Le conseguenze del ritardo accumulato dall’Italia in termini di investimenti in venture capital (perdita di opportunità, fuga di talenti e di generale competitività del sistema paese) non sembra siano state ancora ben comprese dalla nostra classe politica, nonostante i timidi segnali di inversione di rotta a partire dal 2012. Proviamo perciò a riflettere sull’attuale situazione nazionale e sul contesto internazionale, per comprendere le sfide che attendono il nascente Governo Conte 2.0 e quale visione sia necessaria per tentare di recuperare il gap.
Il quadro internazionale
Il nuovo Governo che nascerà, si troverà in un quadro internazionale che vede sempre più al centro il tema della trasformazione sociale ed economica indotta dall’innovazione. E’ vero che il primo anno della legislatura corrente si era già notevolmente impegnato in alcune riforme intorno alla filiera del venture business e va dato merito a Luigi Di Maio per aver fortemente voluto attuare molte misure che il settore richiedeva, ma a ben vedere queste misure erano richieste da quasi dieci anni e la loro attivazione così tardiva ha prodotto un ritardo ormai macroscopicamente evidente con i paesi a noi vicini, per cui anche l’imminente messa a terra di tutto ciò che è stato fatto di recente sarà molto probabilmente insufficiente.
E’ infatti impressionante e illuminante un recente studio di Dealroom sulla progressione in Europa nel periodo 2014-2018 per i round di investimento cosiddetti “Series A” in una analisi sui 257 deal effettuati dai primi 20 fondi di Venture Capital. Nell’arco di tempo osservato, la taglia dei round cresce significativamente, rendendo più comune che il Series A si posizioni tra i 7 e 15 milioni (New Series A) o addirittura oltre i 15 milioni (Mega Series A) rispetto ai round tra i 4 e 7 milioni (Old Series A). Già questo trend di crescita è quanto di più lontano possiamo immaginare per l’Italia, dove il Series A si colloca tra i 1.5 ed i 4 milioni con timidissimi segnali di crescita. Ma andando un po’ oltre l’analisi ristretta dell’articolo, ciò che si intuisce facilmente è che quello che sta al di sotto di sotto queste soglie è evidentemente la fascia dei round pre-seed/seed/post-seed.
Se ne deduce quindi che anche in Europa il Series Seed – cioè l’investimento che una startup raccoglie prima di mostrare un qualsiasi ricavo – inizia a posizionarsi nell’ordine dei milioni, con una decina di anni di ritardo dagli USA dove per l’appunto questa fondamentale categoria di investimento varia all’incirca tra i 500 mila ed i 2 milioni di dollari.
La situazione italiana
Ed è qui che la differenza si fa drammatica: nello stesso periodo in Italia, e più grazie all’equity crowdfunding che agli autonominatisi Business Angels o ai fondi, il round di investimento Seed si posiziona più tipicamente tra 100 mila e i 500 mila euro, per di più con delle condizioni capestro imposte ai founder che difficilmente gli consentono di continuare nel percorso di scaling. Ma non bastasse la risicatezza evidente dei numeri su cui possono contare le nostre startup, bisogna anche essere molto fortunati per chiudere uno di questi pessimi round in Italia visto che i nostri VC sono tarati sul concludere due o tre deal all’anno ciascuno, con due diligence pensate per le acquisizioni di aziende avviate e con centinaia di milioni di fatturato, traslate sulle startup.
Se poi guardiamo ai triti e ritriti numeri assoluti, torna sempre utile ricordare come la Francia, che nel 2012 partiva più o meno alla pari con l’Italia per investimenti annuali in Venture Capital, in soli sei anni ci abbia distaccati di un ordine di grandezza potendo contare oggi in investimenti nell’ordine del 10x rispetto all’Italia. E la Francia era un paese molto in ritardo rispetto a Germania, Gran Bretagna e paesi scandinavi, per non scomodare Stati Uniti, Cina e Israele.
Quanto ci costa il ritardo
Ora, riflettendo su queste evidenze appare chiaro quanto l’anomalia italiana sia lungi dall’essere stata risolta con le timide norme implementate dal 2012, e altrettanto evidente sembra come ancora quasi nessun esponente politico di spicco in Italia abbia compreso quanto questo gap ci costi in termini di perdita di opportunità, di fuga di talenti e di generale competitività del sistema paese. A differenza di chi governa appena oltre il nostro confine, dove esiste una sistematica “produzione” a ciclo continuo di nuove imprese ad alto potenziale di crescita, e dove lo stimolo pubblico a questa produzione viene rivisto ed aggiornato periodicamente per renderla sempre più efficace, qui la nostra classe politica continua a guardare la scena e convincersi delle policy necessarie – implementandole blandemente e in modo sbagliato – come minimo cinque anni dopo chiunque altro, lasciando che ecosistemi più sviluppati ci portino via i talenti migliori e di conseguenza portandoci ad avvitarci sempre più ad essere un paese di microimprese che vengono progressivamente acquisite o messe fuori competizione da operatori esteri di norma molto più grandi.
E’ evidente che non si possa andare avanti così molto a lungo senza giungere al default, perché si può riformare e tagliare la spesa pubblica quanto si vuole ma se la base contribuente di privati ed imprese si riduce, e nel frattempo si allunga la vita degli anziani che si basano sul welfare di Stato, prima o poi il paese arriva al default. Dobbiamo tornare velocemente ad essere un paese che esprima nuove imprese all’altezza delle sfide del XXI Secolo: nuove imprese a carattere globale, ben capitalizzate, basate su innovazione e vantaggi competitivi, che impieghino in modo soddisfacente i talenti italiani per farli rimanere nel paese oltre a quelli che dobbiamo iniziare ad attrarre dall’estero.
Come cambiare passo
Ora, preso atto del fallimento di mercato dell’economia dell’innovazione in Italia, con una distanza dai nostri diretti concorrenti che aumenta, il primo passo da fare subito è inquadrare l’insieme dei problemi trasversali che rendono così debole la nostra scena. Problemi legati ad un modo di fare impresa – le startup venture backed – diverso da quello tradizionale che conosciamo, e per il quale i vecchi schemi e paradigmi non funzionano. Bisogna fermare le iniziative spot, talvolta illogiche ma soprattutto scollegate tra loro, che i Governi hanno attuato negli ultimi anni e che non hanno prodotto niente di valido, ma sprecano risorse che potrebbero invece essere utili.
E per cambiare passo è necessario stabilire una governance politica univoca per l’economia dell’innovazione, per poi lavorare su un vero e strutturato Startup Act che non affronti i colli di bottiglia uno alla volta come se esistesse un singolo silver bullet capace di far decollare il venture business nella penisola: i problemi sono da trovarsi nella rigidità degli sbarramenti tra settori giuridicamente pensati come autonomi e separati tra loro: sistema educativo, ricerca scientifica, immigrazione, diritto societario, impresa, lavoro, risparmio privato, immobiliare, investimenti, fisco, politiche territoriali, sono tutte caselle legislative che contengono i puntini da gestire ed unire per definire il disegno di un ecosistema delle startup – o filiera del venture business che dir si voglia – che possa funzionare, e che valorizzi le unicità ed il valore che l’Italia è ancora in grado di esprimere.
E’ tempo di muovere queste leve per favorire una visione, rendendoci conto che dobbiamo andare più veloce di chi ci precede per sperare di raggiungere il gruppo dei paesi di testa nel coltivare una società fondata sulla cultura dell’innovazione. E senza reinventarsi la ruota, possibilmente, perché non se ne può più di invenzioni all’italiana su faccende che basterebbe copiare bene.