Il Fondo nazionale per l’innovazione, già previsto nella Legge di bilancio dello scorso anno e diventato finalmente operativo grazie all’approvazione del decreto attuativo che lo disciplina, rappresenta un esempio concreto di meccanismo (diverso dalla semplice redditività misurata in termini di ritorno dell’investimento) per favorire, sostenere e diffondere innovazione.
Occorre però creare le condizioni migliori affinché il Fondo possa essere efficacemente implementato e serve un attento monitoraggio delle dinamiche che si produrranno a seguito della sua utilizzazione.
L’innovazione difficile del “sistema Italia”
In un’epoca contraddistinta dalla globalizzazione e dalla rivoluzione digitale, che ha reso possibile un repentino passaggio dalla net economy alla gig economy, l’innovazione è infatti sempre più una risorsa fondamentale per lo sviluppo di un paese. A maggior ragione nel caso del “sistema Italia”, una realtà economica congenitamente caratterizzata da alcuni limiti strutturali, quali la sostanziale assenza di fonti di energia e materie prime e la pressoché totale assenza di grandi imprese.
Senza dimenticare che la società italiana si è modernizzata in maniera veloce e disordinata, concentrando ciò che i più grandi paesi industrializzati del mondo hanno sperimentato nel corso di oltre un secolo in poco meno di quarant’anni. Dal secondo dopoguerra, cioè dal boom economico degli anni Cinquanta, fino alla prima parte degli anni Novanta. E lo ha fatto all’interno di un perdurante squilibrio fra Nord e Sud del paese, avvantaggiandosi di reiterate svalutazioni monetarie e dello straordinario apporto di una spesa pubblica che, pur essendo molto elevata, almeno fino agli inizi degli anni Novanta non era ancora esplosa raggiungendo i livelli insostenibili (per incidenza del debito pubblico sul PIL) di oggi.
Innovazione e opportunità di crescita
Perso ormai definitivamente l’appuntamento con la grande impresa, che è stato il perno dello sviluppo economico di gran parte dei paesi occidentali più avanzati, dopo l’età dell’oro delle PMI e dei distretti industriali, oggi il nostro sistema produttivo deve ripensarsi all’interno di uno scenario in cui informazione, conoscenza, internet e tecnologie digitali mettono a disposizione nuove opportunità di crescita senza dover necessariamente conseguire le dimensioni e le economie di scala tipiche della grande impresa. È vero che i protagonisti dell’economia globale ancora oggi sono le grandi corporation, ma è altrettanto vero che le recenti trasformazioni del mondo del lavoro, che prefigurano una società futura – la cosiddetta jobless society – in cui vi sarà meno occupazione in senso tradizionale di quella conosciuta in passato, inducono a ritenere che l’economia di domani non sarà più quella della grande impresa. E in uno scenario di questo tipo, assai più congeniale a un paese come il nostro che ha sempre sofferto di nanismo imprenditoriale e che è necessariamente tenuto a valorizzare quel tessuto di PMI che alla fine del secolo scorso era stato protagonista di un capitalismo molecolare fatto di distretti industriali in grado di creare in una certa misura occupazione, crescita e benessere, l’investimento in innovazione non può che rappresentare una via obbligata quanto decisiva.
Ma investire sull’innovazione non è cosa facile, perché si tratta di investire “al buio”: nessuno può sapere a priori se una soluzione innovativa, in termini di prodotto, processo o mercato, possa o meno avere un successo economico tale da trasformarsi da piccola startup a prezioso “unicorno”, per fare l’esempio delle aziende high tech che conseguono valutazioni superiori al miliardo. Per questo motivo, non sempre in campo economico la disponibilità di credito incontra la progettualità innovativa. Occorre quindi, come abbiamo visto, un meccanismo diverso per favorire, sostenere e diffondere innovazione.
Il Fondo nazionale per l’innovazione e le altre misure pro-startup
Il Fondo va a integrare altre importanti misure recentemente adottate a favore di start up, incubatori di impresa e PMI, come per esempio il voucher per gli innovation manager, oppure gli sgravi fiscali al 40% o l’istituzione delle Società di Investimento Semplice, o altre misure indirette quali l’obbligo per i Piani individuali di risparmio di investire il 3,5% della liquidità in fondi venture capital, così come per le aziende partecipate dallo Stato di investire il 15% dei loro utili. E la logica è proprio quella del venture capital, grazie alla quale attraverso un fondo del MEF già esistente (Invitalia Venture) risulterà possibile supportare finanziariamente imprese innovative con elevato potenziale di sviluppo, che si trovino nella fase della sperimentazione, costituzione, avvio di una nuova attività o sviluppo di un nuovo prodotto. Due sono i possibili canali di finanziamento: direttamente in startup o PMI innovative o indirettamente su fondi di venture capital di società autorizzate da Banca d’Italia.
Non vi è dubbio circa il fatto che la formula del venture capital sia quella più adeguata per creare opportunità di finanziamento diffuse rispetto ad attività non ancora stabilmente strutturate o in cui non esista ancora un prodotto, o dove non si abbia ancora una precisa definizione del mercato sul quale si potrà concretamente operare. Così come è assai probabile che il secondo possibile canale di finanziamento, quello che passa attraverso società autorizzate da Banca d’Italia, sarà quello più utilizzato. Tuttavia, sia nel caso del finanziamento parziale e indiretto attraverso venture capital già esistenti previa autorizzazione da parte di Banca d’Italia, sia nel caso del finanziamento diretto di start up occorrerebbe prevedere, al di là delle condizioni inerenti la restituzione delle risorse, qualche forma di monitoraggio fine tuning e step by step degli esiti conseguiti dal progetto finanziato nel corso del tempo. Perché il panorama delle start up nel nostro paese è sempre più frastagliato. E se l’intento del legislatore è quello di favorire l’innovazione attraverso il finanziamento delle attività potenzialmente più promettenti, allora è necessario creare le condizioni migliori affinché il Fondo innovazione possa essere efficacemente implementato.
Startup, lo stato dell’arte in Italia
Nel nostro paese, il mondo delle start up inizia a decollare a partire dal 2012, quando per iniziativa del governo Monti furono presi i primi provvedimenti normativi, nella forma di agevolazioni fiscali, che diedero impulso alla diffusione delle attività imprenditoriali ad elevato contenuto innovativo. Da allora a oggi, le start up sono cresciute fino a superare le 10.000 unità, dando vita a una geografia ben precisa, che è stata recentemente delineata attraverso alcuni importati studi (gli ultimi del marzo 2019) realizzati sia in ambito istituzionale (pensiamo in particolare al MISE) sia in ambito scientifico e di ricerca.
Al di là del dato scontato per cui la culla delle start up si trova a Milano e in Lombardia, rispettivamente con oltre 1.700 e 2.500 imprese, una presenza importante si registra anche nel Lazio (1.124), Emilia Romagna (891), Veneto (879) e Campania (788), seguite da Piemonte e Puglia, rispettivamente fra le 500 e le 400 imprese. Si tratta quindi di un fenomeno che interessa soprattutto le grandi aree metropolitane del paese (Milano, Roma e Napoli), che trova maggiore diffusione nelle regioni del Nord ma anche in alcune realtà del Mezzogiorno. Se però consideriamo la loro concentrazione per numero di abitanti, scopriamo che Napoli scende nella graduatoria ben al di sotto della media nazionale, mentre città di minori dimensioni quali Ascoli Piceno, Rovigo, Rimini, insieme a capoluoghi importanti come Bologna e Trento, sono le realtà in cui le attività ad elevato potenziale di sviluppo sono più diffuse. E ciò deve indurre una maggiore attenzione rispetto alla localizzazione territoriale dei finanziamenti, per evitare che la sfida e l’opportunità dell’innovazione vengano raccolte prevalentemente dalle regioni del Nord e dalle grandi aree metropolitane.
Inoltre, non si deve dimenticare che in termini di efficacia ciò che può rendere una start up un’attività di successo ha a che fare con almeno tre condizioni fondamentali:
- l’attitudine a svolgere sistematicamente attività di ricerca e sviluppo,
- la disponibilità di risorse organiche dotate di competenze avanzate
- la titolarità di brevetti o licenze di prodotti registrati.
E se la prima di queste tre condizioni può considerarsi soddisfatta da poco meno di due terzi delle start up attualmente in essere, le altre due rappresentano degli obiettivi ancora in larga parte da realizzare. Poco più di un quarto delle imprese dispone di un organico con competenze altamente qualificate (fra laurea magistrale e dottorato di ricerca), mentre solo il 17% di esse è titolare di brevetti o licenze registrate. È quindi evidente che un altro aspetto sul quale occorre mantenere un grado di attenzione elevata riguarda la concreta capacità delle start up di operare sulla frontiera dell’innovazione, vuoi impiegando risorse umane altamente qualificate, vuoi finalizzando le proprie attività alla realizzazione di prodotti originali. In generale, infatti, si tratta di realtà imprenditoriali assai poco strutturate, di piccole dimensioni (al massimo di quattro addetti), con fatturati per lo più fra 100 mila e 150 mila euro l’anno e con un capitale fra i 5 e i 10 mila euro.
Sono inoltre attività che per la maggior parte operano nel campo del software, anche se negli ultimi mesi sono sensibilmente aumentate quelle che si occupano di tecnologie avanzate. E qui occorre tenere presente che l’innovazione di per sé non può considerarsi limitata esclusivamente all’ambito tecnologico della progettazione e sviluppo di programmi informatici. L’innovazione si misura anzitutto attraverso la capacità di rispondere in maniera resiliente ed efficace alle sfide poste da una società che cambia. E molteplici sono i terreni sui quali possono e devono intervenire soluzioni innovative, che investono non solo la produzione di beni e servizi in rapporto alle trasformazioni imposte dalla rivoluzione digitale, ma anche i diversi processi che stanno a monte del momento produttivo, tra i quali non dobbiamo dimenticare l’insieme di servizi alle imprese che riguardano il rapporto con la Pubblica amministrazione, indispensabili alla buona riuscita di qualsiasi attività economica.
I ritardi della nostra macchina amministrativa e le difficoltà storicamente incontrate nel suo ammodernamento incidono ancora oggi in maniera decisiva sulla performance delle imprese, spesso rischiando di pregiudicarne la redditività così come la competitività sui mercati interni e internazionali. Molte sono le risorse, e di conseguenza i costi, che le imprese devono mettere in conto per gli adempimenti amministrativi, a cominciare dalle autorizzazioni necessarie allo svolgimento dell’attività produttiva.
Innovazione e rapporti tra imprese e PA
E anche in questo ambito tipico dei servizi alle imprese l’adozione di soluzioni innovative può contribuire in maniera decisiva ad accrescere le potenzialità di sviluppo delle start up. In particolare, attraverso un’efficace combinazione degli strumenti informatici messi a disposizione dai portali digitali con un’adeguata conoscenza vuoi di tali strumenti vuoi della normativa giuridica e delle prassi amministrative. Ne abbiamo già parlato, in un precedente articolo, a proposito delle figure professionali ammesse alla fruizione dei voucher per l’innovation management, rispetto alle quali riteniamo che debbano essere contemplati anche i professionisti delle pratiche amministrative. E non ci stanchiamo perciò di ripetere che anche questo ambito professionale, strategico per le performance delle imprese e sempre più caratterizzato da elevati livelli di specializzazione nella gestione sia diretta sia per via telematica delle pratiche autorizzative, rappresenta un terreno fondamentale per l’investimento in soluzioni innovative a supporto delle attività produttive. In tal senso, la costruzione di piattaforme in grado di fornire servizi integrati alle imprese nella gestione dei loro rapporti con la Pubblica amministrazione può essere un obiettivo importante per favorire l’innovazione del mondo delle imprese, sia dal punto di vista delle forme organizzative sia rispetto agli asset strategici per la competitività sui mercati.
Infine, sempre stando a dati recenti (2017), la maggioranza delle start up (55%) è costituita da società in perdita. E sebbene ciò sia abbastanza fisiologico per attività a elevato contenuto tecnologico, che solitamente sperimentano tempi più lunghi di accesso al mercato, la capacità di rendere produttivo e redditizio il finanziamento originario deve comunque considerarsi una condizione fondamentale ai fini della valutazione dell’efficacia di misure a sostegno delle start up innovative.
Come vincere la scommessa del Fondo nazionale innovazione
Il Fondo nazionale per l’innovazione rappresenta certamente un’importante occasione per fare crescere il sistema Italia sulla frontiera delle attività produttive a maggiore potenzialità di sviluppo. Ma affinché ciò accada è necessario un attento monitoraggio delle dinamiche che si produrranno a seguito della sua utilizzazione. E al fine di evitare che si trasformi in una misura inefficace è necessario monitorarne l’implementazione rispetto ad alcune condizioni decisive quali l’omogenea distribuzione territoriale dei finanziamenti, il concreto impiego di risorse umane con competenze qualificate, l’elevata propensione a generare brevetti o prodotti originali, l’ampia diffusione nei diversi ambiti produttivi e non comunque strategici per l’economia del paese, la comprovata capacità di generare fatturato e redditività.
Soltanto in questo modo, la scommessa che punta a far crescere le start up fino a farle diventare grandi potrà considerarsi vinta.