Se nel processo di valorizzazione del talento femminile, e nella sua spendibilità nel mercato del lavoro, il passo italiano ha il fiato corto rispetto ad altri paesi europei civilizzati, c’è un settore, quasi un’enclave nell’enclave, in cui le quote rose avrebbero necessità d’essere raddoppiate: l’imprenditoria in ambito tecnologico e di ict.
La quaestio si è proposta con forza all’attenzione anche della stampa dopo alcune clamorose – almeno per la mentalità dei paesi di cultura latina – assunzioni di dirigenti donne, da parte di influenti multinazionali del settore. Il gruppo Yahoo! aveva sparigliato le consuetudini, assumendo come ceo Marissa Mayer, proprio mentre era in attesa del primo figlio. Con lei – che dopo la gravidanza ha rivoluzionato la politica dell’azienda, acquistando nuove società come la start-up micro-blogging Tumblr e il sito Hulu – le quotazioni sono quasi raddoppiate.
Ma, come ricordava il Corriere in una recente indagine, anche altre potenze del settore si sono mosse nella stessa direzione. Google ha conferito a Susan Wojcicki l’incarico di responsabile del business pubblicitario, mentre Sheryl Sandberg – celebre per un recente libro (“Lean in”) in cui invitava le donne a liberarsi dal complesso di inadeguatezza e “farsi avanti” al lavoro – è direttore operativo di Facebook. Ma anche Intel, Hewlett-Packard e Ibm hanno replicato l’esempio. E con successo.
Un’inchiesta pubblicata il mese scorso dalla CnnMoney, sulle 20 aziende tecnologiche più influenti degli Stati Uniti, ha invece aperto una ferita che ancora sanguina nella cultura statunitense: quella sulla “diversità” e sulle discriminazioni. Da essa è infatti emerso che le minoranze razziali e le donne sono sotto rappresentate nei ruoli di gestione e dirigenza societaria, dominate, al contrario, da bianchi e asiatici.
E in Italia?
Sebbene ancora non si possa disporre di un quadro statistico con numeri certi, la fotografia sembra piuttosto scoraggiante, in merito.
Lo scorso 2012 Alberto Onetti, co-founder di Mind The Bridge, inaugurò i lavori con l’auspicio che nascessero più start-up “rosa”. Questo, a seguito di uno studio condotto da Startup Genome, che evidenziava quanto le donne fossero meno propense al richio, troppo caute, poco visionarie. L’indagine scatenò una furibonda polemica che dai confini nazionali investì anche le capitali tecnologiche di States ed Europa, con fuochi incrociati tra Silicon, New York e Singapore.
Però, in realtà, qualcosa già si muove.
Carlo Sappino, a capo della Direzione generale per gli incentivi alle imprese nel Dipartimento del Ministero dello Sviluppo economico, parla di primi timidi, ma significativi passi: “A marzo, a seguito di un accordo tra il nostro Ministero e quello del Lavoro, sono stati stanziate risorse per 20 milioni di euro, destinate alle attività imprenditoriali femminili in ambito tecnologico. Il fondo centrale di garanzia consente di attivare finanziamenti, da parte degli istituti di credito e del sistema bancario, fino a un tetto massimo di 300 milioni di euro per l’avvio delle neonate aziende. L’obiettivo è, appunto, sostenere le start-up fondate da donne, dal momento che il meccanismo garanzia ha un effetto leva interessantissimo”.
Iniziativa importante, seppure piuttosto isolata, come spiega Sappino: “Il settore in questione è, in effetti, una nicchia nella nicchia. In realtà sono appena partite misure di intervento orizzontale, rivolte alle nuove imprese di carattere innovativo e che operano su tecnologie digitali. Il nostro Ministero ha erogato 200mila euro che sosterranno, nei primi 4 mesi, i costi di affitto, acquisto di macchinari, le spese bancarie e quelle del personale. Si tratta di finanziamenti a fondo perduto, di provenienza comunitaria rivolti a Sardegna, Basilicata, Campania, Sicilia, Puglia e Calabria. Le donne, in realtà, godranno degli incentivi e degli sgravi fiscali già previsti per il settore imprenditoriale femminile con una forte maggiorazione delle agevolazioni, all’interno di questo quadro”.
Donne che, se le politiche centrali non vengono loro in aiuto, si organizzano da sole.
Dopo un lungo lavoro di preparazione, dal gennaio di quest’anno, ha appena inaugurato la “filiale” italiana di Girls in Tech ed è il 5 giugno il primo evento in cui “inaugura ufficialmente la stagione rosa del mondo startup italiano” (si legge nel sito). L’organizzazione no profit (la dicitura corretta è Social network Enterprise) è nata in Silicon Valley, nel 2007, grazie all’impegno di Adriana Gascoigne che ha ritenuto che essere l’unica donna in una startup di 50 maschi fcostituisse un problema su cui interrogarsi. E a cui porre rimedio.
Il proposito è quello di offrire un supporto all’imprenditoria femminile nel settore digitale e tecnologico. Nel giro di pochi anni Girls in tech ha aperto 33 “chapter” (sedi locali) in tutto il mondo, coinvolgendo oltre 17mila membri. All’appello hanno risposto quasi tutti i continenti. Prima le principali città americane: San Francisco, New York, Las Vegas, Boston, San Diego. Poi il Cile, l’Egitto, Le Filippine, Dubai, Singapore. In Europa le prime sedi hanno aperto a Parigi, Londra, in Romania e ora anche in Italia. Presto saranno operative anche la Germania, la Grecia e il Portogallo.
Il “capitolo” italiano – Milano è la sede di partenza – ha in programma una serie di attività che, dopo l’evento del 5 giugno, partiranno dopo l’estate fino all’intero 2014: incontri, workshop tematici, conferenze, recruiting, e la creazione di un network di donne tech e startupper che possano raggiungere quell’obiettivo che per la popolazione femminile sembra essere così culturalmente difficile: “fare rete”, aiutarsi ed essere collaborative nel lavoro. Nel panel di relatori vi saranno naturalmente anche colleghi maschi, ma è in preparazione una lista di 30 donne imprenditrici, italiane, che potranno trasmettere il loro bagaglio d’esperienza anche alle altre.
Anna Sargian, analista finanziaria, è la fondatrice di GiT Italia: “Quello di ritagliare spazi che nutrano e, in qualche modo, sostengano le sinapsi femminili nel settore non è solo un problema italiano, tanto che Git si è diffuso in breve tempo in tutto il mondo. Forse l’origine di numeri così bassi, nella presenza delle donne, è da individuare nella scarsa propensione delle giovani a frequentare facoltà scientifiche. Ma non credo sia una questione legata alla diversa disposizione attitudinale, quanto, piuttosto, a un fatto culturale. In questo senso, noi italiani, come paese a forte predominanza culturale latina, abbiamo un problema in più, rispetto ad altre realtà territoriali”.
Da gennaio partiranno numerosi interventi mirati: un ciclo di workshop, lezioni sulla composizione dei business plan, consulenze di tipo legale e societario, corsi sul personal branding e sui pitch. Esattamente come già accade negli States.
Altro esempio virtuoso da replicare è quello di Singapore, dove si organizzano eventi ai quali sono invitati i più importanti venture capitalist del mondo.
Francesca Parviero ha già alle spalle la fondazione di due startup (Hr Jungle e Linkbeat, dove attualmente lavora) specializzate nel settore innovazione e risorse umane. Ha aderito a Git Italia e ha una visione ottimistica dei possimi passi da percorrere: “La crescita va accompagnata da training, formazione e focus sul femminile. I finanziamenti in materia sono ancora piuttosto timidi e l’ostacolo più grande è la mole burocratica da affrontare, da cui conseguono tempi così lunghi da divenire inconciliabili con l’avvio di una nuova attività. Ma con il Decreto 2.0 si è aperto un primo varco che risulterà utile anche per la nicchia femminile del settore. È vero che, al netto dei ritardi e degli intoppi governativi, i benefici pratici sono ancora pochi, ma credo che stia cambiando, e rapidamente, la mentalità. Anche dal punto di vista mediatico. C’è un’attenzione che, solo rispetto a qualche anno fa, è cresciuta esponenzialmente. Noi vogliamo interventire anche su questo, con Girls in Tech: sciogliere un po’ di nodi e oliare bene gli ingranaggi che sono già pronti. La strada è ancora lunga, ma noi abbiamo già imboccato il sentiero giusto”.
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