L'analisi

Dal mattone ai bit, il venture capital chiede fondi di fondi e un cambio di mentalità

Gli investimenti delle startup crescono nel 2012, grazie soprattutto ai fondi di fondi come HT sud. Il buon esempio però non è stato ripreso nel Decreto Sviluppo appena emanato. L’opinione degli addetti ai lavori, i successi dell’ultimo anno e le resistenze culturali degli investitori

Pubblicato il 23 Ott 2012

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All’indomani del Decreto Sviluppo, che in larga parte è dedicato alle start-up e al loro finanziamento, alcuni protagonisti degli investimenti di Venture Capital in Italia fanno il punto della situazione dei fondi di investimento.
Innanzitutto i numeri. Quelli più aggiornati, rivelati dall’Associazione Italiana Private Equity e Venture Capital (AIFI) raccontano di un Pese che ha visto rallentare Private Equity e Venture Capital nel complesso (868 milioni di euro, con una diminuzione del 43% rispetto al primo semestre 2011) nel primo semestre 2012. Mentre però il private equity – destinato alle aziende grandi e grandissime – crolla, il VC è cresciuto con investimenti passati dai 40 milioni della prima metà del 2011 ai 67 spesi nella prima parte del 2012. Non abbastanza da consentire all’Italia di risollevarsi a livello continentale – restiamo sempre in fondo alla classifica europea – ma forse la crescita è sufficiente per iniziare a intravedere la luce fuori dal tunnel. Nella speranza di poter un giorno raggiungere le dimensioni e la dinamicità degli Stati Uniti, dove l’investimento minimo parte da 10 milioni di dollari, mentre da noi la media è di 2 milioni di euro. Anche per questo la Commissione europea ha appena pubblicato un documento in cui chiede che vengano agevolate le iniziative legate al VC e agli angel investor.

Il merito dell’aumento in Italia dei fondi Venture Capital erogati dalle Società di Gestione del Risparmio (Sgr) è attribuibile in larga misura a un fondo di fondi che raccoglie fondi pubblici e fondi privati, il fondo High-Tech Sud (HT Sud). Per dare vita a uno dei rari esempi di successo nello stanziamento e gestione per il Venture Capital in Italia ci sono voluti almeno quattro anni e tre ministri (Stanca, Niccolais e Brunetta), ma oggi il fondo HT, che dispensa finanziamenti per le realtà tecnologiche del mezzogiorno (Lazio escluso) ha racimolato 140 milioni di euro e investito quasi tutti i soldi a disposizione permettendo la nascita di realtà importanti nell’high-tech. Per citarne una esemplare basta guardare a Mosaicoon, la viral media company che ha vinto il premio Startup dell’anno riconosciuto da Unicredit e – a cinque anni dalla fondazione e a due dalla trasformazione in Spa – oggi impiega 25 dipendenti (tutti rigorosamente under 35) e fattura 2 milioni di euro.

Il fondo HT funziona così: lo Stato mette a disposizione dei soldi (70 milioni nella fattispecie), detta le regole sulle modalità di erogazione alle startup ed esercita una funziona di supervisione. Per incentivare i privati a contribuire al fondo (partecipazione della stessa portata, ovvero altri 70 milioni) lo Stato, in caso di successo della startup, si accontenta di guadagnare poco, solo il corrispettivo dell’Euribor. Il resto viene diviso tra gli investitori privati (privati nel senso di non istituzionali, non necessariamente di singole persone fisiche).

A gestire il patrimonio da investire sono state due società, Principia e Vertis. Particolarmente entusiasta del fondo dei fondi HT è Michele Costabile, professore ordinario di marketing internazionale alla Luiss di Roma e componente del consiglio di amministrazione di Principia: “Per la prima volta da mezzo secolo è stato realizzato un intervento con soldi pubblici in cui il pubblico si limita a controllare la gestione imprenditoriale privata. Questa è l’unica iniziativa che abbia oggi senso: l’abolizione di tutti gli incentivi che prevedono la decisione discrezionale per l’assegnazione pubblica delle risorse e un ruolo snello e moderno del governo che indirizza secondo strategie di sviluppo definite gli investimenti ma non ne gestisce la realizzazione lasciandola a operatori privati imprenditoriali”. E i risultati si sono già visti, dato che tra i maggiori 10 investimenti effettuati nel 2011, 7 sono avvenuti al sud, dove si è passati dai 5 investimenti dell’anno precedente ai 30 di quello successivo. Per la prima volta il mezzogiorno registra performance di gran lunga superiori al nord.

Renato Vannucci, consigliere di Vertis, altra Sgr che insieme a Principia ha gestito i finanziamenti HT sud, traccia un bilancio altrettanto positivo: “Noi abbiamo fatto 12 investimenti e ne abbiamo altre due o tre caldi; entro fine anno credo esauriremo il fondo messo a disposizione. Non saranno tutte rose e fiori: i rischi ci sono e non può sempre andare bene. Però se è vero che al sud di grandi aziende non ce ne sono è vero anche che di ragazzi brillanti e università capaci ce ne sono tanti. Purtroppo, lamentano sia Vannucci che Costabile, nel Decreto Sviluppo bis l’esperienza di HT sud non viene replicata, e non si capisce il perché.

Se nel mezzogiorno le cose vanno, se non proprio bene, almeno meglio di prima, nel resto d’Italia in assenza di fondi di fondi la situazione resta deprimente. Mario Citelli, che insieme al decano del Venture Capital italiano Elserino Piol ha fondato la società di consulenza Neon, chiarisce che la situazione italiana dei fund raising privato è desolante: “Le cose sono complicate, al punto che abbiamo abbandonato l’idea di creare dei fondi chiusi e ci siamo orientati verso l’attività di advisor, che è più consona al momento italiano. Creare fondi chiusi è estremamente difficile. Così Pino Partecipazioni, la Sgr di Piol, ha dismesso l’attività, rimanendo in vita per la gestione del Venture Capital giù stanziato con progetti Kiwi I e Kiwi II”.
Anche perché l’investitore italiano paga una propensione culturale a investire con pochi rischi: “Gli investitori italiani vanno condotti, quasi educati a rischiare – chiosa Citelli – L’investitore deve essere acculturato, deve passare da una mentalità tipicamente immobiliare al rischio delle start-up”. Dal mattone alle idee fatte di bit: una strada che culturalmente non sembra essere breve ma è imprescindibile per dare un futuro di sviluppo al Paese.

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