Aprire nuove imprese in generale è sempre un bene, ma non è affatto giusto che a finanziarle sia un Fondo pubblico a meno che non si dimostri la convenienza non solo economica del parteciparvi.
Sarebbe dunque necessario aprire una riflessione sia sui criteri di utilizzo del nuovo Fondo Nazionale Innovazione – che non dovrebbe erogare finanziamenti a pioggia ma stabilire criteri selettivi intesi a individuare non solo prodotti realmente innovativi ma anche criteri manageriali etici – sia sulla logica stessa della startup che nella stragrande maggioranza dei casi ha come obiettivo quello di rendere concreta una idea di business per poi venderla ad una azienda più grande o ad un socio più consolidato.
Ha senso investire fondi pubblici senza uno sguardo strategico di medio-lungo termine e senza considerare un ritorno in termini di capacità innovativa del sistema Paese?
A rispondere all’ardua questione dovranno essere Francesca Bria e Enrico Resmini, rispettivamente Presidente e Amministratore Delegato al fondo CDP Venture Capital, il fondo volto in particolare a sostenere lo sviluppo del venture capital e delle startup italiane.
La nuova iniziativa disporrà di un fondo di circa un miliardo di euro, una cifra molto importante per un paese come il nostro che ogni anno cerca di recuperare risorse per poter fare investimenti.
Francesca Bria porta con sé l’esperienza di assessora dell’innovazione di Barcellona e numerosi lavori scientifici sui temi dell’innovazione nei quali ciò che maggiormente la contraddistingue è una attenzione “sociale” che mette insieme digitale e come esso può essere impiegato per migliorare le condizioni generali.
Etica e startup, un rapporto controverso
Negli ultimi anni sono esplosi proprio dal settore internazionale delle startup diversi casi importanti di comportamenti non etici come nel caso di Uber ma anche di WeWork, etc. Casi che hanno evidenziato come non sia sufficiente ingrandire aziende (spesso in perdita) ma sia necessario anche che queste siano gestite attraverso una particolare attenzione ai criteri di etica (oltre che di business).
Di etica si parla anche, sempre di più, relativamente al tema delle condizioni di lavoro di chi opera nella “gig economy”, dai rider alla logistica, con i problemi connessi alla gestione del lavoro da parte delle piattaforme e talvolta ai salari sotto il minimo di sussistenza.
Infine, ma non meno importante, si parla di etica nell’utilizzo delle più moderne tecnologie come l’intelligenza artificiale che consente di creare applicazioni sofisticatissime che però possono essere utilizzate contro i normali cittadini attraverso, da un lato, una eccessiva invadenza nella nostra privacy, dall’altro un utilizzo incontrollato da parte di regimi totalitari o per attività contrarie ai diritti dell’uomo. Fino alla sperimentazione della nuova frontiera dei robot utilizzati in teatri di guerra con delega ad uccidere.
Chi paga il prezzo del successo delle startup
Il fenomeno delle startup è interessante per il potenziale di innovazione che può mettere in circolo nel sistema attraverso l’abbassamento delle barriere all’ingresso di nuovi soggetti che sono portatori di idee e competenze nuove e questo sicuramente è un bene, anche se spesso l’altra faccia della medaglia è un eccessivo sfruttamento dei giovani lavoratori. Pensiamo al diffuso uso di lavoro gratuito approfittando dell’impetuosità e della volontà dei giovani di farsi avanti. Spesso abbiamo assistito ad annunci di startup che cercavano lavoratori promettendo di ripagarli con “visibilità” o con “azioni” da cambiare in denaro in future ipotetiche quotazioni milionarie in borsa.
Quotazioni milionarie sempre più rare anche negli Usa dove il fenomeno ha subito un raffreddamento rispetto a qualche anno fa e molti giovani preferiscono ora guardare con molto più realismo a un posto fisso presso un’impresa che paga bene e ogni mese più che ad avventure imprenditoriali che rischiano di lasciare diverse scottature.
Per diventare imprenditore non basta una buona idea
Nell’ecosistema delle startup spesso chi fa più denaro non sono le startup stesse ma tutto quel mondo di servizi ad esse collegato – dai co-working, agli incubatori o agli acceleratori – che si fanno pagare per i servizi che offrono ai giovani impegnati nelle iniziative, rilevano quote azionarie a costo zero o emettono parcelle di consulenza. Rivolgersi a professionisti capaci costa, non è da criminalizzare nessuno anche se il rischio di persone che si approfittano di “giovani imprenditori” non è raro. Per diventare imprenditore non basta una buona idea.
Se da una parte le startup possono essere lo sbocco economico per ripagare giustamente gli sforzi di studi e ricerche in settori innovativi, dall’altra non di rado vediamo “startup innovative” che di innovativo hanno davvero poco: magari sviluppano un’app per fare qualcosa che prima si faceva in un altro modo ma dove non c’è né nuova tecnologia, né reale innovazione. Il che va molto bene per aprire una azienda che magari in futuro arriverà al profitto ma che non aumenta le capacità innovative del Paese, non aiuta il cosiddetto “sistema paese”.
Fondo nazionale startup: finanziare le imprese etiche
Come abbiamo già accennato, dunque, sarebbe opportuno porre l’accento sulla necessità di privilegiare criteri manageriali etici, evitando che vi possano essere soggetti che in modo parassitario possano guadagnare dalle startup, evitando di finanziare business plan dove i costi per servizi esterni siano gonfiati da marginalità ingiustificate o evitando di finanziare startup che siano coinvolte in iniziative eticamente e socialmente non responsabili.
Questo non solo per una regola di buon utilizzo dei fondi disponibili ma anche per evitare meccanismi di “spiazzamento” delle altre aziende tradizionali che fanno fatica a finanziarsi dal mercato bancario e che devono seguire regole stringenti sulle condizioni di lavoro e quant’altro. Il rischio è quello di far crescere nuove aziende che possono permettersi di operare in perdita o non pagando in modo adeguato chi vi lavora a spese delle altre che queste facilitazioni non le hanno e dove a guidare la crescita delle startup non sarebbe l’idea o il talento ma condizioni eccezionalmente favorevoli di disponibilità di fondi.
Sarebbe anche necessario ripensare la logica delle startup che, per loro natura, hanno come obiettivo la “exit”, non quello di portare avanti negli anni le imprese: questo è lecito per un imprenditore ma meno utile quando si utilizzano fondi pubblici. Questo è quello che è avvenuto con le moltissime aziende acquisite dalle big del web (Facebook, Google, etc), tanto che negli Usa sono in corso indagini per capire se questo non abbia distorto il mercato attraverso la incorporazione di potenziali concorrenti e lo abbia leso con una condizione di oligopolio e di strapotere da parte delle grandi aziende. Far nascere e crescere startup innovative attraverso finanziamenti pubblici in perdita e poi, una volta che cominciano ad avere un vantaggio competitivo, venderle ad aziende estere che portano via il know-how o i brevetti è un ottimo affare per un venture capital privato ma meno per uno pubblico.
Sarebbe ad esempio importante fissare dei criteri di comportamento del Fondo nel caso una delle startup finanziata riuscisse a sviluppare una potenzialità innovativa tale da prospettare un vantaggio competitivo da parte del nostro Paese e gli si ponesse di fronte un acquisitore estero, affinché non sia possibile vendere tutto per massimizzare il profitto ma si avesse uno sguardo strategico di medio-lungo termine per costruire un soggetto in grado di far recuperare terreno al nostro sistema economico creando posti di lavoro di qualità e sui settori di frontiera. Con le startup finanziate sarebbe utile fare un patto nel quale il finanziamento comporta il rispetto di alcune regole di convenienza generale.
Meno startup più ecosistemi dell’innovazione
Negli ultimi anni Mariana Mazzuccato ha evidenziato potenzialità e rischi delle startup, in un articolo ormai del 2014 sull’Economist invitava a considerare con attenzione mito e l’ossessività nei confronti delle startup. In quell’articolo riportava le cifre dell’impegno della Gran Bretagna che pur avendo speso circa 15 miliardi di euro (e parliamo di cifre di sei anni fa ormai) non ne aveva avuto i benefici attesi. Invitava piuttosto a concentrarsi sulla costruzione di un ecosistema dell’innovazione attraverso investimenti pubblici.
L’intervento privato nelle startup è salutare se accompagnato da un investimento generale in un ecosistema dell’innovazione fatto di ricerca e formazione (come spiega la Mazzuccato) in un quadro bilanciato di fattori.
Oggi la situazione è tale che sarebbe utile anche un intervento pubblico diretto in aziende nei settori dove è evidente un fallimento di mercato, ovvero dove le aziende private grandi non sono in grado o non ritengono conveniente di intervenire.
Per sostenere lo sviluppo del settore dell’innovazione è necessario mettere in campo importanti investimenti nella ricerca applicata e nella realizzazione di prodotti e nella condizione italiana (ma direi europea) solo un intervento diretto dello stato può fare. Il capitalismo finanziarizzato odierno fa in modo che le aziende private siano sempre più concentrate a raggiungere gli obiettivi trimestrali degli azionisti e non abbiano il “fiato” necessario ad operare in perdita per tempi ragionevolmente medio-lunghi come è necessario in questo settore.
I colossi delle tecnologie mondiali sono in grado di investire cifre importantissime spesso frutto di proventi oligopolistici (se guardiamo le big del digitale), elusione fiscale o sostegno di Stato (come il caso cinese ma non solo) e non è possibile ritagliarsi alcuno spazio senza che vi sia uno o più soggetti pubblici che possano entrare in campo. Le uniche aziende europee che stanno reggendo il confronto internazionale sono quelle in cui è presente l’intervento pubblico come ad esempio Airbus. Ormai l’alternativa all’intervento pubblico è la deindustrializzazione e l’impoverimento generale, siamo in una emergenza al pari del clima o del Covid-19. Non c’è da scandalizzarsi, la storia del capitalismo europeo è stata fatta con imprese ad intervento pubblico diretto o con imprese private fortemente sostenute dall’intervento pubblico.
L’esempio di Adriano Olivetti
Proprio in questi giorni ricorre il 60° anniversario della scomparsa di Adriano Olivetti (27 febbraio 1960), modello indiscusso di innovazione che è stato in grado di mettere insieme centralità della persona, profitti, innovazione di avanguardia e non possiamo non fare i conti con questa eredità costruendo un Venture Capital pubblico che opera sul mercato. Una esperienza, quella di Adriano Olivetti, che è così fortemente attuale da poter guidare i criteri della riflessione che ho sollecitato poc’anzi. In questo senso il nuovo Fondo potrebbe rivelarsi la migliore risposta evitando di inseguire modelli totalmente diversi dal nostro e che non sempre si sono rivelati esempi di eccellenza. La Olivetti non fu mai finanziata dallo Stato, anzi venne non di rado contrastata dalla politica del tempo ma può insegnarci come sia possibile avere capacità di sviluppare innovazione e trasformarla in impresa solida.
Adriano Olivetti ci consente di tracciare una via italiana, certo non per una questione squisitamente di orgoglio nazionale ma per la sua capacità concreta di coniugare benessere sociale, innovazione e utili aziendali. Un’innovazione in grado di mettere al centro la persona e la comunità sociale dove essa vive. I criteri guida del Fondo non possono essere solo assoggettati al profitto o al numero di investimenti effettuati o soldi spesi ma dovrebbero essere bilanciati con una serie di criteri più ampi e articolati al fine di misurarne meglio i risultati e l’efficacia della sua gestione.
Non possiamo non fare appello al Governo che ha istituito il Fondo per l’Innovazione e in subordine al Presidente del Fondo, al suo management e a CDP a creare regole e criteri operativi al fine di utilizzare al meglio questo importante veicolo e dargli quella visione strategica e quella operatività che tutti ci aspettiamo.