l'analisi

Crac della Silicon Valley Bank, ma il sistema startup è solido: chiariamo perché

Sul fallimento della banca della Silicon Valley sono state dette molte imprecisioni. Il risultato reale è che il sistema del Venture Capital – estremamente ricco di liquidità – è a questo punto pronto a ripartire: una ritrovata stabilità di scenario riaprirà l’opportunità dei collocamenti in borsa

Pubblicato il 16 Mar 2023

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

startup ddl concorrenza

La nota vicenda del fallimento della Silicon Valley Bank, istituto di credito come da nome basato nel nord della California e con una branch nel Regno Unito, ha generato molto clamore negli ultimi giorni in quanto si è trattato del più grande fallimento bancario negli USA dai tempi del crack Lehman Brothers del 2008. Trattandosi di un istituto legato all’ecosistema startup, di cui molti parlano ma pochi sanno, si sono scritte molte inesattezze su cui è opportuno fare chiarezza.

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Cosa era la Silicon Valley Bank e perché è fallita

Partiamo dallo spiegare cosa fosse la Silicon Valley Bank (‘SVB’): diciassettesima banca statunitense per asset gestiti, per 40 anni è stata la banca di riferimento in cui le startup depositavano la liquidità che ricevevano dai loro investitori. Non quindi, come alcuni hanno scritto a sproposito, una banca che prestava soldi ad alto rischio alle startup e che sarebbe fallita per questo, ma la banca che beneficiava del gestire i patrimoni delle startup frutto degli aumenti di capitale che ricevevano.

Cosa è successo quindi a SVB perché fallisse così repentinamente? Le cause del tracollo sono tendenzialmente esogene, rispetto alla gestione di SVB, e vanno ricondotte a pandemia e conflitti geopolitici internazionali, che a loro volta hanno prodotto una inflazione eccezionale a cui le banche centrali hanno reagito con la stretta monetaria ancora in atto da parte con l’aumento dei tassi di interesse ed il ritiro di liquidità dai mercati (il quantitative tightening, contrapposto al quantitative easying degli ultimi anni).

  • Senza entrare nel merito se la stretta monetaria sia o meno la risposta giusta ad un’inflazione che non è provocata da eccesso di domanda (e moltissimi ormai pensano che non lo sia, e che le banche centrali lo sappiano molto bene ma usino l’inflazione come mero pretesto per recuperare posizioni di controllo e potere sull’economia), sta di fatto che l’aumento dei tassi ed il tightening hanno avuto come primo effetto l’aver raffreddato di molto quello che è da sempre il principale punto di atterraggio degli investimenti nelle startup: la quotazione in borsa. Il calo delle borse ha, quindi, rallentato enormemente l’attività dei fondi di Venture Capital che – nonostante pieni di liquidità come mai prima – si sono fatti molto più conservativi e prudenti nell’effettuare investimenti e reinvestimenti nelle proprie partecipate. I minori investimenti hanno, dunque, impattato sui conti delle startup – molto concentrati nella SVB – abbassando i saldi attivi dei conti correnti.
  • Ora, come noto, tutte le banche raccolgono denaro dai depositanti e reinvestono questo denaro in modalità che creino un mix di rendimento e capacità di rendere liquida una parte degli investimenti per far fronte ai prelievi. In altri termini, nessuna banca al mondo è in grado di far fronte ad eventuali richieste di prelievo dell’attivo di conto corrente da parte di tutta la clientela, qualora si verificasse: non perché quei soldi non ci siano, ma perché sono investiti. Ora, SVB aveva investito una buona parte di quei depositi in titoli di Stato americani, né più né meno come moltissime altre banche. Titoli che sono molto sicuri, hanno un rendimento commisurato al momento della loro emissione, ed una scadenza temporale per il loro ripagamento.
  • Il repentino aumento dei tassi di interesse, però, ha avuto un altro effetto: la perdita di valore di questi titoli, qualora li si debba vendere prima della scadenza, dato che li si va a vendere in un momento in cui il denaro può rendere molto di più. Il mercato, quindi, li prezza a sconto rispetto all’investimento sottoscritto, definendoli “unrealized losses”, perdite potenziali non contabilizzate nel bilancio perché si concretizzano solo se effettivamente si effettui la vendita, ma allo stesso tempo perdite inesistenti se si aspetta la scadenza naturale ed il rimborso del titolo. Moltissime banche americane ed europee sono piene di perdite potenziali, che riporterebbero cioè se fossero costrette a vendere i titoli in questo contesto di tassi molto più alti di quelli di rendimento dei titoli.
  • Questo scenario, in cui va nuovamente sottolineato che riguardi moltissime banche, a causa dei ridotti investimenti dei fondi di Venture Capital ha determinato uno stato di aumento dei prelievi – ovvero di calo dei depositi – da parte della clientela specifica di SVB, esponendo questa banca ad una necessità di “realizzare le perdite” vendendo i titoli di Stato, e spingendo il management alla operazione più ovvia per coprire queste perdite rafforzando il patrimonio: lanciare un aumento di capitale. Un piccolo aumento di capitale, rispetto alla capitalizzazione e agli asset gestiti dalla banca, ma comunque una azione straordinaria. Qui c’è stato il vero errore di SVB, ovvero gestire l’operazione senza sottolineare in tutti i modi nella comunicazione che non c’erano rischi particolari.
  • Invece, la notizia dell’aumento di capitale è stata fraintesa da fondi di venture capital e da influencer della Silicon Valley, che nei gruppi e sui social hanno allertato le startup spingendole ad una “bank run”: una corsa ai prelievi, dettata dal panico, che purtroppo diventa una profezia autoavverante. Cioè un timore di un fallimento, che genera impossibilità di far fronte al volume straordinario ed ingestibile dei prelievi stessi e di conseguenza provoca il fallimento temuto. Va sottolineato che nessuna banca, neanche la più sana, può far fronte ad una corsa ai prelievi che superi una percentuale delle giacenze.

Come chiaro, quindi, la responsabilità di quanto accaduto + essenzialmente della politica di rialzo dei tassi stabilita dalle banche centrali, che sviluppatasi troppo repentinamente dopo molti anni di politiche diverse, ha causato uno squilibrio sulle unrealized losses di numerosissime banche oggi nella stessa condizione di una SVB che non ha fatto niente di particolarmente biasimevole.

Degno di nota, a questo punto, è il modo in cui le banche centrali hanno gestito la situazione: la Bank of England, che ha dovuto gestire il rischio di insolvenza della filiale britannica di SVB, ha agito nel migliore dei modi favorendo l’immediata acquisizione dell’istituto da parte di HSBC, gigante bancario europeo che ha garantito il normale prosieguo delle operazioni già dall’apertura al lunedì mattina, e si è ritrovato proprietario di un centro di competenza eccezionale sul mondo startup. Di fatto, una operazione di Open Innovation da manuale nel mondo bancario.

Le conseguenze per le startup

Sul versante opposto, la FED – banca centrale statunitense – ha agito contraddicendosi più volte: inizialmente ha fatto sapere che non avrebbe autorizzato una acquisizione di SVB da parte di una grande banca (“per evitare concentrazioni anticoncorrenziali”), ed indicando la strada dello spezzatino di SVB con un’asta sui diversi asset. Ma questa strada, che avrebbe portato al fallimento dell’istituto e alla automatica perdita delle giacenze sui conti correnti superiori alla soglia assicurata (negli USA sono assicurati i depositi fino a 250mila dollari, a fronte di una soglia di 100mila euro in Unione Europea), avrebbe generato una strage: alcuni fondi hanno calcolato che una metà delle startup statunitensi si sarebbero trovate istantaneamente in crisi di liquidità ed impossibilitate a pagare gli stipendi. Il CEO dell’acceleratore YCombinator ha parlato di un potenziale “evento di estinzione di massa”, paragonando il rischio a quello della caduta di un meteorite, che avrebbe generato un salto indietro di dieci anni nello sviluppo dell’ecosistema.

Ma la cosa interessante di questa vicenda é che, per la prima volta nella storia, la comunità della Silicon Valley si è ribellata all’ipotesi di finire tritata dalle scelte della FED e in poche ore si è coordinata facendo trapelare nel weekend l’intenzione di lanciare, per il lunedì, una azione di ritiro dei depositi da altre banche regionali con un equilibrio patrimoniale simile a SVB, minacciando implicitamente di scatenare un contagio di bank run a livello nazionale che avrebbe messo la FED di fronte ad un disastro ben superiore al 2008, con numerose banche che sarebbero fallite tutte insieme.

Il risultato di questo rischio è stato che, nello spazio di mezza giornata, la FED ha virato per una protezione dei conti correnti non assicurati, anziché procedere per l’asta sullo spezzatino, e parallelamente ha deliberato uno strumento straordinario di liquidità accessibile alle banche esposte in titoli di stato. L’ironia della sorte è che, se questo strumento fosse stato creato solo 48 ore prima, la Silicon Valley Bank sarebbe ancora viva e vegeta.

L’effetto indiretto di questa vicenda, però, al di là di chi afferma che la scomparsa di SVB determinerà un deterioramento dello scenario in cui operano le startup statunitensi – ma non ce n’è alcun motivo, al di là della perdita di un partner “friendly” posizionato nel medesimo bacino culturale parlando il linguaggio dei founder tecnologici – è che nessuno scommette più sul prosieguo della politica di FED (e di BCE) di crescita dei tassi, dato che i danni prodotti in termini di destabilizzazione non solo dell’economia ma – a questo punto – del sistema bancario che è molto più caro alle banche centrali che non la società, sono rilevanti.

Il risultato di questa frenata, è che il sistema del Venture Capital – come detto sopra, estremamente ricco di liquidità – è a questo punto pronto a ripartire: una ritrovata stabilità di scenario riaprirà l’opportunità dei collocamenti in borsa, e non sono pochi i grandi fondi statunitensi che stanno ricominciando già nello spazio di giorni a selezionare opportunità di investimento da andare a collocare nei prossimi due anni.

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