Che il sistema italiano sia affetto, a volte, da piccoli numeri non è una novità. E’ altrettanto vero che, spesso, la qualità vada ricercata con attenzione.
Senza entrare nei dettagli, lo confermano i dati di Aifi, in collaborazione con PricewaterhouseCoopers, sugli investimenti dei venture capital relativi al primo semestre del 2017, ma anche i numeri del Ministero dello Sviluppo Economico secondo cui sono circa 300 le startup italiane che hanno ricavi annui superiori a 500.000 euro. Possiamo individuare le cause nelle innumerevoli peculiarità culturali, economiche e sociali del nostro Paese, da sempre costituito da una rete di PMI che, seppur leader, magari anche a livello mondiale, nei loro settori di nicchia, faticano a crescere e a imporsi sul mercato come invece sanno fare le società straniere.
Possiamo dare la colpa ai giovani imprenditori, o startupper, spesso impreparati di forte alle difficoltà che comporta fare impresa, soprattutto, come ci ripetiamo da anni, in Italia. Bisogna imparare a lavorare sull’appetibilità del business model, nella capacità di risolvere un problema con una soluzione pertinente e sulla qualità dei team, perché non si improvvisano quelle competenze specialistiche che permettono di avere successo sul mercato con i propri prodotti o servizi. Non basta la versione italiana (copiata) di questo o quel prodotto. Non si può, o meglio non sempre, pensare che con un applicazione, qualcosa magari che già esiste sul mercato, si possa conquistare il mondo. Bisogna proporre soluzioni in grado di far crescere negli investitori, e nei potenziali clienti, l’entusiasmo di aver individuato una “novità”.
Possiamo dare la colpa agli investitori, dal “braccino corto”, titubanti di fronte alla scommessa, e al rischio, di investire in innovazione. O al Sistema Pubblico, che spesso non si muove in modo sufficientemente significativo per semplificare un “insieme” barocco e da azzeccagarbugli che disincentiva molti dall’intraprendere iniziative imprenditoriali e portarle avanti con coraggio. Ad esempio, il criterio del beneficio fiscale non può essere l’unica componente perché si decide di investire in startup solamente se si ha già un piano di uscita, o di exit, come si dice in gergo tecnico. E come sappiamo l‘Italia al momento non ha ancora un tangibile mercato secondario, di fondi che acquisiscono startup lanciate da business angel. E quindi i soldi non si muovono. Anzi, si può dire che i fondi di venture capital fanno quello che dovrebbero fare i business angel investendo piccole cifre in operazioni di seed.
Ma se usciamo dalla solita retorica italiana per cui tutto va male, ci accorgiamo che negli anni della crisi più dura dal ’29 il Governo, prima con la task force di Passera e i tecnici del MISE (tra cui mi preme segnalare Stefano Firpo e Mattia Corbetta) fino a Calenda ha sempre cercato i tempi di credit crunch dovuto alle richieste dell’Europa anche per i Governi, ha deciso di scommettere sulle startup creando un infrastruttura normativa che agevola investimenti e creazione di nuove imprese. Si poteva fare di più, certamente. Ma l’impianto normativo complessivo, che ha meno di 5 anni di vita, funziona.
E ancora. Ogni anno ci accorgiamo che nonostante l’erosione dei risparmi, e un Paese poco propenso al rischio, vengono investiti da privati cittadini, busines angel, 30 / 40 milioni in imprese innovative, pur consapevoli che il mercato italiano è piccolo e, se possibile, il tasso di mortalità delle startup in Italia è ancora più elevato.
E i risultati del piano industria 4.0 dimostrano che anche le PMI e le imprese stanno imparando ad innovare.
Guardando da un altro angolo l’ultimo report realizzato da Mise e Infocamere, relativo al 3° trimestre 2017 su questa tipologia d’impresa, vediamo che il fatturato complessivo delle start-up innovative supera i 700 milioni di euro. Un dato che supera di 312 milioni quanto raggiunto con i bilanci 2015 (414 milioni di euro) dalle start-up iscritte a fine giugno (ovvero +75,4%). E, da pochissimo, abbiamo raggiunto la soglia di 8.000 nuove imprese innovative. O meglio, da 20 a 30 mila nuovi imprenditori.
Si sta creando una classe imprenditoriale, che prima non esisteva, e che anche grazie alla forse esagerata sovraesposizione mediatiche delle startup, sta dando la speranza ai ragazzi, neo laureati o non, di costruirsi un futuro senza aspettare un fantomatico posto fisso.
E quindi, ben vengano le iniziative come Boost Heroes, che in collaborazione con Intesa Sanpaolo e Discovery Italia, ha lanciato “B Heroes”, il programma di accelerazione per startup ad eliminazione progressiva le cui fasi salienti saranno raccontate in un format televisivo (la call è aperta fino al 30 novembre 2017 ma la selezione è progressiva fino a raggiungimento del numero di startup selezionate previsto per l’inizio del programma). Dobbiamo insegnare ai giovani (e non) cosa vuol dire essere imprenditori, anche attraverso con mezzi che possono sembrare vecchi, come la televisione, ma che si possono innovare cambiando linguaggio e format.
Ben vengano le recenti iniziative di diffusione dei risultati della partecipazione di imprese italiane ai grants europei, ad esempio SME instrument di H2020. 400 imprese hanno beneficiato di oltre 90 milioni di euro dal 2014 ad oggi; senza dimenticare le centinaia di startup e PMI che hanno ottenuto un meritorio Seal of Excellence.
Insomma, possiamo continuare a lamentarci di tutte le difficoltà, oppure, come farebbe un vero imprenditore, rimboccarci le maniche e confrontarci con la realtà cercando di dare un contributo, ognuno secondo le proprie competenze, per far tornare questo Paese a crescere e a competere con la sua genialità, di prodotti e servizi, in tutto il mondo.