l'analisi

Startup e venture dopo il decreto Rilancio: novità buone e cattive

La conversione del Decreto Rilancio introduce modifiche alle misure per le startup. Ci sono alcune conferme positive, altre negative e purtroppo anche speranze sfumate, come l’esclusione delle società veicolo di investimento dagli incentivi

Pubblicato il 21 Lug 2020

Gianmarco Carnovale

Serial tech-entrepreneur

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Il decreto Rilancio appena approvato dal Parlamento rimane nel complesso un ottimo passo avanti nel rafforzamento dell’ecosistema startup e venture investing non solo nella risposta all’emergenza pandemica.

Gli emendamenti introdotti nel passaggio parlamentare aprono tuttavia alcune problematiche e ne rilanciano altre preesistenti, legate ad una serie di riforme necessarie intorno all’intero perimetro normativo che disciplina l’ecosistema delle startup, degli investimenti di venture business, dell’economia dell’innovazione, che diventano oltremodo urgenti.

Alcuni punti, che andremo a evidenziare, potrebbero essere ancora sanati con i decreti ministeriali, e sarebbe un gran bene se accadesse.

L’iter del decreto-legge

I decreti legge governativi, come noto, diventano “provvisoriamente” legge dello Stato dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri e la prima pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ma poi vanno convertiti entro 60 giorni attraverso un iter parlamentare che può modificare o confermare il tutto. Per loro natura, quindi, i Decreti non vengono mai particolarmente dettagliati nei loro articolati ma contengono ampi margini di affinamento che i gruppi parlamentari possono operare in un dibattito più allargato che coinvolge le associazioni di categoria ed i Ministeri competenti.
Il decreto Rilancio, quindi, nella fase intercorsa tra la prima pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e l’approvazione finale al Senato avvenuta alcuni giorni fa è stato sottoposto a diversi emendamenti, e concentrandosi sull’Articolo 38 che riguarda startup e venture investing si possono fare delle analisi di queste modifiche occorse, alcune con effetti positivi e altre molto meno, ma soprattutto analizzare quali aggiustamenti sono saltati tra quelli che erano fondamentali e su cui rimane urgente intervenire in qualche modo.

I capitoli principali delle misure prima del passaggio parlamentare

I capitoli principali delle misure sono rimasti quelli noti:

  1. risorse aggiuntive per 100 milioni di euro per il programma Smart & Start di Invitalia, che si prevedeva che avrebbe terminato i fondi a settembre;
  2. 200 milioni di euro per il fondo di sostegno al venture capital del MiSE, per destinarli a CDP Venture Capital che li distribuisca in uno schema di finanziamenti in convertendo in matching con investitori privati;
  3. uno stanziamento di 10 milioni di euro per voucher da assegnare alle startup perché acquistino servizi di sostegno dagli operatori intermedi (incubatori, advisor, etc.);
  4. una detrazione incrementale e provvisoria (fino a Giugno 2021) portata al 50% per le persone fisiche che investono in startup e pmi innovative con tetto di 100.000 Euro sia direttamente che attraverso fondi di Venture Capital;
  5. Equiparazione delle startup a università ed istituti di ricerca per quanto riguarda i soggetti da cui le corporate possono acquistare servizi di ricerca e sviluppo detraibili;
  6. Uno stanziamento da 4 milioni di euro per i sovvenzionare la fase prototipale di startup che sviluppino videogames.

Che è successo al DL Rilancio per le startup dopo la conversione

Vediamo cosa è successo sui vari punti:

Punti 1 e 2 confermati, punto 3 solo parzialmente confermato

  1. Confermato.
  2. Confermato, con un dettaglio importante aggiunto con gli emendamenti: viene fissata la leva in rapporto 4 a 1 rispetto all’investimento raccolto da privati, e l’importo massimo dell’intervento pubblico che viene fissato a 1 milione di euro. Sono effettivamente misure corrette che migliorano il testo rendendo molto potente ed immediata questa misura, a voler essere pignoli si poteva esplicitare meglio che la modalità di intervento preferenziale fosse quella del convertendo e che si possa seguire un modello contrattuale “snello” per la sottoscrizione escludendo un irrigidimento sugli onerosissimi Strumenti Finanziari Partecipativi, ma i decreti attuativi del MiSE potranno ulteriormente migliorare l’operatività dello strumento, si spera.
  3. Parzialmente confermato, ma viene ridotto del 5% per costituire un intervento a favore di azioni di promozione e comunicazione dell’ecosistema startup. Secondo me non c’era alcun bisogno di costruire una misura nazionale con questi quattro spicci, dato che questo tipo di attività dovrebbe essere svolta dal mercato privato e che comunque già ITA/ICE se ne occupa per conto dello Stato. L’auspicio è che non vengano stanziati con qualche destinazione privilegiata già in mente. Ad ogni modo il voucher a monte avrebbe dovuto essere corretto, perché tra i fornitori di servizi menziona inopinatamente i Business Angels, che in un ecosistema normale sarebbero solo investitori. Averli inseriti tra i destinatari della spesa del voucher rischia di alimentare l’ennesima distorsione all’italiana che potremmo risparmiarci. Male.

Punto 4: luci e ombre

L’incentivo incrementale al 50% viene confermato, ma con emendamenti che producono effetti differenti e da analizzare uno per uno: viene chiarito che è da intendersi come complementare all’incentivo al 30%, di cui si gode una volta superata la soglia che gode del maggior beneficio. Bene.

Viene innalzata la soglia dell’investimento ammissibile, portandola da 100.000 a 300.000 euro ma sbagliando platealmente l’oggetto, perché ci si rivolge solo alle PMI Innovative anziché alle startup. Male, sono le startup ad essere più rischiose e a necessitare di maggiori incentivi all’investimento in capitale di rischio, peraltro crollati con la pandemia, e invece qui si ribalta totalmente una logica che è perfino banale comprendere, con l’effetto di facilitare più investimenti sui soggetti che ne hanno minor bisogno, ovvero di spostare l’ago della bilancia in svantaggio delle startup a cui invece servirebbero di più.

Salta poi l’emendamento del MiSE, che era ben più articolato e calzato sulle necessità reali degli investitori privati, ed in cui si chiarivano due aspetti fondamentali, cioè che si poteva fruire dell’incentivo anche con investimenti effettuati attraverso le società di capitali (e non solo in forma diretta o attraverso fondi di Venture Capital, come previsto dalla misura), e che il credito d’imposta poteva andare a valere non solo sulle imposte sull’IRPEF ma anche sulle rendite da capital gain e su quelle da locazione abitativa in cedolare secca. Malissimo, il grosso del mercato degli investimenti pre-seed e seed – che è presidiato da Business Angel singoli o riuniti in associazioni, da family office, da holding di partecipazioni – è strutturato attraverso società di capitali che operano intermediando gli ingressi diretti di decine di soci nel capitale delle startup con dei veicoli che li raggruppano.

Vengono tagliati fuori da questo incentivo, quindi, sia i sottoscrittori di holding (incluse quelle quotate come LVenture Group e Digital Magics) e di special pourpose vehicles, sia i portali di equity crowdfunding che offrono l’opzione di investire attraverso un veicolo dedicato (molto opportuna, anzi dovrebbe essere obbligatoria per non incontrare problemi successivi con i fondi che non vogliono trovarsi troppi azionisti con cui trattare), sia le associazioni di Business Angel che operano abitualmente con dei sindacati di investimento (IAG, per esempio, opera notoriamente così). Una discriminazione incomprensibile, che il MiSE stava eliminando prevedendo perfino che fossero contemplati doppi livelli di società di capitali (es: un family office o una holding personale che investa in un sindacato di investimento che investa in startup), e che un emendamento “concorrente” voluto dal MEF ha fatto respingere. Peraltro, l’emendamento MiSE prevedeva un altro aspetto fondamentale, e cioè che l’investimento agevolato dovesse essere obbligatoriamente legato a partecipazioni non qualificate: il “minority stake” è un principio fondante del venture business e peraltro un tale vincolo è ben presente nel Regno Unito per poter godere dell’incentivo SEIS, pure preso esplicitamente a riferimento dal Decreto Rilancio.

Non aver più inserito questo paletto rende leciti i probabilissimi abusi di questo incentivo, quali per esempio gli aumenti di capitale sottoscritti da presunti “investitori” che di fatto sono i proprietari dell’azienda, cosa che non ha niente a che fare con il venture investing. C’è solo da sperare che questo ennesimo vulnus all’ecosistema venga sanato con urgenza, sia per rimuovere il collo di bottiglia artificioso che per impedire subito che l’ennesimo stuolo di furbi si approfitti dell’errore.

Punto 5 e 6 confermati: bene e male

Punto 5 confermato, è un bene.

Punto 6: confermato, e non riesco a dirne bene perché ogni “riserva indiana” trovo che sia un male: non c’è alcun motivo nell’incentivare in modo ristretto le startup in fase prototipale legate ai videogames, così come non c’era alcun bisogno di inventare il nuovo articolo 38 bis che crea una ulteriore riserva indiana per le startup della moda. Sarebbe invece molto opportuno creare degli stanziamenti a favore di tutte le startup in fase prototipale (anzi, pre-seed, perché usare la terminologia di settore aiuta a capirsi e farsi capire dall’estero) in modo scollegato da uno specifico settore, e lasciar decidere al mercato dei capitali quali siano le iniziative ed i settori da portare avanti in logica di matching (io Stato ti do questo supporto aggiuntivo se tu ti presenti con un investitore privato per dimostrare che il tuo progetto è meritevole, a prescindere dal settore).

La mentalità che produce queste azioni insensate va superata, prima che ci troviamo una pletora di “tasche” dedicate ad ogni micronicchia che trovi un padrino politico.

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