Politecnico di Milano

Ghezzi (Polimi): “Per le startup italiane segnali di svolta nel 2016”

Guardando i nuovi dati di Infocamere, si deve dire che l’aumento in numero di startup innovative da solo non può essere considerato indicatore di crescita; inoltre, ad oggi non si può ancora osservare un impatto macroeconomico significativo da parte delle startup innovative. Però si vedono buoni segnali di una svolta, sia sugli investimenti sia sulla una crescente attenzione da parte delle imprese consolidate per l’ecosistema startup italiano

Pubblicato il 27 Ott 2015

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I dati e le relative analisi pubblicate qualche giorno fa da Infocamere sono sicuramente interessanti a livello di indicatori delle dimensioni del fenomeno “startup innovative” nel suo complesso.

L’aumento in numero di startup innovative da solo non può essere considerato indicatore di crescita; inoltre, ad oggi non si può ancora osservare un impatto macroeconomico significativo da parte delle startup innovative.

Tuttavia, si possono interpretare positivamente alcuni segnali.

Ad esempio, noi come Osservatorio Startup Hi.tech da quattro anni seguiamo le startup finanziate (quindi ci focalizziamo su un sotto-campione di casi virtuosi, che appunto ricevono finanziamenti) e quest’anno ci siamo interrogati sull’effettiva crescita di tali startup in termini di turnover/fatturato generato e occupazione creata (a livello di dipendenti dichiarati a bilancio). Per le startup finanziate dal 2012 che consideriamo, tutti gli indicatori sono in crescita: dunque le startup che ricevono finanziamenti mostrano un trend molto positivo (e costituiscono il “cuore pulsante” del fenomeno delle startup innovative in senso ampio).

Lato offerta, abbiamo analizzato molte startup interessanti in questi anni, tutte con un comune problema: la difficoltà di reperire grandi somme per poter competere a livello internazionale. Se guardiamo alle top finanziate di quest’anno, le startup che hanno ricevuto più investimenti almeno in parte hanno visto un contributo da investitori esteri.

Un dato positivo è che invece la fascia pre-seed e seed investment (investimenti di taglio più piccolo) sta crescendo, aumentano i venture incubator (incubatori dalla doppia anima che non soltanto incubano ma anche investono) e i club deal. Mancando però investitori domestici che investano grandi somme, rischiamo che le migliori startup prodotte dal nostro ecosistema siano poi (proprio quando il loro impatto macroeconomico potrebbe diventare significativo) costrette a spostarsi all’estero per ottenere capitali più agevolmente (vedasi il caso di Decisyon che citiamo nel nostro report tra le startup significative).

A fronte dell’analisi di quest’anno, siamo comunque ragionevolmente ottimisti sul fatto che nel breve-medio termine (dal 2016 in avanti) anche gli investitori istituzionali, che in questo biennio 2014-2015 hanno completato la loro fase di raccolta, potranno tornare ad investire; peraltro, confidiamo che anche la componente di investitori non istituzionali sia destinata a crescere ulteriormente.

Poi, è vero, le startup italiane sembrano ancora non integrate nel nostro tessuto industriale. Si può ipotizzare che ciò derivi dalla sostanziale giovinezza del comparto startup hi-tech in Italia. Tuttavia, i fenomeni della Corporate Entrepreneurship (investimenti in startup da parte di grandi imprese) e delle Exit da noi mappate (spesso legate al Trade Sale, quindi all’acquisizione da parte di partner strategici) mostrano una crescente attenzione da parte delle imprese consolidate per l’ecosistema startup italiano. All’interno degli Osservatori Digital Innovation cerchiamo di alimentare questi fenomeni virtuosi attraverso il progetto Startup Intelligence, che mira ad avvicinare il mondo delle imprese a quello delle startup attraverso lo scouting di startup che operano su settori verticali (di interesse appunto per le imprese partner).

Nell’ambito di questo progetto emerge comunque un ulteriore problema: spesso è l’ufficio acquisti interno a “fare muro” rispetto al concedere una fornitura ad una startup piuttosto che ad un’altra azienda consolidata (che può fornire maggiori garanzie, almeno sulla carta).

Per quanto riguarda il rischio d’impresa, ricordiamo che di fatto, le startup hi-tech sono tutte ad alto rischio di fallimento: chiaramente tale rischiosità elevata risulta ben remunerata se la startup ha successo. Queste startup hanno sovente bisogno di una significativa “massa critica” di utenti, che diviene il loro asset principale allorché la si ottiene, ma è molto complessa da creare. L’Italia, rispetto a colossi difficilmente paragonabili come USA e Cina, ha limitazioni strutturali in termini di bacino potenziale di utenti; vediamo comunque positivamente quelle startup le cui iniziative di business fanno leva sul classico “made in Italy”, ossia su quegli elementi distintivi della nostra identità nazionale all’estero (e.g. food, fashion, design, tourism) per vincere le barriere geografiche e diventare “appealing” a livello internazionale.

Tra questi casi di successo potremmo citare i portali e-commerce del food e design, quali eboox, eataly.net, Cortilia (per quanto concerne la food industry), lovethesig, Lovli – che ha appena chiuso un accordo di collaborazione con Alibaba – (in ambito design).

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