È da qualche giorno che svariati esponenti dell’ecosistema startup italico commentano tutti in coro la buona novella: crescono gli investimenti! Duecentocinquanta milioni di euro investiti nei primi sei mesi dell’anno in startup italiane, e ben settecentoventi milioni di euro sono stati raccolti dai fondi e sarebbero quindi disponibili per investimenti.
Startup, non c’è niente da festeggiare
Peccato che le letture semplicistiche siano quasi sempre fasulle, e che si debba andare a guardare nel dettaglio per rendersi conto che non c’è niente da festeggiare.
Innanzitutto, guardiamo alla cifra iniziale: di tutti quei milioni, solo la metà sono andati in startup italiane. Si arriva a quella cifra considerando le startup di fondatori italiani espatriate. La si vorrebbe vedere come una buona notizia, forse a sostegno della teoria delle accresciute capacità degli imprenditori italiani, le cui doti vengono spesso prese come capro espiatorio per la scarsità di investimenti. Ma la realtà è che gli imprenditori italiani erano capaci prima e sono capaci adesso, sono i giornali ad essere più sensibili al tema e dediti a tracciare un perimetro sempre più ampio per gli investimenti. Con la ratio dell’italianità del fondatore, andando a pescare in Svizzera, Malta e Slovenia, raddoppieremmo il PIL.
La triste realtà è che gli imprenditori italiani tendenzialmente continuano a scappare all’estero, portando altrove la creazione di valore, per non avere a che fare né con il sistema burocratico italiano, né soprattutto con quegli investitori italiani che perfino nel venture capital adottano gli schemi del capitalismo relazionale italico: è noto come uno dei venture capitalist de’ noantri scelga i propri investimenti sulla base delle segnalazioni che gli fanno i suoi “sponsor” per il fundraising. Questo eroe della professionalità si è sbrigato ad annunciare il secondo fondo: non sia mai che qualcuno gli chieda conto di come è andato il primo.
Venture capital all’italiana, i casi
Ma a ben vedere, a complicare la scena ora ci si mettono anche le big consulting e le corporate: è noto anche ai sassi come le grandi aziende non debbano mai e poi mai entrare nel capitale delle startup in fase seed, per non uccidere i poveri neoimprenditori con le loro regole di compliance ed i burocratismi da corporate. Ebbene, tanta era la voglia di millantare competenza da parte di una di quelle società che per vivere vendono slide e giornate di “consulenti” junior a peso d’oro, che una di queste ha creato un presunto acceleratore – verticalizzato in un settore industriale – in cui sono ben tre le corporate che entrano direttamente nel capitale delle malcapitatissime startup selezionate, in seed stage. Praticamente la nostra big della consulenza ha ingegnerizzato un assassino seriale, invece di un acceleratore, facendosi anche pagare a peso d’oro dalle tre corporate che ora potranno raccontare di fare innovazione.
E che dire di quel presunto incubatore quotato in borsa, che manda in giro contratti di investimento in cui con una mano investe una cifra e con l’altra spicca fatture per servizi per la medesima cifra messa a capitale? Consob non ha niente da dire su questo schema? Sembrerebbe il massimo del minimo, ma c’è di meglio: ce n’è un altro, di questi soggetti, che usa le proprie partecipate per andare a vendere progetti di Open Innovation alle Corporate. Bene, direte voi, perché procura business al proprio portfolio! E invece no, perché quando si tratta di quotare il servizio alla corporate, lo vende ad una cifra pesante. Ma quando si tratta di pagare la startup, impone alla stessa di accettare il venti per cento di quanto quotato alla corporate. E il resto? Mancia.
In tutta questa bella giostra autoreferenziale, fa quasi sorridere il responsabile della comunicazione di Exor che contatta la direzione di Agendadigitale.eu invocando il diritto di rettifica al mio pezzo precedente, per rettificare aspetti secondari e poi confermare tutto quello che di sostanziale avevo scritto: non un euro di patrimonio degli Agnelli andrà in startup italiane, ed il fantasmagorico evento di Torino con il meglio degli innovatori del mondo è stato un incontro esclusivissimo, riservato a cento ospiti selezionati e provenienti da tutta Europa. Tutti – quasi tutti, meglio – sanno quanto il valore di questi eventi sia nel networking, ma il signor addetto stampa ci spiega con professionalità che l’evento non era ristretto perché reso disponibile in streaming. Ci sarebbe da piangere, se di fondo questa non fosse solo una boutade a confrontarla con tutto il resto.
Startup italiane un tanto al chilo per tutti
Nel frattempo, continuiamo a sfornare missioni di accompagnamento delle nostre migliori startup in Regno Unito, in Germania, a Singapore, tutti paesi che, visti i budget che spendono per essere attrattivi verso imprese innovative e per andarsele a cercare fuori confine, non riescono a credere ai propri occhi quando Stato italiano ed associazioni varie si industriano per portargliele direttamente a casa, e gli calendarizzano nel programma perfino l’incontro con il locale ente promotore per la rilocazione delle imprese. Manca solo il cartello: “Venghino siòre e siòri, ci sono startup italiane un tanto al chilo per tutti, soprattutto le migliori, che quelle scamuffe le teniamo noi a popolare il registro!”.
“Gli investitori stranieri si fanno vivi in Italia, segno che le cose maturano…”, frase che riecheggia negli ultimi giorni tra post su Facebook e tweet: peccato che gli investitori esteri, in Europa, compaiano sempre quando si tratta di fare round in fase growth. Ci voleva solo del tempo, ed un anno di pausa come il 2017, perché si accumulasse un accenno di massa critica di investimenti in un semestre: un minimo gruppo di startup che fortuitamente sono sopravvissute agli investitori early stage, e maturate abbastanza per immettervi altro capitale. Peccato che i risultati che i nostri eroi della gestione del capitale di rischio richiedano alla moltitudine di startup su cui dovrebbero decidere di investire siano tali e tanti che si perda il grosso dell’onda che precederebbe.
L’indagine conoscitiva sul venture business
Alla Camera dei deputati è stata meritoriamente depositata la richiesta di avviare un’indagine conoscitiva sulla filiera italiana del venture business: la Commissione attività produttive intende comprendere come mai gli investimenti non decollano, in cosa siamo difformi dai paesi più avanzati, e come fare per recuperare il gap.
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La cosa più complessa sarà quella di far comprendere l’ovvio, cioè che il venture business è un tema probabilistico e non di certezze, e che se si cercano le certezze si uccidono le probabilità. Il rumore di fondo per trasmettere i messaggi corretti sarà elevatissimo: ovviamente è già scattata la corsa al farsi invitare ad essere auditi, perché figuriamoci se in Italia non si perde occasione per fare passerella istituzionale ed intestarsi della rappresentatività da sfruttare per tentare poi di farci self marketing mentre si spara qualche fesseria. Confondiamo sempre più lo scalare con l’arrampicata sociale, e quest’ultima con l’essere dei parvenu.
Pare che “lanciare napalm” non sia tra le risposte ammesse nell’indagine conoscitiva, ed è un vero peccato.