Probabilmente si contano sulle dita di una mano le persone che, in Italia, hanno sentito parlare della Commerce Layer, fondata dall’ingegnere informatico Filippo Conforti, e basata a Prato. Eppure, la startup ha appena conquistato uno dei fondi di maggior successo al mondo: la Benchmark Capital – un fondo Venture Capital il cui nome dirà poco ai non addetti ai lavori – ha appena sottoscritto un round series A da 6 milioni insieme ad alcuni co-investitori tutti internazionali.
Ne ha dato notizia circa una settimana fa TechCrunch e, da quanto l’articolo è stato pubblicato, il fatto non è ancora mai stato menzionato da nessuno dei nostri storytellers specializzati che – va detto – condividono la colpa con molti founder e investitori tech nostrani, visto che una porzione rilevante del nostro ecosistema vive in modo autoreferenziale mentre tutto il resto della rete internazionale del mondo startup e venture investing, a prescindere dal paese in cui si appoggia, vive prima di tutto immersa in un “sistema” globale per condividerne in tempo reale cultura, informazioni, trend, scenario competitivo, e solo in subordine interessandosi del livello locale.
Bene, questo investimento così rumorosamente silenzioso è utile per parlare proprio del gap culturale del nostro paese, perché raccontare dell’ennesimo “caso” di futuro unicorno che ha lasciato la penisola si spera che contribuisca a chiudere una volta per tutte la narrativa falsa di molti degli investitori italiani: signori che continuano a ripetere di essere tanto qualificati e che vorrebbero investire di più, ma che in Italia non c’è dealflow di qualità. Signori scollegati dal mondo del venture investing internazionale, che non frequentano e di cui nemmeno leggono, e da cui a loro volta non sono minimamente considerati in quanto abitanti di una minuscola “bolla” italiana fatta di presunzione, ignoranza e distorsioni. Signori incompetenti di tecnologia, che pensano che fare venture sia semplicemente un fatto di analisi di bilanci passati anziché di prospettive future, e che così operando non hanno mai remunerato il capitale investito.
Torniamo quindi alla notizia, perché nel vederla mi è balzata all’occhio proprio l’assenza nel round di un qualsivoglia investitore professionale italiano. Nei lustri che ho di frequentazione di questo mondo credo che sia la prima volta che mi capiti di vedere un investitore Tier 1 californiano che sottoscrive un series A in una startup di un paese “ignoto” – è il primo investimento di questo fondo in Italia – senza che ci sia alcuna presenza di un partner locale che costituisca un collegamento che invece è sempre ritenuto utile per aspetti legali, regolamentari, di networking. La cosa mi ha incuriosito doppiamente e appena l’ho letta ho contattato il founder via Linkedin, spiegandogli che anche io sono un founder che scrive dell’argomento come azione di advocacy per cercare di acculturare il settore, e che mi sarebbe piaciuto saperne di più per raccontare la sua storia. Filippo Conforti è stato entusiasta di condividere le cose non coperte da riservatezza che poteva dire, sia del round che del proprio sogno e del percorso per concretizzarlo, ed è finita che ci siamo fatti più di due ore di videochiamata sull’asse Roma – Prato, città dove lui ha la base in attesa del suo trasloco in Bay Area tra qualche mese.
Perché la prima informazione raccolta, ma che purtroppo mi aspettavo, è che Commerce Layer è l’ennesimo unicorno italiano che non sarà un’azienda italiana e che in Italia manterrà solo lo sviluppo: seguendo il collaudato “dual-mode” delle startup in fuga, la società italiana diventa una unità locale di ricerca e sviluppo basata a Prato ma “all remote” con molti programmatori sparsi per l’Italia e l’Europa, che lavoreranno da casa. E Filippo andrà a guidare Commerce Layer Inc, controllante società americana che ha ricevuto l’investimento, e che è basata a Menlo Park. Sarà sempre CEO e siederà in un board a due con Eric Vishria, General Partner di Benchmark, uno dei principali player globali del capitale di ventura che ha un portfolio e una storia di successi da fare paura.
L’idea alla base di Commerce Layer
Filippo è un programmatore senior che tra le varie esperienze ha costruito il sistema e-commerce del gruppo Gucci, e ha lasciato l’azienda ed il posto sicuro nel 2016 avendo in testa questa idea che ha maturato in quegli anni: creare una startup che sviluppasse LA piattaforma per abilitare all’e-commerce i brand globali, aziende che vendono i propri prodotti nelle varie aree geografiche del mondo tramite organizzazioni societarie e distributive complesse. Sognava di creare un sistema nativamente e totalmente API-based, per fornire ai vendor molteplici opzioni diversamente e liberamente integrabili sui propri sistemi di CMS attraverso tutte le proprie articolazioni locali. E ci è riuscito: il suo nuovo investitore, dopo aver portato a successo aziende come Dropbox, Instagram, Twitter, Snapchat e svariate altre, è convinto di aver scovato quello che sarà un unicorno e futuro leader mondiale del SaaS per e-commerce per i marchi globali, ed è altamente probabile che sia così visto che Commerce Layer da prima dell’annuncio del closing ha saputo già tirare a bordo clienti importanti, menzionando un leader mondiale del beverage per far capire il livello, che hanno iniziato da alcuni mesi ad abilitare la vendita online in alcuni paesi usando il suo sistema.
La “miopia” degli investitori italiani
Filippo mi ha raccontato che fino ad oggi ha raccolto fondi per sviluppare la sua piattaforma attraverso un primo round “Friends & Family” di circa 200mila euro nel 2017, a cui ha fatto seguito un Seed da 600mila nel 2019, sempre effettuato tra investitori non professionali. Ho insistito sul capire chi avesse incontrato, scartato, e scelto, e mi ha raccontato un film purtroppo ben noto alla totalità dei founder italiani: presunti investitori “professionali”, associazioni di autodefiniti angels, società di advisory, operatori di crowdfunding, fondi di Venture Capital, tutti nominalmente blasonati e noti che nella migliore delle ipotesi non rispondono alle email, ma che ancor più spesso e volentieri se provano a valutarti chiedono quanto sia l’EBITDA della tua startup, e sgranano gli occhi quando gli dici che l’EBITDA non c’è, che non avranno la maggioranza ma partecipazioni che vanno tra i decimali e la singola cifra, che non entreranno nella governance, che l’obiettivo è quello di investire ancora per anni e non di andare a break-even. Un film interpretato da gente che occupa militarmente la scena degli investimenti nel paese con proclami eroici, ma che non solo non ha le competenze per fare bene i propri interessi (e fin qui vabbè, son problemi loro se investono perseguendo IRR a singola cifra in operazioni ad alto rischio, anziché in BTP), ma che purtroppo produce il doppio danno di uccidere in culla tutte le startup italiane valide che non riesce a spingere alla fuga.
Le valutazioni all’italiana che azzoppano le nostre startup
Per riuscire a mantenere un percorso che non gli precludesse la scalabilità, Filippo “ha studiato”, come mi ha detto lui stesso, e studiando i round internazionali si è reso conto che doveva tenere duro ed evitare di inciampare in valutazioni all’italiana, e così è riuscito a portarsi a bordo solo gente che si è fidata di lui e delle sue proposte suppostamente “folli”. Questo gli ha permesso, nel momento in cui si è affacciata Benchmark, di essere ancora al 70% delle quote dopo il seed, cosa che purtroppo costituisce ancora nel 2020 un’eccezione tra le startup italiane i cui founder troppo spesso scoprono di non essere investibili dai fondi internazionali proprio a causa della diluizione eccessiva a cui sono stati costretti dagli investitori precedenti. Tra addetti ai lavori parliamo troppo spesso di “cap table massacrata” come del principale problema delle startup italiane, problema purtroppo dato dall’approccio con competenze da finanza tradizionale degli investitori in startup scalabili nel paese.
Filippo è stato più volte tentato di cedere, perché non pagarsi uno stipendio con famiglia a carico per i primi tre anni fa comprensibilmente vacillare, ma la sua motivazione a concretizzare una visione di cui era fermamente convinto lo ha portato a tenere duro e rifiutare due volte di vendere tutto, oltre a fargli rimbalzare le proposte di investimento che riteneva – giustamente! – inadeguate, perché ne avrebbero bloccato la crescita.
Il bello del parlarci è stato constatare come sia l’ennesimo founder carico di energia, competenza, passione per il suo sogno ed amore – nonostante tutto – per il proprio paese, per il quale trasmette una voglia di give back grande come un transatlantico: è del tutto determinato a fare della sua azienda – non più un sogno perché ora sta assumendo talenti e professionisti di livello – un leader mondiale in breve tempo, e già ragiona del round B che dovrà fare entro due anni. Ma gli si illuminano gli occhi quando dice che il network che si sta costruendo è tutto valore che vuole riportare in Italia, in cui ad un certo punto vuol tornare a fare il venture capitalist con il bagaglio di ulteriore conoscenza che avrà sviluppato vivendo là e frequentando il “club” dei CEO delle altre società investite da Benchmark. Dal primo contatto che ha avuto con Benchmark a ottobre al termsheet firmato lo scorso gennaio sono passati tre mesi, nonostante la distanza, e il closing effettivo con la costruzione della società statunitense ed il coinvolgimento dei venti investitori precedenti ha richiesto poi i quattro mesi successivi, giungendo quindi all’annuncio di metà maggio quando tutto è stato completato. Nei prossimi mesi farà il pendolare, e per inizio 2021 si trasferirà stabilmente in California. Tornerà, ma lo farà tra anni.
Il problema dell’Italia
Il problema è che in Italia abbiamo un disperato bisogno oggi di tanta gente così, gli investitori italiani è ormai acclarato che – salvo mosche bianche – non studiano e si arroccano all’interno della comfort zone delle loro competenze di corporate finance tradizionale, inventando e pretendendo di applicare criteri di venture investing pecorecci che del settore usano solo i termini. Ci troviamo in una situazione di urgente necessità di trovare un alto numero di investitori che approccino il venture investing in tutte le fasi – pre-seed, seed, early VC – con le competenze tecnologiche necessarie a comprendere il potenziale trasformativo delle startup, con le conoscenze delle metodologie di valutazione proprie di un settore che continua a generare nuove grandi imprese ovunque tranne che in Italia, con la cognizione chiara che: investire in pre-seed è un investimento in persone, investire in seed è un investimento in idee, investire in series A è un investimento in metriche, investire in series B è un investimento in traction.
Gli imprenditori di talento italiani ci sono, come dimostra Filippo Conforti. Quello di cui abbiamo urgente bisogno è di creare o importare una classe di investitori in capitale di rischio che abbia ben scolpito in mente che chiedere l’EBITDA ad una startup scalabile al Seed è da perfetti incompetenti, insieme a tutto ciò che è ben noto a contorno ovunque fare venture investing non equivalga a private equity di piccolo taglio. Fino a che non ne avremo, le startup italiane continueranno a fuggire all’estero o ad essere uccise da troppi investitori italiani incapaci.