cose, adattarsi a vivere in un pianeta sostanzialmente più povero e convivere con il rischio di insolvenza planetaria.

COP 29 i grandi del mondo snobbano il futuro del clima

La Cop 29 di Baku del novembre 2024 è stata annunciata come la COP della finanza e soprattutto dell’impegno dei paesi ricchi di aiutare concretamente quelli più poveri ad attraversare le difficoltà della transizione energetica (UNEP 2024). Forse è per questo che i massimi dirigenti dei paesi più ricchi, dagli USA all’Unione Europea, hanno tenuto un profilo particolarmente basso e non si sono nemmeno fatti vedere.

La pietra angolare degli accordi emersi dalla COP 29 è un finanziamento di almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035, che sostituisce il precedente obiettivo di 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 e fino al 2025. Sebbene l’impegno annuo sia il triplo del precedente, resta ben lungi dall’essere sufficiente a soddisfare le esigenze complessive dei Paesi in via di sviluppo.

Il paradosso delle sovvenzioni ai combustibili fossili

Migliaia di miliardi all’anno sembra una cifra astronomica, eppure cifre di questo ordine sono impiegate ogni anno proprio per sovvenzionare l’uso dei combustibili fossili. Secondo l’IEA nel 2023, i governi – soprattutto nelle economie emergenti e in via di sviluppo – hanno continuato a sovvenzionare pesantemente l’uso dei combustibili fossili, spendendo 620 miliardi di dollari.

Questo importo è significativamente superiore ai 70 miliardi di dollari spesi per sostenere gli investimenti in energia pulita rivolti ai consumatori, tra cui sovvenzioni o sconti per veicoli elettrici, miglioramenti dell’efficienza o pompe di calore. Secondo un calcolo dell’IMF , tenendo conto dei costi impliciti, ad esempio quelli sanitari causati dall’inquinamento generato dai combustibili fossili, si è arrivati nel 2023 addirittura a una cifra globale di 7000 miliardi dollari.

Il problema non è banale, perché siamo tutti dipendenti dall’uso dei combustibili fossili e questi sussidi hanno un importante impatto sociale: abolirli da un giorno all’altro sarebbe drammatico per molti. Il movimento dei Gilet Gialli in Francia nel 2018 ha dimostrato quanto sia delicato, dal punto di vista sociale, andare a toccare il costo dell’energia. Alla COP 29 era previsto arrivare a un accordo almeno per limitare i sussidi più inefficaci. Malgrado gli impegni e l’esistenza di un gruppo di lavoro dedicato, la questione è stata rinviata a future discussioni.

Sembra sorprendente che le conclusioni della COP 29 siano state così timide sia nell’impegno ad aiutare i paesi più poveri che negli sforzi a limitare il supporto mondiale ai combustibili fossili. Forse una spiegazione sta nel fatto che a Baku erano presenti 2456 rappresentanti dell’industria dei combustibili fossili, contro poco più di mille per l’insieme dei 10 paesi più fragili.

La tassa sul carbonio come soluzione

Il modo migliore, forse l’unico, per stimolare l’abbandono dei combustibili fossili è l’adozione di una tassa sul carbonio sufficientemente elevata per orientare le scelte energetiche di tutti gli operatori del settore. Nello scenario Net Zero, l’IEA prevede una tassa di 250$ per tonnellata. Se questa soluzione sembra inevitabile, le implicazioni sociali sono inquietanti. La figura qui sotto mostra la proiezione del costo medio dell’energia dovuta all’introduzione di una tassa sul carbonio di 250$/tonnellata a partire dal 2035, realizzata con En-ROADS : il costo dell’energia potrebbe raddoppiare e rimanere elevato per decenni.

Per rendere socialmente accettabile la tassazione del carbonio il climatologo James Hansen ha proposto nel 2019 alla camera dei rappresentanti USA l’introduzione di un sistema di “tassa e dividendi”. Il meccanismo prevede l’imposizione di una tassa sul contenuto di carbonio dei combustibili fossili al punto di estrazione o di importazione (ad esempio, al pozzo, alla miniera o al porto di ingresso). I proventi raccolti vengono poi distribuiti equamente a tutti i residenti legali sotto forma di dividendo mensile. Restituendo l’intero ricavato della tassa ai cittadini, si garantisce che la politica non sia regressiva; anzi, studi hanno dimostrato che la maggior parte delle famiglie a basso e medio reddito riceverebbe più dal dividendo di quanto pagherebbe in costi energetici aumentati. L’idea è stata sottoscritta da migliaia di economisti tra cui 28 premi Nobel e 4 ex presidenti della riserva federale USA.

Conclusioni

Insomma, le strade per una transizione giusta ci sarebbero, ma sono costose per i paesi ricchi e socialmente delicate da percorrere. A livello di equità tra le grandi regioni geopolitiche del mondo, si tratta di aiutare concretamene i paesi fragili ad affrontare i costi della transizione, con il beneficio non trascurabile di evitare l’insolvenza plantearia risulti nel collasso dell’economia mondiale.

A livello sociale, si tratta di mettere in funzione meccanismi trasparenti, come ad esempio quello della “tassa e dividendi”, per fare sì che gli inevitabili costi siano ripartiti in maniera da non penalizzare le classi meno abbienti. A livello generazionale bisogna rendersi conto che l’inazione di oggi ricadrà sui nostri figli e nipoti a cui lasceremo in eredità un debito crescente e colossale per ripristinare i servizi vitali che l’umanità riceve dal sistema “natura”.

Per il momento la temperatura sale senza che ci siano risposte all’altezza della situazione. Non è chiaro se la storia della rana che si lascia cuocere nella pentola scaldata piano piano sia vera per le rane. Purtroppo sembra avverarsi per la società umana.

Bibliografia

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