innovatori di ventura

Le competenze per lavorare nel venture capital: ecco quelle indispensabili

Quello del Venture Capitalist è un lavoro per pochi dotati di un mix di skill hard e soft non comune, ma è un grande equivoco pensare che questi pochi vadano cercati tra chi proviene dalla finanza tradizionale. Ecco allora cosa serve davvero

Pubblicato il 22 Mar 2023

Giampaolo Ferradini*

CEO of Kjuicer.com Srl

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Da ormai alcuni anni mi interrogo sui possibili motivi per cui sia raro rilevare caratteristiche professionali che ritengo importanti negli operatori che si occupano di innovazione e di startup, come venture capitalist, acceleratori, incubatori, eccetera.

La mia tesi è che – per operare efficacemente in questo ambiente, in particolare se si devono creare portafogli d’investimento – siano necessarie competenze piuttosto estese e non comuni.

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Competenze per lavorare in startup e progetti di innovazione, chiediamo a ChatGPT

Prima di dire la mia, ho provato a chiedere alla novità di questi giorni, ChatGPT. L’assistente virtuale di OpenAI, basato su LLM (large language models), è stato allenato più o meno con tutto lo scibile disponibile su internet fino alla fine del 2021. Questo ci permette di farci un’idea del sentire generale sul tema[1]:

“Ecco alcune caratteristiche professionali che potrebbero essere utili per investire in startup e progetti di innovazione:

  • Conoscenza approfondita del settore e del mercato in cui si desidera investire.
  • Capacità di valutare il potenziale di crescita di una startup e di comprendere i rischi e le opportunità associate.
  • Buone competenze finanziarie e capacità di analisi dei dati per valutare il rendimento potenziale dell’investimento.
  • Capacità di stabilire relazioni durature e positive con le startup in cui si investe, e di supportarle durante il loro percorso di sviluppo.
  • Buone capacità di comunicazione e di negoziazione per stabilire accordi di finanziamento e altre condizioni di investimento.
  • Flessibilità e capacità di adattarsi rapidamente a situazioni in continua evoluzione.
  • Orientamento al risultato e capacità di prendere decisioni strategiche in modo efficace.
  • Curiosità e spirito di innovazione per scoprire le nuove opportunità di investimento.
  • Networking e capacità di lavorare in team con colleghi, partner e altri stakeholder.”

La gestione del rischio vista da ChatGPT

Siccome mi sembrava povera come risposta, ho pensato di chiedere suggerimenti sulla gestione del rischio[2]:

  • “La gestione del rischio è un elemento fondamentale nella creazione e nella gestione di un portafoglio di venture capital. In particolare, è importante essere in grado di valutare il livello di rischio associato a ogni opportunità di investimento e di diversificare il portafoglio per ridurre il rischio complessivo.
  • Per valutare il rischio di una startup, è necessario considerare diversi fattori, come il mercato in cui opera, la solidità del modello di business, la forza del team di gestione e la disponibilità di risorse finanziarie. È anche importante tenere conto della fase di sviluppo della startup e della sua capacità di generare entrate.
  • Una volta che il livello di rischio di ogni opportunità di investimento è stato valutato, è possibile diversificare il portafoglio investendo in startup di diverse dimensioni, settori e fasi di sviluppo. In questo modo, è possibile ridurre il rischio complessivo del portafoglio e proteggere gli investimenti da eventuali perdite.
  • Inoltre, è importante monitorare costantemente il rendimento del portafoglio e modificare la strategia di investimento in base alle esigenze del mercato. In questo modo, è possibile ridurre ulteriormente il rischio e massimizzare il ritorno sugli investimenti.”

Il ragionamento sembrerebbe anche filare, vero? Un minimo di esperienza permette certamente di capire che non si tratta di risposte sofisticate. Quel che è interessante però è che molte siano… sbagliate.

Competenze per lavorare in startup e progetti di innovazione, cosa non va nelle risposte dell’IA

Vediamo cosa non va, poi cercherò di fare una lista di quelle che ritengo essere le competenze cruciali, ancorché tutt’altro che diffuse, che fanno la differenza in questa particolare attività.

Prima domanda:

  • Conoscere il settore ed il mercato in cui si desidera investire”. Nei casi di maggior successo, il mercato non esiste proprio. Ci sono certamente situazioni in cui può essere utile conoscere il settore se esiste, ma non di rado è stato controproducente: Yahoo con Google, Kodak VS la fotografia digitale, Microsoft VS iPhone, eccetera. Le prime due sono andate prossime al fallimento per non aver capito l’innovazione. Il Ceo di Microsoft ha dovuto cambiare mestiere perché si è perso il mercato della telefonia mobile, in cui l’azienda non è più potuta rientrare. In un altro settore, nessuna banca aveva capito Bitcoin, e ancora oggi che è arrivato a 1000 miliardi di valore non è che brillino per averne compreso le implicazioni o averci messo mano in modo efficace.
  • Comprendere i rischi”. Dipende. Se parliamo di pre-seed o seed, gli importi investiti dovrebbero essere talmente risibili rispetto alle masse del fondo che il rischio dovrebbe essere trascurabile. Se non lo fosse, probabilmente significherebbe che le risorse investite nella startup sono troppe rispetto al patrimonio.
    “Comprendere l’opportunità”: lapalissiano, d’accordo. Vale peró la pena ricordare che non sono pochi i casi di investimenti in startup iniziate per fare una cosa e finite a fare tutt’altro. La rilevanza di questa capacità potrebbe essere meno importante del previsto.
    Una cosa che ChatGPT trascura di dirci, invece, è “valutare le persone e i team”. Ben più importante di valutare l’opportunità. Facebook è iniziata come un motore di comparazione di ragazze, non c’entrava niente con quel che è diventata. Qui il genio stava nel riconoscere il potenziale della persona, non del progetto.
  • Certo, un’idea di come funzionano i numeri è necessaria, ma le competenze sono ben diverse da quelle “per valutare il rendimento potenziale dell’investimento”. Dalla risposta di ChatGPT si sarebbe portati a pensare che i più bravi dovrebbero essere dottori commercialisti, consulenti, gestori di private equity o di asset management tradizionale.
    Progetti come le startup – se si vuole analizzarne il lato finanziario – richiedono di comprendere e avere familiarità con metriche assenti nelle analisi di bilancio classiche. Parliamo di acronimi e sigle come burn rate, MRR, ARR, CAC, NPS, RBM, e non tutte si applicano a tutti gli stadi di sviluppo di una startup[3].
    Paradossalmente è più importante la capacità di osservazione e di comprensione dei temi economici e sociali di un business che una dimestichezza con i bilanci. Questo è tanto più vero quanto più precoce è l’investimento.
    Negli stadi oltre il round B diventano progressivamente più importanti le analisi finanziarie, soprattutto perché si tratta di round “prezzati” (la valutazione della startup è ormai esplicita, cosa sempre più rara per i round pre-seed e seed, per fortuna) e perché ormai le cifre cominciano ad essere elevate in proporzione agli asset a propria disposizione. Dai round di finanziamento di serie B in poi diventa più un mestiere da PE, magari un po’ specializzato, che da VC.
  • Risposta insindacabile.
  • Anche in questo caso sono d’accordo.
  • Flessibilità e capacità di adattarsi rapidamente…” Detta così è poco utile. Una volta fatto l’investimento in una startup, le carte sono sul tavolo. È possibile che siano necessari interventi, ma non siamo sul mercato dove se ci sono movimenti repentini è necessario aggiustare il portafoglio. Paradossalmente questa dote potrebbe essere più importante prima dell’investimento, se ci sono più VC o angels che se lo contendono.
  • Ci possiamo fidare anche di questa risposta.
  • Il networking è certamente un elemento fondante di queste attività, lavorare in team è un plus. Ci sono anche “solo GP”, investitori che lavorano da soli, e lo fanno anche molti angels.

La gestione del rischio

Veniamo alla seconda domanda:

  1. “La gestione del rischio è un elemento fondamentale nella creazione e nella gestione di un portafoglio di venture capital.” Certo.
    “In particolare, è importante essere in grado di valutare il livello di rischio associato a ogni opportunità di investimento e di diversificare il portafoglio per ridurre il rischio complessivo.” No. Si chiama Venture capital perché chi investe sa che gli investimenti possono andare a zero. Sennò è private equity o altro. Se fatto correttamente, l’opportunità è mille volte più importante del rischio.
  2. Anche qui le indicazioni sono discutibili: come se la valutazione del rischio del singolo investimento fosse cruciale. Questi sono asset non lineari, soggetti ad andare a zero. Questo è il loro rischio. Se funzionano, invece, possono produrre rendimenti oltre il centinaio di volte gli importi investiti, non è raro oltre il migliaio e si sono visti casi di decine di migliaia. Passare tempo a “valutare il rischio” è come spendere ore a decidere se comprare a 0,01 o 0,015 un’opzione su un titolo che vale 100€. Il rischio è di perdere il valore dell’opzione, l’opportunità è che il titolo si muova in modo tale da far valere l’opzione 5€, conseguendo 500 o “solo” 330 volte l’investito. Solo un idiota si preoccuperebbe di non effettuare un investimento di quel tipo per questioni di prezzo, con il rischio di perdere un multiplo del genere. Questo potrebbe accadere o perché sta “scommettendo” troppo rispetto alle sue possibilità, o perché non ha capito il gioco a cui sta giocando. Non è un caso che fino alla recente crisi dei mercati le valutazioni delle startup siano salite in modo drastico per anni interi.
  3. Apparentemente sensato, se non si è letto poco sopra vero? Il “trucco” per la gestione di un portafoglio di startup é:
    1. scegliere startup con potenziale grande o enorme,
    2. farlo con cura, certo,
    3. acquisirne un numero tale da assicurarsi che i guadagni ottenuti dalle “scommesse” vincenti possano ampiamente compensare le perdite di quelle che vanno a zero. I portafogli di asset non lineari long-only (in cui si acquista ma non si va allo scoperto) sono tutti costruiti così.
  4. Fallacia simile a quella del punto 6 sopra: fino a quando il fondo fa investimenti, deve monitorare il mercato ed eventualmente aggiustare il tiro, scegliendo gli investimenti che mancano alla conclusione dei fondi in modo da avere sempre il meglio disponibile in quel periodo d’investimento, poi les jeux son faits, come direbbero a Montecarlo. Nessuna lacrima dovrebbe essere versata sugli investimenti completati. Se la scelta delle opportunità è stata fatta correttamente, il portafoglio porterà i suoi frutti. Altrimenti sarebbe meglio dedicarsi ad altro.

Quindi cosa serve davvero?

Finora abbiamo fatto le pulci ad affermazioni generali che si trovano spesso in giro. Passiamo a guardare cosa serva davvero per giocare in questo particolare contesto.

Consapevolezza dei rischi generali

Come anticipato sopra, la prima cosa da sapere è che se si gioca su una singola startup, il rischio consiste nell’aver sbagliato. Di solito significa che i soldi sono andati buttati. Fine.

Questa consapevolezza è fondamentale, come lo è l’accettazione di questo rischio. Se si gestisce un fondo o un gruzzolo, si può diversificare allocando le risorse su un certo numero di startup.

Non è una consapevolezza differente da quella necessaria per altre attività ad alto rischio. Se salgo su un ring per fare un combattimento, ho messo in conto che prenderò qualche botta e potrei finire KO. La differenza negli investimenti in startup è che potrebbe essere sufficiente vincere anche solo una volta per far sparire tutti i lividi o i KO: sotto zero non si può andare mentre in caso di successo l’upside (i possibili profitti) è di solito davvero elevato.

Già da questa prima “competenza” si intravede un tema più psicologico che tecnico. Le soft skill, come vedremo, in questo ambito sono cruciali. Non c’è un modo gentile di dirlo.

Consapevolezza del valore dell’opportunità

Prima ancora di parlare della singola opportunità, è fondamentale capire l’opportunità in generale. Il gioco non fa parte di quelli a cui siamo abituati, in cui qualcuno vince e qualcuno perde e la somma di solito è zero se non meno di zero (si pensi alle scommesse, in cui il 40% viene prelevato dallo Stato).

Alcuni anni fa Scott Kupor, il primo dipendente di Andreessen Horowitz e uno dei suoi investment partner principali, segnalava che fino al 2015 negli Usa erano stati investiti sì e no 600 miliardi di dollari in 50 anni. Solo che il 43% delle aziende quotate erano state finanziate dal venture capital, a cui corrispondeva il 57% della capitalizzazione del mercato che quell’anno era 25 trilioni di dollari, cioè oltre 14. La lezione gli Stati Uniti la devono aver presa alla lettera: dal 2015 al 2021 gli investimenti in questa asset class sono quadruplicati. È per me un mistero che nessuno abbia ancora tirato fuori una ricerca approfondita su quale sia il moltiplicatore economico dell’innovazione. Questa cosa la dovremmo studiare più a fondo perché ha implicazioni rilevanti sia dal punto di vista delle public policy che da quello dell’asset management.

In ogni caso da quanto sopra dovremmo essere ben coscienti che il gioco, in generale, è a favore del vento: l’innovazione, da un punto di vista finanziario è davvero l’America di Colombo[4]. L’importante è sapere che il mare è periglioso, perché le singole operazioni vanno spesso a finire male.

Come si gioca?

Come si gioca, dipende naturalmente dal giocatore. Un conto è un investitore individuale, altro è un professionale che agisce per conto dei suoi investitori, altro ancora è un soggetto istituzionale o addirittura governativo. Lo scopo che questi soggetti si prefiggono è altrettanto rilevante.

La singola persona potrebbe investire per inserire convessità nel proprio portafoglio[5], cioè aggiungere pepe e qualche chance di ottenere risultati stellari. Questo approccio è valido anche per i family office, che sono una via di mezzo fra le persone fisiche e gli investitori professionali classici e perseguono di solito un approccio “total return” come gli individui.

Oppure perseguire un approccio di “give back” – offrire ad altri o alla società opportunità di crescita, magari guadagnando – mettendo a disposizione capitale, ma anche competenze e network ai founder. Un’ulteriore motivazione potrebbe essere quella di divertirsi: brivido del rischio, una bella sfida intellettuale, a volte anche coinvolgimento attivo. Non è raro che gli angel siano anche apprezzati advisor.

Gli investitori professionali operano diversamente: la convessità non la devono cercare – il loro portafoglio nasce convesso – ma costruire ed eventualmente confezionare, cioè offrire un potenziale di upside minore al singolo investimento in una startup ma con probabilità e rischi rispettivamente significativamente superiori e inferiori.

Se si parla di un fondo di VC che si “vende” come un investimento ambizioso ma tradizionale, il suo target sarà probabilmente rendere fra 3x e 5x su sette anni (un tasso di rendimento fra il 17 ed il 25% annuo) convincendo i suoi investitori che il rischio di non ottenere quel risultato è ragionevolmente basso.

Un fondo più aggressivo, che mirasse a confezionare convessità per i propri clienti, potrebbe perseguire ad esempio target fra 10 e 30x, mirando a clientela che investe meno in percentuale del proprio portafoglio ma ha bisogno di risolvere problemi di lungo termine.

L’esempio di un cliente tipo di un fondo “aggressivo” è anche il terzo tipo di soggetto, cioè un istituzionale come un fondo pensione, o un fondo sovrano. Un attore di questo tipo probabilmente investirebbe in un fondo così per perseguire un effetto moltiplicatore che migliori il risultato finale.

Ad esempio potrebbe decidere di investire il 5% dei propri asset per ottenere un 20/50% di maggior rendimento sul totale della propria massa gestita su orizzonti lunghi (10/30 anni). Per ottenere quel tipo di risultato si cerca di arrivare a moltiplicatori da 5x a 10/20x su 7/10 anni, investimento da eseguire ripetutamente, aiutati dall’orizzonte temporale. Potrebbe cercare direttamente le proprie opportunità, ma più realisticamente potrebbe acquistarle all’esterno cercando fondi più o meno aggressivi.

Sì ma poi come si sceglie? Più avanti troviamo un paragrafo che spiega scelta e portafoglio.

Valutazioni tecniche

Siccome le startup possono operare nei settori più disparati, le valutazioni tecniche possono a loro volta essere le più diverse. Man mano che passa il tempo, questa componente diventa sempre più importante perché si riducono le opportunità “semplici”, come rimpiazzare i taxi o consegnare velocemente un prodotto, e restano proporzionalmente sempre più opportunità in cui oltre ad esecuzione efficace è necessaria proprietà intellettuale.

Qui le alternative sono semplici: o si hanno le competenze in casa, o vanno trovate. Ci sono sempre più fondi che si specializzano in settori verticali, in modo da acquisire un know how approfondito, ma un’alternativa solida rimane quella di sfruttare il proprio network e/o di recuperare professionisti. Una delle difficoltà consiste nel fatto che quanto migliore è l’opportunità quanto più complesso è trovare chi la sappia confermare. Uno dei motivi degli scandali Theranos o FTX era che non erano semplici da smascherare, sarebbe stato necessario essere dentro alle aziende per rendersi conto che qualcosa non andava.

Questo ci porta a prendere consapevolezza di una delle competenze più importanti:

Valutare e gestire i rapporti con i team

La caratteristica più importante delle startup (vere) è la scalabilità. Per definizione si tratta di un progetto che vuole diventare grande o possibilmente enorme in breve tempo, a volte ribaltando le regole di un business esistente, altre creandone uno nuovo. Per farlo è necessario ottenere una efficienza molto elevata cercando di ridurre vincoli e frizioni quanto più possibile. Le persone che possono condurre questo genere di impresa sono rare, ma anche i team che mettono insieme devono essere all’altezza.

La cura da mettere nella valutazione del team e del suo leader è quindi certosina. Le persone spesso si sopravvalutano e di solito non sanno neanche bene quali difficoltà si troveranno di fronte. Quindi vanno sì valutate competenze ed eventuale esperienza, ma anche motivazione, duttilità, capacità di gestire i rapporti umani e i rischi, capacità e determinazione di apprendere, chiedere aiuto e farsi insegnare se del caso, fare ciò che necessario per di raggiungere l’obiettivo senza che questo possa minare l’integrità personale e del team.

Da ultimo, o forse sottostante a tutto questo, ci dev’essere una buona “assenza di ego”, che è l’ostacolo numero uno quando si tratta di ammettere e/o correggere gli errori, propri o altrui, o di comunicare all’interno o all’esterno in modo efficace.

Queste valutazioni non sono banali, anzi potrebbero apparire contraddittorie: ma questi founder devono sapere quello che fanno o devono imparare? Devono essere disposti a tutto o essere persone a posto?

La verità è che scoprire il talento o il potenziale non è da tutti. Sospetto che gli scout, le persone che vanno in cerca degli atleti migliori, potrebbero diventare degli ottimi venture capitalist.

In generale si potrebbe dire “it takes one to know one” (ne serve uno per riconoscerne uno): ci vuole talento per poterlo riconoscere in altri. Non è un caso che negli Stati Uniti i fondi di VC si appoggino, molto più che in Italia, ad angel di fiducia per farsi aiutare: siccome gli angel oltre che benestanti spesso sono persone con esperienze significative, hanno una relativa facilità a fare valutazioni sofisticate. Nei round oltreoceano a volte si trovano assegni da 5,000$ che coesistono con versamenti di milioni, senza soluzione di continuità.

Scelta e portafoglio

Come ripetuto più volte, il singolo investimento non dovrebbe mai essere particolarmente rilevante nelle fasi pre-seed e seed. La decisione dovrebbe essere quindi molto veloce e seguita da una due diligence leggera, orientata soprattutto a verificare che narrativa, team, progetto, strumenti, oltre che eventuali asset (codice se si tratta di software, oppure brevetti, ecc) siano presenti e coerenti. Al salire di round, progressivamente selezione e due diligence si avvicinano sempre più a, e diventano attività di, private equity, più strutturate e in linea con l’aumentare degli importi.

Per le fasi pre-seed e seed quindi la capacità di valutazione è quindi soprattutto capacità di trarre una sintesi degli elementi e capirne la coerenza con il potenziale del progetto: il mio investimento vale il rischio di perdere tutto? Ha senso mettere un chip su questa iniziativa?

Per certi versi un fondo di VC assomiglia ad un giro di roulette: il decisore dovrebbe decidere su quali numeri puntare in questo giro. Si tratta naturalmente di un posizionamento strategico….

Conclusioni (a cura di Gabriele Belfiore e Gianmarco Carnovale)


Sono tutte qui, quindi, le competenze necessarie ad operare correttamente nel settore? In realtà no, in termini di soft skill è necessaria una grande umiltà sia nella fase di ascolto e selezione che – una volta investito – per poter rimanere nei binari del proprio ruolo di monitoraggio e guidance: è solo con l’umiltà del presupporre di trovarsi di fronte un imprenditore più competente di sé, che un Venture Capitalist può identificare le opportunità con il miglior potenziale; ed è sempre grazie a diti di umiltà che, dopo l’investimento, deve operare come un co-pilota di rally che offre indicazioni sulle possibili “curve” di percorso ma lasci il volante libero al pilota. Allo stesso modo un VC deve lasciare quasi totalmente libera la gestione della startup senza porre veti o controlli eccessivi che rischiano di aggiungere step burocratici e rallentare lo sviluppo e la crescita.

Il buon VC deve osservare dal lato, dare i giusti consigli e intervenire in modo incisivo solamente in situazioni critiche o di estrema rilevanza strategica o operativa, facendo da sponda e supporto senza mai pensare di potersi sostituire al founder.

Sul fronte guidance, un buon VC si presume debba avere piene competenze sugli sviluppi del medio termine successivo all’investimento. Alcuni esempi:

  • Un fondo con focus pre-seed/seed deve portare il suo contributo di guidance per evitare errori nella predisposizione del product-market fit o nell’avvio della distribuzione commerciale del servizio/prodotto offerto.
  • Un fondo con focus Series A/B deve invece offrire competenze utili all’internazionalizzazione e in parallelo un network che possa supportare la startup a completare round più importanti o prepararsi alla fase di exit

Tale approccio e competenze sono cruciali per supportare una startup nella fase successiva all’investimento, garantendo un proseguimento proficuo per i founders, il fondo e gli shareholders del fondo stesso.

Si può dire, in conclusione, che quello del Venture Capitalist sia un lavoro per pochi dotati di un mix di skill hard e soft non comune, e soprattutto che sia un grande equivoco pensare che questi pochi vadano cercati tra chi proviene dalla finanza tradizionale: l’aspetto del saper “gestire fondi” è quello del tutto fungibile, in questo mestiere. Il mondo anglosassone sembra aver compreso da tempo che il bacino migliore sia piuttosto quello degli imprenditori tech che abbiano completato uno o più percorsi di startup portate ad exit.

____________________________

Questo articolo si basa su una bozza non conclusa da Giampaolo Ferradini, già da tempo autore della rubrica, scomparso improvvisamente lo scorso 11 gennaio, e completata con un breve paragrafo conclusivo steso da me (Gianmarco Carnovale) e Gabriele Belfiore.

Giampaolo Ferradini era un ex professionista della finanza, con esperienza passata in fondi internazionali, passato poi dall’altra parte del tavolo fondando la sua startup, che era però molto sensibile agli aspetti di divulgazione intorno alle pratiche internazionali del venture capital, settore in cui ultimamente stava ricominciando a porre le basi per operare in Italia.

La pubblicazione dell’articolo è stata autorizzata dal figlio Thomas.

Note

  1. Questo il testo della mia prima domanda: “Sei un esperto mondiale di venture capital, acceleratori, corporate venture capital e startup. Devi riassumere in circa 2000 caratteri le caratteristiche professionali necessarie per investire in startup e progetti di innovazione”
  2. “Per favore soffermati sulla gestione del rischio di un portafoglio di VC”
  3. Andreessen Horowitz ha di recente pubblicato una lista delle metriche piú importanti per una startup growth stage, quindi una possa ambire a investimenti dal “round A” in su. Si tratta di startup con valutazioni tipicamente di almeno 10-50 milioni di euro.
  4. Non è un caso che Scott Kupor, nell’articolo di cui al link segnalato in precedenza, parli della Regina Isabella di Castiglia come una Venture Capitalist ante litteram.
  5. L’autore che ha dato la migliore spiegazione di questo termine é Nassim N. Taleb, in Antifragile.

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