La turbo finanza US sta facendo una grande scommessa sulle startup high tech americane, una scommessa associata ad un’iniezione di capitale senza precedenti.
La notizia non è necessariamente da accogliere con giubilo, perché l’ultima volta che si era visto un entusiasmo nel genere è scoppiata la bolla. Nel 2015, 80 startup avevano raggiunto lo status di “Unicorni”, con una valutazione di oltre 1 miliardo di dollari. Oggi siamo a 900 unicorni. Una mandria di società tecnologiche e forse mitologiche che hanno l’obiettivo di migrare dalla Silicon Valley e colonizzare il mondo intero.
La corsa sfrenata delle startup negli USA
La situazione è così folle che non sono più le startup a fare pitch con gli investitori, per avere i loro soldi. Sono gli investitori a farle per convincere le startup. E tutto si chiude nel giro di pochi giorni – addirittura dal venerdì alla domenica – tanta e tale è la concorrenza tra i venture.
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Sarà la nuova normalità pandemica, saranno le grandi opportunità di un mondo che è sempre più forzatamente digitale, fatto sta che nei settori dell’intelligenza artificiale, delle crypto, del delivery e della logistica per l’ecommerce gli investimenti stanno esplodendo.
Nel 2021 sono stati investiti in startup tecnologiche 330 miliardi di dollari, contro i 167 miliardi di dollari del 2020.
L’iniezione di capitale non arriva solo sulla base di ricerche di mercato che indicano spazi immensi di posizionamento e nuovi mercati, ma anche per le incredibili opportunità di ritorno di investimenti che si stanno schiudendo. Nel 2021, sono stati riversati durante le quotazioni e nelle acquisizioni da parte di Big Tech oltre 770 miliardi.
Se ipotizziamo un arco temporale di 4 anni per arrivare alla quotazione o alla vendita ad un colosso tech, i 770 miliardi transati nelle exit stanno agli 80 miliardi di dollari investiti in startup nel 2017 come 9,7 sta a 1. Per gli investitori si tratta dunque di multipli interessanti e unici.
Non è un caso i fondi di venture capital stanno a loro volta beneficiando di iniezioni di capitali da parte dei fondi di investimento, delle grandi banche e dei filantropi miliardari (Gates, Bezos, Musk)
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La concorrenza tra venture sta anche ampliando l’ambito di investimento e ora ci si sposta sempre più su innovazioni di frontiera: dalla blockchain alle biotecnologie, alle reti energetiche, alla mobilità, allo spazio.
E l’Italia? Insomma
E L’Italia? Sono paragonabili i due mondi? Nella fase iniziale c’è ancora qualche somiglianza. Nel recente report di IAG nella fase pre-seed e seed, ovvero nella fase del prototipo e dei primi clienti, la valutazione media di una startup in Italia è stata nel 2021 rispettivamente di 2,5 milioni e 4,5 milioni di euro.
Non siamo cosi lontani dai 6,3 e 9,5 milioni di dollari US. Ai blocchi di partenza dunque le opportunità sono comparabili. Poi però il divario si amplia fino a diventare incomparabile. Nella fase successiva, quella della crescita, che si indica con l’espressione Round A, le valutazioni in Italia si aggirano sui 10 milioni di euro. Mentre in US, la valutazione media è di 45 milioni di dollari. Il problema è la fase successiva, quella che si identifica con i round B e C, che preparano fondamentalmente alla Exit o alla quotazione in borsa. Ed è li che cominciano i problemi per le startup italiane.
Anche per l’Italia il 2021 è stato l’anno dei record nel venture capital. Quasi un miliardo e mezzo sono stati investiti in startup digitali e tecnologiche, con un taglio medio di investimento di 4 milioni di euro.
I settori che hanno attratto più investimenti sono quelli dell’immobiliare con la startup Casavo (100 milioni), della logistica con Milkman (25 milioni), del fintech con Conio e Satispay che hanno raccolto rispettivamente 20 milioni e 160 milioni di euro.
Un problema di exit
Se la parte di input di denaro sta prendendo un ritmo paragonabile a quello di altri paesi europei – con una differenza però di un ordine di grandezza rispetto al contesto US – la parte di output ovvero di recupero degli investimenti, o per dirla in altro modo delle Exit lascia decisamente a desiderare.
Di contro, la Francia ha appena festeggiato il 25esimo unicorno e nel 2020 è diventato il primo Paese per investimenti in startup superando la Germania: 5,4 miliardi di euro e poi 11,4 miliardi di euro nel 2021, dieci volte rispetto all’Italia.
Si leggono periodicamente notizie di Exit delle startup italiane, ma generalmente si tratta di exit undisclosed. Ovvero vendite i cui termini e i cui valori rimangono secretati dagli accordi industriali tra le parti. In alcuni casi potrebbe essere opportuno tenere nascosti i termini dell’acquisizione, ma nella maggior parte dei casi le exit undisclosed nascondono ritorno di investimento negativi, vendite in perdita per gli investitori, o vendita “carta su carta” con un concambio quote. L’ecosistema startup Italia tende dunque a drenare risorse, generare rumore, visibilità sui media, lavoro temporaneo (visto che due terzi delle startup chiudono), ma non genera ritorni di investimento consistenti. Non ci sono dati pubblici sui ritorni di investimento.
La mancanza di trasparenza rappresenta però più una tattica a breve termine che una strategia. I soldi iniettati nelle startup dove finiscono? I VC hanno generato ritorni di investimento soddisfacenti dalle exit? Ci sono nuovi milionari imprenditori di startup in Italia? Domande che è lecito porre e che non trovano quasi mai risposta.
Ci sono alcuni casi di successo. Ma sono limitati ed episodici. Colpisce infine – e forse questo rappresenta il grande punto di debolezza dell’Italia – la scarsità di investimenti nel settore turismo, enogastronomia, cultura e moda. Ovvero i quattro grandi pilastri del made in Italy e della nostra tradizione.
Nel caso del turismo e del food si evidenzia la difficile scalabilità visto che entrambi i settori prevedono tanta operatività. Curiosamente tuttavia l’unico vero caso di successo riconosciuto a livello mondiale di startup italiana è Yoox.
Una storia memorabile di ecommerce per il fashion. Invece il made in italy viene ignorato in una rincorsa persa in partenza clonando idee di prodotti digitali e tecnologici che hanno scarse possibilità di essere competitivi con quelli americani. Insomma, ci si parla addosso sul fatto del nanismo italiano con pochi investimenti rispetto alla Silicon Valley e poi ci si dimentica di quello che ha reso grande l’Italia.