venture capital e startup

Fondo Rilancio di CDP, come funziona e perché è importante per l’innovazione del Paese

L’Italia fa finalmente un enorme passo avanti in termini di attrattività nei confronti di investitori internazionali sofisticati, che non hanno mai trovato corrispondenze italiane sulle pratiche internazionali. È però solo un primo passo: servono ora ulteriori politiche economiche per diventare una vera startup nation

Pubblicato il 26 Nov 2020

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

Il neonato Fondo Rilancio da 200 milioni di euro per startup sarà guidato – a quanto risulta ad Agendadigitale.eu- da Enrico Maini che è una figura che incrocia numerose esperienze sia in ambito finanziario che imprenditoriale e manageriale in fondi ed imprese tech in Italia e all’estero.

Il fondo investirà in un ampio numero di startup tecnologiche italiane ad alto potenziale. Ma non si tratta semplicemente di “un altro fondo”, bensì di uno strumento totalmente nuovo per l’Italia e che aiuterà l’intero ecosistema a maturare.

Il modello d’investimento del Fondo Rilancio

Tecnicamente il Fondo, di Cdp Ventures – istituito grazie al decreto Mise della scorsa settimana attuativo del decreto Rilancio – opererà con un modello di investimento in matching a leva 4:1 con tetto fissato ad 1 milione di euro in ogni startup che raccolga almeno 250mila euro da coinvestitori privati.

Questi coinvestitori potranno essere soggetti ‘qualificati’ da CDP Venture Capital secondo criteri finalmente ampi e di mercato, cioè soggetti che a prescindere dalla natura giuridica si presentino con un track record dimostrabile in operazioni di questo genere, definibili come Acceleratori, Business Angels, società di investimento come family office o club deal, oltre ai tradizionali investitori regolamentati come le SGR, le SICAF, le SIS che rientrano nella definizione di investitori regolamentati. A questi ultimi è riservata una quota del 30% della dotazione del fondo, quindi per sottrazione il 70% andrà alle portfolio di soggetti che tipicamente investono in startup early stage. E già questa è una novità non indifferente, perché si stabilisce che le startup sono tutte meritevoli di capitale di rischio di Stato a prescindere se siano nel portfolio di investitori regolamentati o meno, e a prescindere dallo stadio di maturità: il distinguo è l’elevato potenziale di crescita.

Limite importante da tenere presente: il Fondo investirà solo in startup di diritto italiano che abbiano in Italia il fulcro della propria attività, quindi niente unità locali di startup headquartered altrove: se si è scelto di avere la società in Delaware o in UK, e di tenere qui solo una controllata con gli sviluppatori secondo il tanto furbesco modello ‘dual’, non si potrà pensare di andare a bussare per chiedere soldi di Stato. Ma lo stesso requisito non c’è sugli investitori con cui fare matching, che potranno essere invece basati ovunque – ovviamente, visto che vengono a portare soldi in imprese italiane.

Altro aspetto rilevante è che non potranno essere le startup a candidarsi direttamente per il fundraising: a presentare le candidature dovranno essere i coinvestitori, che si potranno qualificare attraverso un portale web che verrà messo online in una data che verrà annunciata presto.

Startup e venture dopo il decreto Rilancio: novità buone e cattive

La modalità d’intervento del Fondo di Rilancio

Ma la grande particolarità del Fondo Rilancio è la sua modalità di intervento, attraverso cui finalmente si ‘sdogana’ nel Paese lo strumento ormai decennalmente impiegato internazionalmente dai venture investor di ogni classe – e soprattutto da quelli early stage – attraverso il modello contrattuale del SAFE creato da YCombinator, il più noto acceleratore al mondo basato in Silicon Valley, che CDP Venture Capital riporta nel diritto italiano, ed incardinandone i termini nello strumento del finanziamento in convertendo. Quindi niente più ‘convertibili’, già più comuni, e nemmeno Strumenti Finanziari Partecipativi (SFP) complicatissimi ed onerosi, ma semplici contratti tra privati che soprintendono a versamenti in conto ‘futuro aumento di capitale’.

L’adozione del SAFE farà felici tutte quelle startup e quegli investitori più sofisticati che sempre più da anni finiscono per evitare il Paese per l’incultura media che ne caratterizza gli attori, portando una ventata di quella snellezza operativa che caratterizza le startup tech di tutto il mondo, dettata dalla logica per cui le risorse finanziarie che vengono immesse nei progetti trasformativi non debbano essere né affardellate da mesi di negoziazioni che producano solo rigidità che non mitigano il rischio – una startup tech ha decine di motivi indirimibili per cui può fallire e far perdere i capitali a chi ci ha investito, trattandosi intrinsecamente di alto rischio – né tantomeno drenate da spese legali ingiustificate in termini di costo/opportunità.

Con il SAFE si acquisisce un diritto di conversione, e non si diventa soci finché non interviene un trigger event (una exit, un cambio di controllo, una quotazione, un aumento di capitale successivo) che faccia scattare l’esercizio del diritto. Inoltre, il SAFE risolve l’altro grande problema degli investimenti nel Paese che è la valutazione pre-money delle startup, da anni oggetto di un braccio di ferro tra investitori che non capiscono i criteri del venture e spingono per valori bassissimi, e imprenditori che spesso e volentieri propongono – soprattutto nel crowdfunding, va detto – valori spesso scollegati da qualsiasi criterio e basati sostanzialmente dallo storytelling. Nel SAFE, molto semplicemente, il valore non si fissa: lo si lega a quello che verrà riconosciuto successivamente da un investitore di classe superiore, scontato di una percentuale che diventa il guadagno conseguito dall’investitore di fase precedente, eventualmente inserendo anche un limite (cap) a questo valore.

Ecco quindi che il valore di conversione può essere “valutazione pre-money futura meno 5-25%, con cap a x milioni”; dove x è oggetto di negoziazione tra le parti ma più spesso è legato allo stage del round per cui sarà fino ad una grandezza di pochi milioni per un pre-seed (si investe in un team con un concept da validare) e delle decine per un seed (si investe in un concept validato da portare ad un primo test di mercato attraverso un prototipo). L’adozione di questo strumento, quindi, rimuoverà il più comune dei problemi che incontrano le startup italiane ovvero che, quando hanno successo, si trovano a non poter essere investibili da fondi internazionali perché le partecipazioni dei fondatori sono eccessivamente ridotte a discapito dei primi investitori.

Un enorme passo avanti nell’attrattività del Paese

Questo Fondo quindi, per le modalità operative con cui è congegnato, costituisce un enorme passo avanti nell’attrattività del Paese nei confronti di investitori internazionali sofisticati, che non hanno mai trovato corrispondenze italiane intorno alle pratiche internazionali ed anzi trovano sempre e solo ‘strane’ modalità di investimento, nel Paese, regolarmente disallineate dalle metodologie consolidate nei paesi maturi.

Il nuovo strumento di coinvestimento introdotto con il Fondo Rilancio è un’idea eccellente, che mette per la prima volta in tanti anni l’Italia in una posizione ‘tra pari’ tra i Paesi che adottano le best practices internazionali. Lo fa con la sua intrinseca snellezza operativa (deve investire in centinaia di startup in tempi inimmaginabili per un fondo tradizionale), lo fa per come posiziona correttamente lo Stato a leva di potenziamento e mitigazione del rischio su progetti che dimostrano di meritare investimenti da parte di privati, e lo fa per come contestualmente instaura prepotentemente l’uso del SAFE dal giorno alla notte in un Paese che ha sempre preferito reinventare la ruota anziché adottare le regole del gioco che in tutti gli ecosistemi startup maturi generano imprese tecnologiche di successo globale.

Fondo Rilancio, pur essendo fondato su criteri di mercato, ha anche alcune peculiarità legate alla crisi economica generata dalla pandemia e volute dal Governo, per cui valuterà prioritariamente startup che abbiano subito un danno dimostrabile legato all’emergenza covid-19 ovvero che siano già state oggetto di sostegno da parte dello Stato attraverso Smart & Start, ma si tratta semplicemente di una precedenza visto il momento in cui è stato lanciato. Ma l’effetto della sua discesa in campo con i cambi di paradigma che si porta dietro potrebbe essere un vero punto di svolta per l’economia dell’innovazione italiana, probabilmente ben più impattante di quanto non fu lo Startup Act del 2012, accompagnando per la prima volta l’Italia nel venture business internazionale senza quelle distorsioni ed autoreferenzialità che ci hanno fatto rimanere indietro fino ad oggi.

Conclusioni

La rincorsa è appena iniziata, è bene chiarirlo, e sarà fondamentale che il Governo non si fermi qui ed insista ad introdurre ulteriori politiche economiche che producano “riallineamenti” con le altri grande economie che giocano la sfida delle nuove imprese tech del futuro: il Paese possiede tutti gli ingredienti per essere una grande startup nation, ma deve imparare a metterli insieme nel modo corretto e deve imparare ad aprirsi ancora di più agli attori internazionali e a quei modelli consolidati da decenni di esperienza.

E per farlo servono ancora altre riforme, sia lato impresa che lato investimenti, che siano coordinate in una strategia basata su cognizione di causa, non semplicemente fondate nel ‘mettere soldi su un’area di interesse’ come troppo spesso ragiona una parte della politica, e che non possono più aspettare: abbiamo la guida del G20 davanti a noi: non possiamo perdere l’occasione per far vedere che l’Italia, sebbene arrivi sempre tardi, quando infine arriva si siede in prima fila.

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