Lo scenario 2022

Startup, cresce l’open innovation in Italia ma l’ecosistema non è ancora maturo

I dati del 2021 mostrano il superamento per la prima volta nel nostro Paese della soglia del miliardo di investimenti annui raccolti dalle startup, ma persistono problemi per le aziende innovative: ecco quali sono i freni alla crescita, le prospettive 2022

Pubblicato il 13 Gen 2022

Alvise Biffi

Ceo di Secure Networks

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Nonostante nel 2021 il nostro ecosistema sia riuscito, per la prima volta, a sfondare la soglia rappresentativa del miliardo di investimenti annui raccolti dalle startup (1.461 milioni di euro, secondo l’Osservatorio startup Hi-Tech del Politecnico di Milano), i problemi per le imprese innovative italiane continuano a esistere. Dalla scarsità delle risorse finanziarie, considerando che il nostro ecosistema, a livello di dimensioni, è infatti solo un ottavo di quello francese, un sesto di quello tedesco e tre quinti di quello spagnolo, alle complessità dovute all’eccessiva burocrazia, passando per la poca attrattività del Paese per i talenti provenienti dall’estero, sia giovani che  manager di esperienza.

Alcune evidenze, che hanno confermato queste criticità, sono emerse dal sesto report dell’Osservatorio sull’Open Innovation e il Corporate Venture Capital italiano – promosso da Assolombarda e InnovUp, con la partnership scientifica di InfoCamere e degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano e con il supporto di Confindustria, Piccola Industria Confindustria e AnciLab.

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Startup e PMI innovative, cosa frena la crescita

Secondo il report, sono state 16.108 le startup e PMI innovative (+17,6% rispetto al 2020) campione del nostro studio. Alla domanda riguardante gli ostacoli all’innovazione intra-aziendale, quello maggiormente percepito riguarda la scarsità di risorse finanziarie, soprattutto per le società con meno di 5 dipendenti, complice la complessità burocratica nel partecipare a bandi pubblici che spesso mettono a disposizione capitali di partenza. A questo proposito, il 42% degli intervistati ha dichiarato che i meccanismi di supporto a livello di ecosistema sono piuttosto limitati.

In generale, le maggiori difficoltà vengono vissute dalle startup durante la fase di validazione, commercializzazione e conseguente scaling del modello di business. Questo ci suggerisce come, al contrario, l’ideazione del prodotto o del servizio innovativo – e la prima strutturazione – non siano percepiti come problematici, con un evidente collegamento all’importanza di meglio strutturare le fasi successive dell’impresa. La maggior parte dei rispondenti ha inoltre rivelato di far uso di metodologie di sperimentazione nelle attività del proprio business (come Customer Development, Agile, Lean Startup e Design Thinking): vi è quindi un approccio iterativo e di continuo aggiustamento delle idee e delle soluzioni implementate sulla base dei feedback raccolti.

Guardando alle diverse tipologie di startup, poi, le criticità sembrano essere collegate essenzialmente allo stato di maturità delle stesse: quelle con 20 o più dipendenti (e quindi più mature) vivono i maggiori ostacoli durante la fase di strutturazione organizzativa, insieme alla fatica nel riuscire ad attrarre manager esperti; le società tra i 5 e 19 dipendenti, invece, durante la fase di commercializzazione e seguente scaling del modello di business; infine, le startup con meno di 5 dipendenti affrontano le maggiori complessità nel momento di validazione del proprio business.

La collaborazione interna ed esterna all’ecosistema

Riguardo la cooperazione tra i diversi attori dell’ecosistema, i rispondenti alla nostra survey hanno evidenziato prima di tutto la necessità di strutturare e rendere stabili le collaborazioni già avviate nel tempo, attraverso contratti di fornitura e iniziative semi-permanenti volte a far maturare l’ecosistema. Gli attori esterni con cui le piccole startup collaborano più frequentemente sono aziende consolidate, centri di ricerca, università e incubatori/acceleratori d’impresa: questo aspetto conferma quanto sopra, dato che aziende e università rappresentano spesso e volentieri i primi touch-point esterni nelle fasi di ideazione e supporto alla nascita delle imprese.

È stata invece riscontrata una minore collaborazione con soggetti tipici di una fase più strutturata della startup, come i fondi di Corporate Venture Capital, i Business Angel e le campagne di Crowdfunding (in quest’ultimo caso, sono essenzialmente solo le società con 20 o più dipendenti a farne uso).

La ricerca dei finanziamenti

La maggior parte delle startup rispondenti (72%) ha cercato finanziamenti da fonti esterne sotto forma di capitale di rischio. Rimangono tuttavia rilevanti l’iniezione di risorse da parte degli stessi fondatori e il capitale di debito (come i prestiti bancari), soprattutto per le società che vantano più di 20 dipendenti. Reperire risorse – in particolare da attori strutturati quali Fondi di Venture Capital – viene percepito come particolarmente complesso, così come accedere a finanziamenti pubblici tramite bandi a causa dell’eccessiva burocrazia in gioco.

Solo il 7% delle startup, infatti, ha dichiarato di dialogare con i Fondi di VC. Gli investimenti in equity, invece, risultano essere rilevanti solo per le società con meno di 20 dipendenti.

Le priorità delle startup italiane

Le startup che abbiamo intervistato reputano di grande importanza per la propria crescita anche la predisposizione a sperimentare e creare nuove idee, attraverso un pensiero strutturato di problem solving volto a elaborare e comprendere segnali esterni. Tuttavia, risulta difficile possedere queste competenze, soprattutto a causa della poca attrattività che il nostro Paese ha per i giovani di talento, che probabilmente percepiscono le nostre realtà imprenditoriali come eccessivamente “incerte” in termini di stabilità e percorsi di carriera.

Fondamentale si è rivelata anche la motivazione da parte del personale, così come una pianificazione/organizzazione aziendale efficiente. La limitata disponibilità di risorse finanziarie, però, si ripercuote anche nell’acquisizione di queste risorse manageriali, così come la limitata maturità dell’ecosistema nell’assistere le startup nella parte di scaling è uno dei fattori chiave che determina il “nanismo” del nostro ecosistema.

Guardando alle diverse tipologie di startup, infine, quelle con 20 o più dipendenti hanno mostrato come l’avere un orientamento volto all’apprendimento continuo rappresenti la tendenza di maggior rilievo. L’apprendimento e le conoscenze di base, al contrario, sono invece risultate un problema per le società con un numero di dipendenti compreso tra 5 e 9 (che hanno più difficoltà ad allinearsi agli standard del mercato in termini di salario) e per quelle con meno di 5 dipendenti.

Conclusione

In conclusione, il quadro che emerge è quello di un Paese dove è cominciata la traiettoria di avvicinamento tra aziende e startup, ma che non ci può ancora lasciare del tutto soddisfatti. Sebbene l’ecosistema italiano abbia fatto passi in avanti da gigante negli ultimi mesi, dimostrando di saper far fronte comune durante le fasi più difficili della pandemia (grazie anche a tante giovani realtà che sono riuscite a rivoluzionare il proprio modello di business per fornire aiuto concreto nel momento di emergenza), sono ancora troppi gli ostacoli che startup e PMI innovative sono costrette ad affrontare ogni giorno nel processo di ricerca di fondi o anche solo di collaborazione con le aziende consolidate.

Per fare in modo che la crescita dell’ecosistema generi un meccanismo di collaborazione virtuosa per tutti gli attori in gioco, servono maggiori investimenti diretti da parte dei fondi istituzionali nelle startup (come “anchor investment” in ottica di attrarre di conseguenza anche quelli privati) per evitare che la raccolta sia generata solo da pochi grandi round, e maggiori incentivi per le aziende che investono in giovani realtà innovative, così da compiere il definitivo scaleup in grado di ridurre ulteriormente – e, si spera, definitivamente – il gap che ci separa dai Paesi europei più sviluppati.

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