il commento

Benvenuto Fondo nazionale innovazione, ma ora non fermiamoci

Il Fondo nazionale innovazione ha ufficializzato la strategia. L’Italia finalmente spinge verso una cultura evoluta del venture capital, per attirare operatori competitivi a livello internazionale. Lo Stato però non creda di aver finito: la dotazione miliardaria, tra l’altro, andrebbe almeno quintuplicata

Pubblicato il 26 Giu 2020

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

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Pochi giorni fa la conferenza stampa ufficiale di Fondo Nazionale Innovazione (FNI) ha finalmente presentato e ufficializzato la strategia ed il posizionamento di questo soggetto, fino ad ora oscuro a chi non fosse un addetto ai lavori, che intende essere il braccio armato del Paese per lo sviluppo dell’industria italiana del Venture Capital, sotto l’egida di Cassa Depositi e Prestiti.

La natura vera del Fondo

La genesi di FNI è leggibile in modo diverso a seconda dell’angolo di osservazione: è stata lenta e travagliata per i tempi dell’economia dell’innovazione, che è un settore velocissimo, ma è stata eccezionalmente veloce per lo Stato e la politica, ambito che normalmente tra una decisione politica e la sua effettiva operatività può richiedere svariati anni. Il non comprendere la natura di questo soggetto ha fatto borbottare quei troppi, in questi ultimi mesi, che si lamentavano per la presunta inefficacia ed inattività di un’organizzazione che invece stava lavorando sotto traccia con un ritmo di lavoro impressionante, sia organizzando la propria struttura operativa che nel frattempo predisponendo la sua operatività intessendo una rete di partner, e perfino iniziando a mettere a terra investimenti prima ancora di presentarsi al mondo, fatto questo altamente meritorio in un periodo storico in cui moltissimi vivono nella propensione ad annunciare cose che sono lungi da venire.

Non ripeterò qui la descrizione dell’operatività di FNI: la sua struttura a sette fondi è stata ben esposta dagli interventi del suo energico ed entusiasta Amministratore Delegato Enrico Resmini, nonché dall’Amministratore Delegato della capogruppo CDP Fabrizio Palermo, che hanno brillantemente dato la misura dell’ambizione di questo strumento. Ambizione che rispecchia in termini di esecuzione quella mostrata – finalmente! – dalla politica fin dall’avvio di questa legislatura, e che fa cambiare la dimensione e la qualità dell’output nella partita che l’Italia può andare a giocare internazionalmente.

Il nostro problema: la cultura del venture investing

Ho sempre sostenuto, infatti, che il problema dello scarso successo delle startup italiane non risiedesse nelle capacità imprenditoriali e nel talento dei nuovi imprenditori, ma nella cultura del venture investing diffusa tra quei millantati stakeholder che – nella maggior parte – fino ad oggi hanno presidiato la narrativa raccontando di essere gli abilitatori della scena nazionale, quando nella realtà ne hanno costituito il principale freno scegliendo di adeguarsi opportunisticamente alla avversione al rischio ed all’idea dominante di impresa che nel paese è radicata nei modelli tradizionali.

Pochissimi operatori di filiera, nel decennio passato, hanno scelto la via corretta ma difficile di operare nel paese seguendo le metodologie internazionali del venture business, e quindi educando, mentre la quasi totalità – magari anche avendo le competenze, ma spesso senza – ha scelto di semplicemente appropriarsi di termini a fini di comunicazione mutuandoli dal settore ma appiccicandoli al di sopra di nuove imprese con orizzonte da PMI e a modelli di investimento più definibili come del private equity di piccolo taglio.

La scena è quindi letteralmente invasa da commercialisti che si spacciano per business angel, da società di consulenza e vendita di servizi che si spacciano per incubatori, da incubatori che si presentano come acceleratori, da investitori che parlano di seed e venture capital senza conoscere le metriche e gli stage di queste classi di investimento, e da troppi gestori di fondi privi qualsiasi competenza tecnologica che pertanto non sanno identificare le innovazioni di valore. Questa presunta filiera, fatta di relazioni in cui ci si scambia endorsement gli uni con gli altri, in cui si spacciano per grandi successi delle “exit” con IRR a singola cifra, in cui gli imprenditori vengono intrappolati in contratti di investimento con condizioni che definire vessatorie è poco e su cui vigono stringentissimi obblighi di riservatezza (forse per la vergogna…), sulle startup ha l’effetto di trasformare l’ecosistema italiano in un attraversamento di una palude che i migliori decidono di non affrontare, facendone rivolgere gran parte all’estero fin dai primi passi. Tutto questo ovviamente va al di là di mie opinioni personali ed è riscontrabile sia nelle esperienze di tutti i founder italiani espatriati come di quelli che essendo ancora legati a tali investitori non possono che tacere per non subire ritorsioni, e sempre “salvo eccezioni” – che pure esistono e la cui eccezionalità è testimoniata dalle consolidate relazioni internazionali che alcuni operatori possono mostrare in contrapposizione all’autoreferenzialità degli altri.

Perché l’entrata del Fondo nazionale innovazione rompe con i mali italiani

L’entrata in campo di FNI può costituire finalmente, quindi, il punto di rottura con questo ecosistema “all’italiana” che per anni ci ha fatto essere una “startup nation” solo nello storytelling fatto dai talk degli eventi, dai comunicati stampa e dai titoli dei giornali.

Molti operatori hanno commentato la nascita di FNI facendo trasparire contentezza per l’avere finalmente un fondo cassa a cui attingere per continuare a fare i gestori di finanza d’impresa attraverso il suo capitolo di Fondo di Fondi, e nascondendo malamente il fastidio per l’attività di investimento diretto che questa organizzazione intende perseguire, che farebbe loro concorrenza.

Fortunatamente in ogni mercato oligopolistico è sempre stata l’introduzione della concorrenza ad alzare la qualità e la missione reale di FNI, ben leggibile dalle parole spese nella conferenza stampa, sembra essere quella di “market maker”, cioè di costruttore di una industria del venture capital virtuosa e competitiva, non vedendo la propria attività di investimento diretto come un fastidio collaterale ma come la mission centrale ed immediatamente più rilevante per colmare il fallimento di mercato e frenare l’esodo dei talenti italiani – anzi auspicabilmente invertendo la tendenza – e vedendo il Fondo di Fondi principalmente come abilitatore di nuovi operatori di Venture Capital, fatti da persone con competenze internazionali di cui il Paese ha drammaticamente bisogno, auspicabilmente attraendoli dall’estero esattamente come si fece in Israele negli anni ’90 quando nacque il fondo Yozma che per l’appunto forniva dotazione esclusivamente a nuovi fondi israeliani e a condizione che vi fosse presente almeno un partner con esperienza estera comprovata in fondi performanti.

L’Italia ha urgente e drammatico bisogno di posizionarsi su un binario simile, e tramite FNI è necessario far nascere alcune decine di nuovi operatori, tra acceleratori, fondi seed e fondi di venture capital, che devono basarsi su competenze e conoscenza di practices oggi pressoché assenti. La dotazione da Fondo di Fondi di FNI deve andare in via prevalente verso questi soggetti: i pochi validi che ci sono, quelli che stanno nascendo o devono ancora nascere, con cui operare da anchor investor in misura rilevante, e solo marginalmente essere a disposizione di VC già che, al loro secondo o terzo fondo, devono dimostrare quel merito basato sui risultati per raccogliere finanza sul mercato, e dove FNI può eventualmente intervenire accodandosi. Non si perda tempo con chi non ha prodotto altro valore che il pagamento di lauti stipendi ai partner con le managing fee, e soprattutto ci si concentri su gestori focalizzati sul Seed: l’Europa ed il mondo sono già pieni di VC di altissimo standing e con dotazioni importanti che intervengono dal Series A in poi internazionalmente, e che possono quindi essere attirati ad investire in Italia; mentre una talent country come la nostra ha soprattutto bisogno di una ampia classe di investitori locali specializzati nelle fasi pre-ricavi, operatori che tipicamente in tali fasi non operano da un paese all’altro e che solo costituendosi localmente creereranno il flusso di nuove imprese tecnologiche italiane.

In conclusione

La sfida è rilevante, e ritengo che lo Stato non debba credere di aver completato l’opera con il pur rilevante passaggio della nascita di questo operatore: è fondamentale approfittare della sospensione dell’eccezionalità storica dello scenario post-pandemia, della sospensione del patto di stabilità e della vigenza del Temporary Framework per incrementare da subito e di molto la potenza di fuoco di FNI, che ha acceso i motori con la somma di miliardo di euro di dotazione che appare rilevante ma non lo è nella partita dell’attrattività internazionale ed andrebbe almeno quintuplicata entro i prossimi dodici mesi.

Ed è allo stesso tempo fondamentale entrare immediatamente nell’ottica del riformare tutto il legal framework che impatta le startup, partendo dal perimetro del registro speciale, e passando per alcuni aspetti di diritto societario, costo del lavoro, norme sull’immigrazione, introducendo schemi di progressività sia nelle norme che disciplinano la gestione degli investimenti che nella creazione e gestione di impresa.

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