I concetti di deeptech e technology transfer sono fortemente correlati, in quanto gli investimenti in deeptech (termine più in uso a livello internazionale) sono spesso collegati a ricerca scientifica e innovazioni dirompenti che richiedono approcci specifici all’investimento e di technology transfer.
Di cosa parliamo quando parliamo di trasferimento tecnologico o tech transfer
Partiamo dal concetto di trasferimento tecnologico, ricorrendo per semplicità all’inglese, che spesso risulta essere più efficace: Technology Transfer is defined by Cooksey “as the process to assist the successful transformation of good research in to good business”. E ancora, “the role of tech-transfer is closing the gap between research and business, supporting researchers/inventors to move a protected idea (IP, intellectual property) successfully to the market” (Roessner 2000, Isis Innovation Report, 2010). Nella sostanza, significa investire in idee e tecnologie ancora immature per poi trasformarle progressivamente in prodotti e tecnologie che vengono commercializzati.
Il technology readiness level
In questo processo l’elemento che qualifica la distanza dell’idea dal laboratorio di ricerca al mercato è il TRL (technology readiness level) una metodologia per la valutazione del grado di maturità di una tecnologia, sviluppata originariamente dalla NASA nel 1974 e successivamente modificata. Viene attualmente utilizzata da vari enti americani ed europei, quali il Dipartimento della Difesa americano, la NASA, l’Agenzia Spaziale Europea, la Commissione Europea ed altri; il TRL è definito su una scala di valori da 1 a 9, dove 1 è il più basso (definizione dei principi base, tipicamente area dell’università e centri di ricerca) e 9 il più alto (sistema già utilizzato in ambiente operativo, e quindi corrispondente alla commercializzazione).
Deeptech: una definizione
Per definire il “deeptech”, prendiamo spunto dall’ultimo report “The 2023 European Deep Tech Report” di Dealroom, secondo cui il “Deep Tech is fundamentally new science and engineering making its way into products and companies for the first time”. Il deep tech è un’area di investimento che sta crescendo molto in Europa, che può far leva sull’enorme potenziale dell’elevata qualità della ricerca scientifica che abbiamo e che ad oggi tutte le carte in regola per diventare un hub globale di eccellenza nel Deep Tech, pe vari motivi:
- Una ricerca fondamentale solida (ad esempio, 6 scuole tra le prime 20 a livello globale per l’informatica),
- talenti ben formati (circa 1,5 volte il numero di laureati in STEM rispetto agli Stati Uniti),
- maggiore supporto pubblico che mai (ad esempio, fondo NATO da 1 miliardo di euro, SPRIND, JEDI), e
- Sentimento positivo dei cittadini (il 90% degli europei pensa che l’influenza complessiva della scienza e della tecnologia sia positiva).
Gli ambiti di investimento del deep tech
Gli ambiti di investimento del Deep Tech sono vari e mutevoli: alcune tecnologie che una volta erano considerate all’avanguardia sono ora diventate mainstream e ampiamente adottate. Gli LLM (Large Language Models) in ambito AI per esempio stanno attualmente attraversando questa transizione. Sicuramente fanno parte del Deep Tech quantum computing, space tech, novel energy, advancede materials, computational biology & chemistry, robotics & drones fino alla cyber security.
L’Unione Europea sta investendo pesantemente per rafforzare l’ecosistema Deep Tech in Europa. Tuttavia, c’è una preoccupazione che questo sforzo sia insufficiente se non supportato adeguatamente da iniziative volte a rendere l’Europa più competitiva e imprenditoriale.
Sfide e opportunità degli investimenti in spin-off accademici europei
Ci sono grandi differenze nella gestione della proprietà intellettuale e dei team di ricercatori tra le università europee. Paesi come l’Italia hanno un potenziale enorme in termini di know-how, ma ogni università o centro di ricerca ha un quadro normativo unico per la creazione di uno spin-off, senza una visione comune su come coinvolgere operativamente i ricercatori che vogliono diventare fondatori di startup. L’Italia per esempio fino a pochi mesi fa era ancora tra i pochissimi paesi, insieme alla Svezia, dove le Università e gli Enti di Ricerca Pubblici non avevano la proprietà delle invenzioni generate dal loro personale nei loro laboratori. Ciò ha sicuramente contribuito a penalizzare tutto il sistema, che deve avere un quadro omogeneo e in linea con le best practice internazionali. Inoltre, gli uffici di trasferimento tecnologico sono ancora troppo piccoli e privi delle competenze adeguate per comprendere sia la gestione della proprietà intellettuale che le tematiche di business.
I grandi casi di successo internazionali nel tech transfer
ETH di Zurigo, Oxford e Cambridge sono grandi casi di successo internazionali, con il più alto valore in termini di spin-off creati dall’università. Basti pensare che, stando agli ultimi dai di Dealroom, l’ecosistema di Cambridge ha un valore di 191 miliardi di dollari, più di Spagna e Italia messe insieme. Ciò d’altronde è altresì coerente con gli sforzi che il governo inglese ha sempre sostenuto per supportare il deeptech e le iniziative imprenditoriali collegate al sistema universitario inglese. In UK il governo ha infatti adottato diverse iniziative politiche e fondi governativi sin dal 1988 per stimolare la cooperazione tra i ricercatori nelle università e gli imprenditori del paese. Questa cooperazione ha negli anni molto cambiato il modo in cui le università inglesi hanno organizzato le loro attività di Tech Transfer, fino a consolidare best practice di successo, che vanno dalla costituzione di società separate per la commercializzazione dell’IP sino a fondi di investimento dedicati a supportare la fase più critica del Tech Transfer, quella del cosiddetto POC – proof of concept.
Criteri di valutazione degli investimenti
In primo luogo, per selezionare gli investimenti occorre comprendere a fondo la tecnologia e, se già disponibile, l’idea imprenditoriale sottostante in cui stiamo investendo. È fondamentale essere in grado di “connettersi” con il ricercatore o scienziato con cui si sta discutendo della loro invenzione o idea, parlando la stessa lingua tecnica. Per questo motivo in Eureka! Fund, che investe in ambito advanced materials, abbiamo fisici, chimici e PhD in materials science.
Inoltre, è essenziale avere una strategia di brevetto chiara e ben definita, soprattutto quando si è nelle fasi di trasferimento tecnologico dall’università all’impresa, cosi da assicurare che il know-how correlato sia effettivamente accessibile alla nuova società spin-off.
Da non sottovalutare anche il tema del marchio, che identifica il prodotto o la tecnologia di una startup: in alcune società in cui abbiamo investito abbiamo dovuto negli anni fare opposizione o reagire a richieste da parte di altre società in merito a marchi che si sovrapponevano magari ad altri ambiti applicativi, arrivando a concludere degli accordi transattivi di co-esistenza di marchi.
In sintesi, ci sono tre è aree prioritarie di attività quando si parla di marchi: 1) studio estensivo preliminare, prima di decidere un marchio, 2) i marchi vanno usati e vanno create le prove d’uso; la cosa migliore sono le fatture, persino incorporare i marchi nei documenti di trasporto; 4) il monitoraggio, ossia avere una persona nella startup che segue marchi e brevetti, con lo studio esterno specializzato in proprietà intellettuale che ha in carico il portafoglio marchi con un attivo monitoraggio.
Infine, il mercato potenziale deve essere ben compreso, anche se la tecnologia non è ancora matura. Può capitare nelle fasi iniziali del trasferimento tecnologico che una tecnologia possa avere più ambiti applicativi; la due diligence del team di investimento si concentrerà quindi nel capire quali mercati siano più consistenti ma anche più raggiungibili in termini di anni di sviluppo e di capitali necessari per aumentare il techology readiness level, ossia il livello di maturità tecnologica dell’idea.
Preparazione degli spin-off universitari
Le università dovrebbero costruire una solida formazione imprenditoriale sin dai primi anni, mostrando anche i casi di successo per dimostrare ai giovani ricercatori che il trasferimento di conoscenza e ricerca scientifica in prodotti e innovazioni non solo è possibile, ma genera profitto, per tutti.
Le Università e i Centri di Ricerca potrebbero spingere di più e in maniera più strutturata sul leave of absence, ossia un periodo di congedo temporaneo che viene concesso ai ricercatori, professori o membri del personale accademico. Questo congedo è generalmente non retribuito e permette agli individui di prendersi una pausa dai loro obblighi accademici per perseguire altre opportunità o attività, come il technology transfer o l’imprenditorialità.Nell’ambito del technology transfer, il leave of absence è particolarmente rilevante perché permette ai ricercatori di dedicarsi allo sviluppo di una start-up o di un’azienda spin-off basata su una loro invenzione o scoperta scientifica. Durante questo periodo, i ricercatori possono lavorare a tempo pieno sulla commercializzazione delle loro ricerche, cercando finanziamenti, sviluppando prodotti, e portando avanti le attività necessarie per trasformare la loro innovazione in un’impresa di successo. Al termine del leave of absence, i ricercatori possono solitamente tornare alla loro posizione accademica originaria.
Panorama generale degli investimenti
Il quadro generale in Europa è variegato: ci sono alcuni paesi come il Regno Unito o la Svizzera che sono leader nel tech-transfer e nelle aziende basate su IP; la Germania ha casi di successo come il sistema Fraunhofer, e Stoccolma ha un grande hub deeptech; la Francia in 10 anni ha stanziato per la Ricerca e il Trasferimento Tecnologico 77 miliardi di euro (secondo quanto pubblicato dal Gouvernement France), finanziato 13 Società di Accelerazione del Trasferimento Tecnologico e formato circa 650 persone che lavorano nel TT in queste strutture pubblico-private, in aggiunta a quelle presenti nei Tech Transfer Offices (TTO) della ricerca pubblica.
Un altro Paese molto attivo è sicuramente il Regno Unito. Basti pensare che secondo un recente studio di London Economics, la sola Università di Cambridge contribuisce all’economia del Regno Unito per quasi 30 miliardi di sterline. Oltre il 77% di questo contributo totale è il risultato della commercializzazione delle attività di trasferimento delle conoscenze. Inoltre, nel Regno Unito si contano circa 4.000 professionisti che lavorano nei TTO delle circa 150 università inglesi, ossia circa 25 persone per istituto. Numeri decisamente maggiore rispetto per esempio all’Italia, dove secondo il Report Netval 2024 (che riunisce 65 Università e 15 Enti pubblici di ricerca italiani) il numero degli addetti coinvolti nel trasferimento tecnologico ammonta a 436 persone, con un valore medio di sole 5,7 unità , ben al di sotto della media di altre aree d’Europa comparabili all’Italia. Senza considerare che se si prendono gli i primi 5 enti italiani, questi impiegano complessivamente 90 addetti, lasciando quindi poche unità a tutti gli altri.
Passando oltre oceano, solo negli Stati Uniti dal 1996 al 2020 il contributo del Trasferimento Tecnologico al GDP americano è stato di un trilione di dollari e ha supportato la creazione di più di 6 milioni di posti di lavoro.
Come ecosistema europeo che vuole promuovere il deeptech e l’innovazione europea, dovremmo cercare di replicare le storie di successo dei migliori paesi in paesi quali l’Italia, la Spagna e i paesi dell’Europa orientale. Questi paesi dovrebbero anche essere idonei a ricevere molte più risorse finanziarie da enti europei, come il Consiglio Europeo per l’Innovazione e il Fondo Europeo per gli Investimenti. Secondo l’ultimo rapporto EIF (2023), ad esempio, solo 4 fondi italiani hanno ricevuto 109 milioni di euro contro 11 fondi francesi che ne hanno ricevuti 339,5 milioni (più di 3 volte tanto). E se guardiamo all’ultima cut-off dell’EIC di marzo 2024, che stanzia ingenti risorse per il deep tech europeo, scopriamo che solo 4 startup italiane (tra cui una finanziata da Eureka! Fund) su 68 sono risultate vincitrici, contro le 13 di Francia, 13 di Germania e le 6 della Spagna, per un totale di poco più di 18M€ contro rispettivamente 156,4 M€, 124,5 M€ e 53,8 M€.
Il panorama del Technology Transfer in Italia
In Italia il fenomeno del tech transfer e dell’interesse verso il deep tech è decisamente più recente. Peccato, perché il sistema italiano dell’innovazione e della ricerca è davvero prezioso e rappresenta il nostro “sommerso da valorizzare”. A livello di centri di ricerca e università, oltre ad esserci pochi casi virtuosi di tech transfer, ancora non si è sviluppato un modello unico o consolidato di trasferimento di tecnologie e innovazioni dalla ricerca al mercato. Ricordo, solo a titolo di esempio, i casi di fondi dedicati ad investire in PoC quali quello dell’Istituto Italiano di Tecnologia, di ENEA, del Politecnico di Torino o dell’Università di Bologna. Ci sono anche iniziative esterne quali il PoC Instrument promosso dalla Fondazione bancaria Compagnia di San Paolo, che ha sottoscritto un’apposita convenzione con 5 università italiane: Politecnico di Torino, Università degli Studi di Torino, Università del Piemonte Orientale, Università degli Studi di Genova e Università degli Studi di Napoli Federico II. E ancora, il bando PoC promosso dell’Università di Pisa finanziato da una corporate.
Il ruolo di CDP Venture Capital SGR
Tra le iniziative finanziarie recenti più di successo e che dovrebbe contribuire in maniera determinante alla crescita degli investimenti in deep tech e technology transfer va menzionata sicuramente CDP Venture Capital SGR; come ricordato nel Quaderno AIFI n. 54 dedicato proprio al Technology Transfer, nel 2020 CDP ha lanciato il Fondo Technology Transfer della dimensione di 285 milioni, che opera attraverso un mix di investimenti diretti e indiretti, ponendosi come attore di riferimento in Italia per superare il gap di competenze e capitali tra la ricerca scientifica e i bisogni di mercato, con il fine ultimo di creare nuove generazioni di imprenditori e di investitori di successo.
Elemento di innovazione del Fondo Technology Transfer di CDP Venture Capital è la sua duplice logica di investimento. Interviene direttamente sulle startup che arrivano dalla ricerca scientifica nella loro fase iniziale di sviluppo, anche quando sono ancora progetti imprenditoriali in laboratorio, per ridurre il rischio legato all’implementazione tecnologica e per rendere i progetti comprensibili e interessanti per il mercato del venture capital e industriale.
L’altro obiettivo è finanziare nuovi fondi di venture capital altamente specializzati sulle tecnologie di frontiera, per supportare la crescita delle startup più promettenti. Il fondo si focalizza su specifiche aree della ricerca scientifica e tecnologica particolarmente rile- vanti per il nostro Paese e promettenti in ottica venture capital (i.e. agri-food tech, advanced manufacturing, sustainability, robotica, life-science, aerospace/AI). Su tali aree, stipula da un lato accordi con primarie università e centri di ricerca per finanziare le fasi iniziali di vita delle startup attraverso la costituzione di poli nazionali di Tech Transfer (poli TT), e, dall’altro avvia l’operatività di nuovi gestori di fondi verticali specializzati (fondi VC settoriali) per supportarne la crescita sul mercato.
In precedenza, nel 2016 era stata lanciata la prima iniziativa pubblica a trazione privata denominata Piattaforma ITAtech, grazie all’azione di sistema condotta da CDP e European Investment Fund che hanno siglato un accordo di co-investimento per complessivi 200 milioni di euro, parimenti impegnati (100 milioni di euro cadauno). ITAtech ha cosi lanciato i primi fondi di puro Trasferimento Tecnologico operanti in Italia, ponendo così le basi per l’accelerazione di questo fenomeno, nonché promuovendo e incentivando la costituzione di team dedicati con una forte expertise in selezionati settori tecnologici. Ad oggi, la Piattaforma ITAtech ha finalizzato 5 operazioni di investimento in 5 fondi di Trasferimento Tecnologico (tra cui Eureka! Fund), tutti first time team, pienamente operativi, allocando complessivamente tutto il capitale disponibile per investimenti.
I risultati cominciano a vedersi anche nella piccola Italia, come evidenziato dalle recenti rilevazioni semestrali del VEM, Venture Capital Monitor, di cui si riporta una slide.