Predire il valore futuro a breve termine di una startup non è un compito semplice, considerando che la maggioranza di esse dopo 12-24 mesi ha già cessato di esistere, soccombendo in quella che i sintetici americani hanno ribattezzato “death valley”, e che definisce la fase che intercorre tra la creazione della startup e il primo round di finanziamento con investitori istituzionali: il “Series A”.
E quindi si può? E se sì, come, con quali variabili? Alcuni studi hanno dato una indicazione intrigante.
Il fattore tempo
Il tempo intercorrente tra round successivi, in particolare fino al round “Series A”, risulta essere una variabile straordinariamente importante. Nel senso che quanto minore è il tempo intercorso tra 2 round, tanto maggiore è la valutazione prospettica della startup e minore la probabilità di default. L’intervallo migliore è sei mesi.
Qualche idea riguardo al fattore tempo c’era già, ma era legata ad una sorta di curva gaussiana che metteva al centro come best practice i canonici 12 mesi e, prima e dopo, i problemi.
Quindi la nuova gaussiana performante ha un aspetto particolare. Cicciotta subito a sinistra con il picco a 6 mesi e quindi declinante man mano verso destra con un tempo fino a 9 mesi ancora accettabile e quindi sempre più a rischio man mano che si superano i 12 mesi.
Questo vale per tutti settori, con una piccola variazione in aumento dei tempi (pochi mesi) per industry tipo biotech e deeptech, in quanto le milestone da completare sono più legate a R&D e attività di laboratorio rispetto alle industry più classiche consumer e digitali.
La logica di base di una startup
Ora, quale è la logica di base di una startup? Crescere gradualmente e velocemente con nuovi round agganciati al raggiungimento di poche milestone. Quanto più questi obiettivi sono chiari e soddisfatti con perseveranza (focus totalizzante) e velocità, tanto maggiore e veloce è la crescita del valore della startup. Anche concettualmente, la riduzione del tempo tra i round è perfettamente allineata alla logica delle startup.
Facendo un parallelo, la startup deve fare il contrario del Monopoli: non deve fare il giro rischiando di passare da una caterva di luoghi che drenano denari e fanno perdere tempo, ma andare dritta all’obiettivo per aumentare le “probabilità” di successo riducendo gli “imprevisti”.
Dieci anni di startup policy, ma l’Italia ha poco da celebrare: i freni culturali da estirpare
I fattori che riducono il valore di una startup
Ne consegue che tutto ciò che allunga inutilmente i tempi di fundraising, de-focalizzando il lavoro della startup (ad esempio: effettuare una valutazione delle startup in modo scientifico prima del Series A, negoziare term sheet elaboratissimi, produrre business plan con orizzonte pluriennale privi di qualsiasi valore, affrontare burocrazia varia ed attività non in linea con le milestone e quindi inutili e dannose), ne riduce il valore e ne aumenta straordinariamente la probabilità di default.
Fino al Series A si lavora per dimostrare il Product/Market Fit (P/M-F) e cioè che in primis ci sia domanda per il prodotto/servizio proposto con un dato modello di business, e quindi che ci siano le basi (metriche) per raggiungere una futura profittabilità. Si lavora in modo efficace ed efficiente per il presente a brevissimo termine, per il raggiungimento delle milestone progressive man mano definite.
Non si lavora per costruire l’azienda, questo deve avvenire a partire dalla crescita e cioè a decorrere dal round Series A, dove inizia la vera organizzazione e infrastruttura aziendale.
I brevi range di tempo tra un round e l’altro servono a mantenere un focus ferreo sugli obiettivi del momento; qualunque deviazione inutile non porta valore e avvicina al burrone della death valley.
I pregiudizi da sfatare
Alcuni obiettano: chiedere soldi ogni sei mesi significa che la startup non è in grado di chiedere più soldi in un singolo round. Forse chiedere e ottenere soldi ogni sei mesi è facile? No, non lo è. Piuttosto è la certificazione di grandi capacità. Non un elemento negativo, bensì iper-positivo.
Inoltre, l’obiettivo ad ogni round non è agguantare quanti più denari possibile in assoluto, quanto piuttosto ottenere quelli che servono per realizzare gli obiettivi del periodo seguente con un margine di errore del 20/30% per far fronte agli imprevisti, che quando si sta innovando sono all’ordine del giorno. Prendere più soldi produce pericolose defocalizzazioni.
L’esempio degli Usa
Gli USA ci insegnano come il fund raising sia un’attività da praticare giorno per giorno e non estemporanea (è un processo, non un evento) e come i soldi del round vadano utilizzati con molta attenzione e determinazione per il raggiungimento degli obiettivi.
Sempre oltreoceano sta accadendo un fenomeno, sottolineato anche da Y Combinator, secondo cui le startup americane stanno allungando i tempi tra round chiedendo più risorse, (anche per il fatto che lì la quantità di soldi presente sul mercato dei capitali è davvero enorme). Verissimo, ma la differenza rispetto al passato si è tradotta in un aumento di pochissimi mesi, non di anni.
Gli studi statistici, in sintesi, ci dicono che allungare i tempi dei round e prendere troppi soldi riduce la crescita e aumenta la probabilità di default.
Come si valuta una startup? Metodi e parametri per non sbagliare
Perché in Italia non nascono start up degne di questo nome
In Italia purtroppo avviene ancora il contrario: basse valutazioni e tempi biblici per completare un round spesi a definire un valore “giusto” della startup (attività fino al Series A totalmente inutile), a scrivere term sheet di 50 pagine in cui gli investitori pensano a cautelarsi con ogni misura possibile, producendo l’assurdo risultato di far scappare i migliori e di imporre vincoli che più che garantirli limitano le capacità di resilienza dei founder. Conseguenza di questo approccio è che nello stivale non produciamo startup degne di questo nome, e quelle che possono diventare unicorni varcano subito i confini nazionali alla ricerca di lidi favorevoli.
Il tempo breve tra round fino al Series A dovrebbe essere una bussola che una startup adopera per condurre le operazioni. Non è l’unico elemento a fare la differenza ma è straordinariamente importante.
Le startup che non fanno attività di fundraising quotidianamente hanno problemi. E’ una capacità difficile da costruire, che andrebbe insegnata negli Acceleratori e negli Incubatori. Un sistema come quello italiano che allunga a dismisura i tempi dei round per motivi ameni è fuori mercato, anzi va contro il mercato e le best practice internazionali.
In momenti di grande turbolenza e incertezza, nei paesi meno avanzati le cose tendono a fermarsi quasi completamente (vedi l’Italia nella filiera startup, che al momento è anticiclica esclusivamente grazie al massiccio ingresso sul mercato di CDP Venture Capital).
In quelli più avanzati ci sono dei rallentamenti, ma molto contenuti e mai un blocco delle attività. Molte delle maggiori innovazioni sono arrivate nei momenti di alta incertezza perché qualcuno si è spinto a pensare fuori dalle righe.
Conclusioni
Il consiglio per i founder italiani di startup di eccellenza che si trovano fuori dall’Italia è di valutare bene se ritornare con eventuale exit compiuta, per condividere con la filiera italiana “come si fa”. Per l’Italia rimanere chiusa nell’autoreferenzialità del non conoscere le pratiche internazionali, oggi, riduce la probabilità di successo e quindi diminuisce sensibilmente la produzione di modelli positivi (le exit e come ci si arriva) da imitare, ergendo nella narrativa a “campioni nazionali” dei soggetti che nella realtà non lo sono né nei trend di crescita né nella diluizione, soprattutto se confrontati ai loro concorrenti esteri.
Gli altri attori della filiera intanto potrebbero smettere di usare i termini delle best practice internazionali mentre selezionano piccole imprese prive di orizzonte di scalabilità globale, di cui acquisire il controllo, facendo private equity di piccolo taglio mentre lo chiamano venture investing: per il bene proprio e per quello del paese.