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DDL Concorrenza: che cambia per le startup innovative



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Il DDL Concorrenza introduce cambiamenti significativi per le startup innovative, puntando su accesso ai capitali e semplificazioni per investitori internazionali. Ridefinisce le dimensioni delle startup per escludere grandi imprese e aumenta il capitale minimo richiesto, con l’obiettivo di concentrare le agevolazioni su imprese più promettenti

Pubblicato il 23 ott 2024

Antonio Lanotte

Dottore Commercialista e Revisore Legale International Taxation – Corporate Governance – ESG – Digital Transformation



startup (1)

Il nuovo DDL sulla concorrenza ha introdotto importanti modifiche normative che mirano a supportare e incentivare lo sviluppo delle start-up italiane. Queste modifiche intendono promuovere l’innovazione, facilitare l’accesso ai capitali e semplificare l’ingresso di investitori internazionali, in particolare extra-europei, nel mercato italiano.

DDL Concorrenza: una nuova veste per le startup innovative (artt.24-29)

Il DDL introduce una definizione più precisa e circoscritta delle società che possono qualificarsi come start-up innovative. Queste società devono operare principalmente in ambiti ad alto contenuto tecnologico, con particolare attenzione ai settori della digitalizzazione, sostenibilità, intelligenza artificiale e altri campi innovativi. Il DDL mira a incentivare gli investimenti nei fondi di venture capital attraverso nuove agevolazioni fiscali. L’obiettivo è quello di aumentare l’afflusso di capitali verso l’ecosistema dell’innovazione e sostenere la crescita di nuove imprese. Queste agevolazioni si applicano sia agli investitori residenti in Italia, sia agli investitori stranieri che decidono di finanziare start-up italiane.

Il Governo ha semplificato le procedure per facilitare gli investimenti da parte di soggetti non-europei nel mercato delle start-up italiane. Sono state ridotte le barriere normative che spesso ostacolavano l’accesso di capitali internazionali. Tra le misure introdotte vi è una maggiore flessibilità nelle regole di ingresso per gli investitori extra-UE, con l’introduzione di permessi di soggiorno agevolati per coloro che intendono investire in fondi VC o direttamente in start-up innovative italiane. Tuttavia, a nostro avviso il progetto di normativa è suscettibile di accorgimenti e miglioramenti per la costruzione di un ecosistema digitale florido e produttivo.

La startup innovativa secondo il DDL concorrenza

Nel nuovo disegno di legge sulla concorrenza, viene introdotto un intervento significativo che ridefinisce i requisiti dimensionali delle start-up innovative. In particolare, il testo stabilisce che queste società dovranno rientrare nelle categorie di micro, piccola o media impresa secondo quanto previsto dalla Raccomandazione UE n. 2003/361/CE.

Quante sono in Italia le startup innovative?

La variabile dimensionale

Definizione di micro, piccola e media impresa (PMI) secondo la Raccomandazione UE 2003/361/CE

Microimpresameno di 10 dipendentiun fatturato annuo o totale di bilancio inferiore a 2 milioni di euro.
Piccola impresameno di 50 dipendentiun fatturato annuo o totale di bilancio inferiore a 10 milioni di euro.
Media impresameno di 250 dipendentiun fatturato annuo inferiore a 50 milioni di euro o un totale di bilancio annuo inferiore a 43 milioni di euro.

Un primo impatto della definizione sopra-riportata è quello dell’esclusione delle Grandi Imprese.

L’introduzione di questi requisiti dimensionali ha lo scopo di escludere dal perimetro delle start-up innovative le imprese che hanno ormai raggiunto una dimensione considerevole e che, quindi, non sono più nella fase iniziale di sviluppo tipica delle start-up. In questo modo, le imprese di dimensioni superiori (che superano i parametri delle PMI definiti dalla raccomandazione UE) non potranno più beneficiare dei vantaggi fiscali, amministrativi e finanziari riservati alle start-up, come le agevolazioni per l’accesso al credito, la riduzione delle imposte e le semplificazioni burocratiche. Questa limitazione consente di concentrare le risorse e i benefici previsti dalla normativa sulle imprese più piccole e in fase di crescita, che hanno effettivamente bisogno di un supporto per competere sul mercato e svilupparsi ulteriormente. L’obiettivo è garantire che le misure di sostegno siano destinate a quelle imprese che sono ancora in una fase iniziale o intermedia di sviluppo e che non abbiano già raggiunto una significativa stabilità economica. Inoltre, l’esclusione delle imprese più grandi che, pur rientrando originariamente tra le start-up innovative, hanno ora raggiunto dimensioni più rilevanti, ha anche l’effetto di promuovere il ricambio generazionale e incentivare l’ingresso di nuove imprese nel mercato dell’innovazione. Questo stimolo, a nostro avviso, è particolarmente importante in settori altamente competitivi, dove il continuo ingresso di nuove realtà imprenditoriali contribuisce a mantenere alto il livello di innovazione e creatività.

Aumento del capitale minimo necessario

La modifica al capitale sociale minimo richiesto per le start-up innovative, innalzato a 20.000 euro, rappresenta un cambiamento rilevante nel nuovo DDL sulla concorrenza. Questo provvedimento ha effetti significativi sia nel selezionare imprese con maggiore solidità finanziaria, sia nel ridurre il numero delle imprese beneficiarie delle agevolazioni e degli incentivi previsti per le start-up.

L’aumento del capitale minimo richiesto mira a favorire start-up con una base finanziaria più solida, in grado di sostenere un processo di crescita e sviluppo più strutturato. Questa scelta punta a incentivare la creazione di start-up che possano attrarre investimenti esterni e affrontare le sfide di mercato con maggiori risorse economiche.

L’intento del legislatore sembra essere quello di ridurre la platea di imprese che accedono ai benefici, concentrandoli su quelle start-up che dimostrano una capacità finanziaria iniziale più consistente. In questo modo, le agevolazioni e gli incentivi vengono riservati a imprese considerate più promettenti e sostenibili nel lungo termine. A nostro avviso, il rischio associato a questo aumento del capitale sociale minimo è che molte start-up nella fase iniziale (dove spesso non si dispone di somme consistenti da investire) possano essere escluse dai benefici della normativa.

Le start-up appena avviate potrebbero incontrare maggiori difficoltà nel rispettare il nuovo requisito, soprattutto se non hanno ancora ottenuto finanziamenti esterni o se sono finanziate prevalentemente dai fondatori stessi.

Con questa scelta normativa, il Governo sembra voler concentrare le risorse su un gruppo di imprese più ristretto ma potenzialmente più promettente, eliminando quelle start-up che, pur avendo idee innovative, non dispongono delle risorse finanziarie per crescere e affrontare le sfide del mercato.

L’aumento del capitale minimo riflette un approccio più selettivo nella distribuzione delle agevolazioni, privilegiando quelle start-up che già mostrano una certa solidità e che potrebbero garantire maggiori prospettive di successo.

I pro e i contro dell’aumento del capitale minimo

Se da un lato questo requisito aiuta a filtrare le imprese più capaci di sostenere un piano di sviluppo a lungo termine, dall’altro lato rischia di escludere start-up con alto potenziale ma con limitata capacità finanziaria nella fase iniziale.

A nostro avviso, una stretta rispetto a quanto previsto finora, con la possibilità di costituire delle società a responsabilità limitata (srl) anche con 1 euro o comunque con un capitale inferiore ai 10mila di soglia, ma con l’obbligo di versarlo tutto. A nostro parere, la misura punta a differenziare tra le imprese che possano realmente fare la differenza sul mercato in termini di innovazione e crescita, rispetto a quelle che potrebbero non essere in grado di sostenere il ritmo competitivo richiesto in un ecosistema dinamico come quello delle start-up.

Questa modifica è parte di un più ampio tentativo di qualificare e selezionare le start-up che beneficiano delle agevolazioni, rendendo il sistema più focalizzato sulle imprese con un maggiore potenziale di crescita e sostenibilità. Francia e Germania, ad esempio, hanno leggi che promuovono maggiormente la crescita delle startup, offrendo incentivi fiscali, accesso facilitato ai capitali e, spesso, periodi più lunghi per rimanere in incubatori o sotto regolamentazioni agevolate.

Il rischio concreto è che gli imprenditori, soprattutto i giovani con idee innovative, decidano di trasferire le proprie iniziative all’estero, dove possono beneficiare di ecosistemi più favorevoli e ricevere supporti concreti per il loro sviluppo a lungo termine. Anche gli investitori tendono a preferire contesti più stabili e con regole meno restrittive, il che potrebbe ridurre la disponibilità di capitali in Italia.

Brevetti e marchi, la modifica al requisito delle privative industriali

La modifica introdotta dal nuovo disegno di legge sulla concorrenza riguardo al requisito delle privative industriali segna un altro cambiamento significativo per le start-up innovative. In particolare, viene modificata la condizione relativa al possesso di privative industriali (brevetti, marchi, modelli di utilità, design, ecc.), che ora devono essere non solo possedute dall’impresa, ma anche utilizzate effettivamente nella sua attività.

Questa modifica, a nostro avviso, rende il quadro normativo più restrittivo e punta a garantire che le agevolazioni siano riservate a quelle start-up che non solo possiedono privative industriali, ma che le utilizzano attivamente nel loro ciclo economico. Sebbene questa scelta possa apparire ragionevole dal punto di vista della selezione di imprese potenzialmente più mature o promettenti, introduce comunque complicazioni per quelle start-up che sono ancora nella fase di implementazione delle loro innovazioni.

La vera sfida sarà capire come verrà applicata questa regola (incertezza normativa) e quali margini di flessibilità saranno concessi nelle prime fasi di sviluppo delle imprese. In precedenza, la normativa richiedeva che le privative industriali fossero semplicemente “direttamente afferenti all’oggetto sociale e all’attività d’impresa”, un’espressione più generica che permetteva maggiore flessibilità per le start-up. Bastava che le privative fossero collegate all’attività economica, ma non era strettamente necessario che fossero immediatamente utilizzate.

Ora, la norma richiede che le privative siano “utilizzate dall’impresa” nel suo processo produttivo o nel ciclo economico. Questa formulazione è, a nostro avviso, più restrittiva, poiché impone un controllo sull’effettivo utilizzo delle privative da parte della start-up, non permettendo che queste siano semplicemente possedute ma non utilizzate operativamente. Inoltre, con questa nuova definizione, si prevede un controllo più rigoroso sull’effettivo impiego delle privative industriali da parte delle start-up.

Le imprese dovranno dimostrare non solo di possedere brevetti, marchi o altri diritti di proprietà industriale, ma anche che questi siano parte integrante del loro modello di business o del loro processo produttivo. Questo, a nostro avviso, potrebbe comportare una maggiore complessità amministrativa per le start-up, che saranno obbligate a fornire prove o documentazione sull’uso attivo delle privative industriali. Il semplice possesso di brevetti o marchi non sarà più sufficiente per accedere alle agevolazioni, e ciò potrebbe rendere più difficoltoso il percorso per alcune imprese, in particolare quelle nella fase iniziale che non hanno ancora potuto implementare pienamente le loro innovazioni.

I rischi della modifica alla privativa industriale

Questa formulazione più restrittiva potrebbe escludere dalle agevolazioni quelle start-up che, pur possedendo privative industriali, non le stanno ancora utilizzando attivamente. Ad esempio, una start-up che ha sviluppato una tecnologia innovativa ma non l’ha ancora integrata pienamente nel proprio processo produttivo potrebbe non rispettare il nuovo requisito.

Questo potrebbe rappresentare un problema particolare per le start-up in fase embrionale, che magari hanno registrato brevetti o marchi ma che non li stanno ancora utilizzando a livello operativo. Molte start-up, infatti, si trovano in una fase in cui il loro modello di business è ancora in evoluzione, e l’effettiva implementazione delle tecnologie brevettate potrebbe avvenire solo successivamente.

In altre parole, per molte start-up, soprattutto quelle nella fase iniziale o in settori dove i tempi di implementazione delle tecnologie brevettate sono lunghi (ad esempio, biotecnologie o tecnologie avanzate), questo cambiamento potrebbe rappresentare un ulteriore ostacolo all’accesso alle agevolazioni. La dimostrazione dell’uso effettivo delle privative industriali potrebbe richiedere tempi e risorse, che non tutte le imprese hanno a disposizione subito dopo la costituzione. Infine, all’aumento del capitale minimo, questa modifica sembra voler selezionare in modo più rigoroso le start-up beneficiarie delle agevolazioni, garantendo che solo quelle imprese che effettivamente utilizzano le proprie innovazioni nel processo produttivo possano accedere ai vantaggi previsti dalla normativa.

Venture capital e incentivi a investimenti non europei: opportunità di crescita

L’articolo 26 apporta delle modifiche al quadro normativo riguardante le start-up innovative e gli incubatori certificati, disciplinato dal Decreto Legge n. 179/2012, comunemente noto come “Startup Act”. In particolare, l’articolo amplia la definizione di “incubatore certificato”, includendo tra i suoi possibili requisiti anche le attività di supporto e accelerazione in favore delle start-up innovative. Tuttavia, viene chiarito che queste attività di supporto e accelerazione non potranno beneficiare delle agevolazioni previste sia dallo Startup Act, sia dalla legge in questione. Di conseguenza, mentre queste attività diventano rilevanti ai fini della certificazione di un incubatore, non si comprende perché non possano godere dei vantaggi fiscali o finanziari riconosciuti dal quadro normativo specifico per le start-up innovative e gli incubatori certificati.

A tal proposito è bene ricordare che il termine “Startup Act” si riferisce comunemente al Decreto-Legge n. 179 del 18 ottobre 2012, noto anche come “Decreto Crescita 2.0”, che è stato convertito con modificazioni dalla Legge n. 221 del 17 dicembre 2012. Questo quadro normativo è stato creato con l’obiettivo di favorire la nascita e lo sviluppo delle start-up innovative in Italia, fornendo loro una serie di incentivi e agevolazioni.

Le principali misure dello startup Act

Le principali misure previste dallo Startup Act includono:

  1. Agevolazioni fiscali per chi investe nelle start-up innovative.
  2. Sgravi contributivi per le assunzioni di personale qualificato.
  3. Accesso semplificato al credito bancario e al Fondo di Garanzia.
  4. Facilitazioni per il fallimento e la liquidazione delle imprese innovative.
  5. Accesso al crowdfunding come strumento di finanziamento alternativo.
  6. Supporto nella protezione della proprietà intellettuale.

L’obiettivo generale dello Startup Act è quello di creare un ecosistema favorevole all’innovazione tecnologica e allo sviluppo imprenditoriale in Italia, concentrandosi sulle imprese altamente innovative. Attraverso un insieme di agevolazioni fiscali, finanziarie e normative, il decreto mira a facilitare l’ingresso di queste imprese nel mercato e a supportarne la crescita, rendendo il contesto più competitivo e attrattivo per investitori e imprenditori. Lo Startup Act cerca quindi di stimolare la creazione di nuove imprese ad alto contenuto tecnologico e innovativo, promuovendo la nascita di nuove idee e favorendo la loro evoluzione in realtà commerciali capaci di competere a livello nazionale e internazionale. A partire dal 2012, con l’introduzione dello Startup Act, l’Italia ha intrapreso un percorso volto a favorire lo sviluppo di un ecosistema favorevole alle imprese innovative. L’obiettivo era quello di utilizzare l’innovazione come motore di crescita economica e di stimolo all’occupazione, con particolare attenzione ai giovani.

A tal proposito è bene ricordare che Francia e Germania, ad esempio, hanno leggi che promuovono maggiormente la crescita delle startup, offrendo incentivi fiscali, accesso facilitato ai capitali e, spesso, periodi più lunghi per rimanere in incubatori o sotto regolamentazioni agevolate. Il rischio concreto è che gli imprenditori, soprattutto i giovani con idee innovative, decidano di trasferire le proprie iniziative all’estero, dove possono beneficiare di ecosistemi più favorevoli e ricevere supporti concreti per il loro sviluppo a lungo termine. Anche gli investitori tendono a preferire contesti più stabili e con regole meno restrittive, il che potrebbe ridurre la disponibilità di capitali in Italia.

L’articolo 27 introduce una misura interessante per incentivare gli investimenti nelle startup innovative tramite il credito d’imposta destinato agli incubatori certificati. Questo incentivo, a partire dal 2025, prevede un beneficio pari all’8% della somma investita, con un limite massimo di 500.000 euro di investimento annuo per singolo incubatore. Per evitare abusi o usi speculativi, è previsto che l’investimento debba essere mantenuto per almeno tre anni, pena la restituzione del beneficio ricevuto. Un aspetto cruciale di questa misura è il limite complessivo di spesa annuale, fissato a 1.800.000 euro a partire dal 2025. Questo tetto di spesa potrebbe ridurre l’impatto potenziale del provvedimento, poiché solo un numero limitato di investimenti potrà beneficiare del credito d’imposta, soprattutto se consideriamo il crescente numero di incubatori e startup che operano in Italia. Inoltre, il tutto deve rispettare i limiti imposti dal regime di aiuti de minimis previsto dal Regolamento UE 2831/2023, che fissa un tetto massimo agli aiuti di Stato che un’impresa può ricevere, al fine di evitare distorsioni della concorrenza all’interno del mercato unico. Sebbene l’incentivo possa essere uno stimolo positivo per gli incubatori, a nostro avviso, la modesta percentuale dell’8% e il limite di spesa piuttosto ridotto potrebbero non essere sufficienti per attrarre investimenti significativi. Inoltre, l’obbligo di mantenere l’investimento per almeno tre anni è una condizione prudenziale, ma potrebbe disincentivare chi cerca maggiore flessibilità nelle proprie scelte d’investimento.

Il nuovo DDL sulla concorrenza introduce un’importante misura volta a incentivare gli investimenti in fondi di venture capital (VC), con l’obiettivo di sostenere finanziariamente le start-up italiane e stimolare l’ecosistema imprenditoriale innovativo del Paese.

In particolare, la norma stabilisce che gli enti di previdenza obbligatoria (ad esempio, casse di previdenza per professionisti e fondi pensione) debbano destinare una quota minima del 2% del proprio patrimonio agli investimenti in fondi di venture capital. Gli enti di previdenza obbligatoria dovranno destinare almeno il 2% del loro attivo patrimoniale agli investimenti in fondi di venture capital, oltre alla quota dell’8% del loro patrimonio che già possono destinare ad altri tipi di investimenti.

La normativa prevede che gli enti di previdenza possano investire fino all’8% del loro attivo patrimoniale in investimenti alternativi, inclusi immobili e strumenti finanziari non tradizionali. Con questa nuova disposizione, il 2% viene riservato esclusivamente agli investimenti in fondi di venture capital, rafforzando così il flusso di capitale destinato a sostenere le start-up innovative.

L’obiettivo primario è aumentare la disponibilità di capitali per le start-up italiane. Attraverso l’obbligo per gli enti previdenziali di investire in fondi di VC, il Governo mira a convogliare maggiori risorse verso i fondi specializzati nell’investimento in imprese innovative e a sostenere la crescita delle start-up in un’ottica di sviluppo dell’innovazione e della competitività del sistema economico italiano.

Questa norma si inserisce in una più ampia strategia di promozione dell’ecosistema del venture capital, che in Italia è ancora in fase di sviluppo rispetto ad altri Paesi europei. L’aumento dei capitali disponibili per il VC può contribuire a colmare questo gap e a favorire lo sviluppo di nuove imprese con un elevato potenziale di crescita.

L’ultimo aspetto rilevante del nuovo disegno di legge riguarda le modifiche volte a semplificare il trasferimento in Italia di investitori non europei, con l’obiettivo di attrarre maggiori capitali esteri e sostenere il settore delle start-up italiane attraverso investimenti internazionali.

Infatti, il DDL estende questo regime anche agli investimenti effettuati direttamente nei fondi di venture capital, con un ammontare minimo di 500.000 euro, mantenuti per almeno due anni. Questo ampliamento offre agli investitori extra-europei un’opzione in più per accedere ai benefici del visto agevolato, favorendo gli investimenti nel settore delle start-up attraverso i fondi di VC.

L’obiettivo principale è quello di aumentare l’afflusso di capitali stranieri nel sistema economico italiano, rendendo il Paese più attrattivo per gli investitori non europei. L’estensione della disciplina dei visti agevolati agli investimenti in fondi di VC rappresenta un passo importante per incentivare i flussi di capitali verso le start-up italiane, favorendo la crescita dell’ecosistema innovativo.

Gli investitori internazionali, in particolare quelli provenienti da Paesi al di fuori dell’Unione Europea, avranno così un percorso semplificato per ottenere il visto di ingresso e soggiorno in Italia, a condizione che effettuino investimenti significativi e a lungo termine.

L’estensione dei visti agevolati agli investimenti in fondi di VC rappresenta una leva strategica per rafforzare il sistema italiano del venture capital. L’afflusso di nuovi capitali internazionali consentirà ai fondi di venture capital italiani di aumentare la loro capacità di investimento, favorendo lo sviluppo di start-up innovative in settori strategici e tecnologici. Il provvedimento, in tal senso, potrebbe anche contribuire a migliorare la competitività internazionale del sistema italiano delle start-up, rendendo il Paese un hub più attrattivo per gli investitori stranieri.

La possibilità di ottenere un visto agevolato attraverso investimenti in fondi di VC italiani potrebbe attirare nuovi soggetti internazionali, che vedrebbero l’Italia come una piattaforma strategica per investire nel settore tecnologico e innovativo. Questo potrebbe inoltre favorire la creazione di sinergie tra gli investitori esteri e gli ecosistemi locali di innovazione, creando opportunità di cooperazione e scambio di know-how tra le start-up italiane e gli operatori internazionali. Tuttavia, a nostro avviso, un aspetto critico riguarda la durata minima dell’investimento richiesta per ottenere il visto agevolato (due anni). Gli investimenti in venture capital sono di natura rischiosa e possono richiedere più tempo per generare ritorni, il che potrebbe essere visto come un ostacolo per alcuni investitori. Tuttavia, l’opzione di investire attraverso fondi di VC, gestiti da esperti del settore, può rappresentare un meccanismo di mitigazione del rischio per gli investitori stranieri.

Il nodo dell’oggetto sociale delle startup innovative

Nel recente dibattito attorno al Disegno di Legge annuale per il Mercato e la Concorrenza (DDL Concorrenza), l’attenzione si è prevalentemente concentrata su aspetti come l’obbligo di un capitale sociale minimo di 20.000 euro e l’assunzione di almeno un dipendente entro due anni per le start-up innovative. Tuttavia, una questione cruciale che viene spesso trascurata riguarda l’oggetto sociale delle start-up innovative, un aspetto che meriterebbe maggiore attenzione per evitare distorsioni e migliorare l’efficacia della normativa. Attualmente, la normativa prevede che per essere qualificata come start-up innovativa, un’impresa debba avere l’innovazione come attività prevalente, ma non esclusiva. Questo significa che molte imprese possono qualificarsi come start-up innovative pur mantenendo parte delle loro attività in ambiti ordinari o tradizionali.

Di conseguenza, alcune microimprese riescono a sfruttare le agevolazioni riservate alle start-up innovative, mascherando attività convenzionali sotto una parziale innovazione. Questo permetterebbe alle imprese di qualificarsi come innovative senza che l’innovazione sia al centro della loro attività porta molte aziende a usufruire di agevolazioni senza avere un impatto reale in termini di innovazione.

Questo distoglie risorse da quelle start-up che, al contrario, puntano davvero sullo sviluppo di nuove tecnologie o modelli di business, compromettendo l’efficacia del sistema. La possibilità di avere innovazione solo come attività prevalente apre a fenomeni di concorrenza distorta. Imprese che svolgono principalmente attività ordinarie riescono a competere con vantaggi fiscali, rendendo il mercato meno equo e penalizzando le imprese che non accedono a tali agevolazioni. Se l’obiettivo è promuovere realmente l’innovazione in Italia, è fondamentale ripensare il concetto di start-up innovativa, spostando l’enfasi da requisiti burocratici come il capitale minimo e il numero di dipendenti, verso una maggiore chiarezza sul ruolo centrale dell’innovazione.

Per incentivare solo chi opera nell’ambito dell’innovazione tecnologica, digitale o di processo, è necessario che l’innovazione diventi esclusiva nell’attività dell’impresa, e non semplicemente una componente accessoria o prevalente. A nostro avviso, la legge dovrebbe prevedere che solo le imprese il cui oggetto sociale si concentra esclusivamente sull’innovazione possano accedere alle agevolazioni previste per le start-up innovative. Ciò consentirebbe una selezione più rigorosa, garantendo che i fondi e gli incentivi pubblici vadano a chi effettivamente lavora per sviluppare nuovi prodotti, processi o tecnologie. Potrebbe essere utile prevedere un sistema di verifica più accurato sull’oggetto sociale e sull’attività effettiva svolta dalle start-up, ad esempio richiedendo alle imprese di dimostrare periodicamente come stiano implementando l’innovazione nel loro business. Questo potrebbe ridurre il rischio che attività ordinarie o non innovative sfruttino in modo improprio le agevolazioni.

Perché è necessaria una ridefinizione più stringente del concetto di innovazione

È necessaria, pertanto, una ridefinizione più stringente del concetto di innovazione. Attualmente, la flessibilità nel definire cosa rappresenti innovazione lascia spazio a interpretazioni troppo ampie. Una maggiore precisione su ciò che qualifica un’attività come innovativa—ad esempio, l’adozione di brevetti, l’uso di tecnologie avanzate, o l’impegno in ricerca e sviluppo—aiuterebbe, a nostro avviso, a selezionare solo quelle imprese realmente impegnate nel settore. Dal canto suo, il governo sostiene che le nuove misure mirano a selezionare le start-up con maggior potenziale, riducendo l’accesso alle agevolazioni per le imprese meno promettenti o meno innovative. Tuttavia, c’è il rischio che queste misure, come l’aumento del capitale sociale minimo e l’obbligo di assumere dipendenti, possano ridurre eccessivamente il numero di beneficiari, lasciando fuori quelle start-up nelle fasi iniziali che potrebbero crescere e affermarsi, ma che in quel momento non hanno ancora le risorse necessarie per soddisfare tali requisiti. Secondo alcune stime, queste nuove regole potrebbero portare a una significativa riduzione del numero di start-up innovative in Italia, creando uno sbarramento per molte giovani imprese. Il rischio è che si crei un sistema troppo selettivo che, invece di favorire l’innovazione, la ostacoli, limitando l’ingresso di nuove realtà sul mercato.

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