Il fenomeno delle startup “gonfiate”, un po’ come fu per la bolla di internet, scoppiata ormai 20 anni fa, si sta materializzando in rischi sistemici su tutto il settore finanziario.
Qualcosa sembra stia cambiando: i soldi facili nella finanza cominciano a scarseggiare e le banche centrali, pur mantenendo elevata l’iniezione di liquidità, non sono così disponibili a vedere che ingenti somme vengono investite in aziende con dubbi modelli di business. E anche la Fed ha recentemente lanciato un allarme sulla trasparenza e la solidità di questo fenomeno.
Il caso WeWork
Il caso che sta facendo più parlare di sé nelle ultime settimane è quello di WeWork che ha rinviato la IPO dopo che in poco tempo il suo valore è stato rivisto notevolmente al ribasso. Da 42 miliardi di valutazione ad inizio anno è oggi passata a 10 in continuo ribasso, scoperchiando un modello di business che non ha mai fatto utili e nei fatti fin dall’inizio è in perdita. Uber, Snapchat, Slack per citarne alcune hanno lo stesso problema, il loro valore è notevolmente più basso di quello pre-IPO, spesso non hanno ancora fatto utili ma continuano a bruciare denaro proveniente dagli investitori.
Questo modello di startup è guidato da ingenti iniezioni di liquidità da parte degli investitori e venture capital spesso senza una strategia di business chiara, una chiara idea di dove possano generarsi dei ricavi e con una gestione manageriale del tutto fuori dalle normali regole di business (nonché del buonsenso e talvolta del buon gusto e di un qualche principio etico).
In principio fu Uber
Tutto questo è stato portato avanti per anni e solo recentemente stanno emergendo i lati oscuri di questo modello. Prima c’è stato il caso Uber da cui il fondatore venne allontanato dopo gli scandali sulla gestione fatta di spese folli e una cultura aziendale fatta di malversazioni nei confronti del personale, in particolare di sesso femminile ma non solo. Oggi il caso di WeWork porta alla luce uno stile manageriale fatto di eccessi, alcool, feste che nulla ha a che vedere con una buona gestione economica e manageriale di un’azienda che ha potuto costruire un impero del co-working grazie ad investitori che hanno continuato a mettere soldi in perdita.
La crisi di WeWork ha anche messo in luce la distorsione dei fondi di investimento tecnologici che in molti casi sono diventati veri e propri giocatori di azzardo che impiegano le loro disponibilità economiche raccolte sul mercato per scommettere su questo genere di imprese sapendo bene che solo una piccola parte di esse sarà in grado di ripagare gli investimenti.
Poi venne Softbank
In queste settimane si parla sempre più spesso della situazione traballante della SoftBank di Masayoshi Son che con il suo Vision Fund da 100 miliardi in acquisizioni tecnologie e digitali ha formato un portafoglio di decine di operazioni finanziarie con finanziatori che vanno dai Public Investment Fund di Ryad (45 miliardi investiti nel fondo) e Mubadala Investment di Abu Dhabi (15 miliardi investiti nel fondo) alla Apple. I primi due hanno deciso di allentare la loro presenza nel fondo e i sauditi si sono chiamati fuori dal secondo fondo “Vision 2” da 108 miliardi che dovrebbe investire nel campo dell’intelligenza artificiale. Inoltre, è bene ricordare che la gran parte dell’aumentato valore di borsa è anche dovuto al buyback che la stessa azienda fa dei suoi titoli.
Alcuni osservatori hanno messo in evidenza come SoftBank stia facendo azioni talvolta poco trasparenti per continuare a mostrarsi come è stato finora. Recentemente ha annunciato di voler prestare fino a 20 miliardi a suoi dipendenti per spingerli ad investire in Vision 2.
Dal punto di vista finanziario leggere le notizie su come stano operando molti fondi sembra di leggere la storia annunciata del classico schema ponzi noto per i suoi nefasti risultati.
La grande disponibilità di liquidità che si è venuta a creare dal QE delle principali banche centrali non si è per niente trasferita ad attività produttive ma è rimasta nella roulette degli interventi finanziari, molte volte di aziende tech che hanno promesso grandi guadagni. Un settore che è da ormai molti anni una macchina di aspettative non sempre soddisfatte.
Negli anni ’90 questo continuo annunciare nuovi prodotti o servizi fantascientifici che non vedono mai la luce la chiamavamo “vaporware”. La guida autonoma, ad esempio, che fino a pochi anni fa doveva soppiantarci al volante della nostra auto adesso comincia ad essere notevolmente ridimensionata e così per molti degli annunci su nuove applicazioni tecnologiche che sembrano più funzionali a stimolare gli investitori a scommettere che a disegnare un futuro prossimo concreto e praticabile.
Cosa spinge ad affrontare rischi sempre più alti
Da cosa sono spinti gli investitori per mettere soldi in questo sistema? La disponibilità di liquidità sempre più concentrata in poche mani e tassi di interesse bassissimi (ormai nell’area euro negativi) spinge ad affrontare rischi sempre più alti per guadagnare con la finanza. Il rischio finanziario diventa più basso quando puoi disporre di soldi e diventa difficile impiegarli per produrre altri soldi, questo ti spinge a scommettere su qualsiasi cosa possa portarti dei ricavi. Ti conviene anche farti prestare soldi per investirli nella finanza, giocare come in un grande casinò mentre l’economia reale, senza domanda interna e con lavoratori che ricevono stipendi sotto la soglia della povertà, non sono in grado di spingere i consumi e i profitti.
Questo “carosello” finanziario non ha solo cambiato le valutazioni sul corso azionario delle aziende ma anche cambiato in parte il modo di gestire le imprese. Se si possono fare molti soldi gestendo una azienda senza mai fare utili, comprando aerei privati, arricchendosi, acquisendo aziende senza alcuna nozione di gestione di impresa perché le altre imprese dovrebbero “fare fatica” a gestire managerialmente il loro business? In qualche modo questo modus operandi si è allargato anche ad aziende più tradizionali o ad altri settori: molti osservatori hanno segnalato come il valore delle azioni in borsa sia spesso frutto di buyback. Nei fatti le aziende anziché utilizzare gli utili per promuovere investimenti e mettere in atto strategie di business di lungo periodo preferiscono comprare le proprie azioni per mantenerne alto il valore. Spesso anche perché le stock option sono un importante elemento della retribuzione dei manager che dunque hanno tutto l’interesse a mantenerne alto il valore in borsa.
Mentre è sempre più difficile tenere la concorrenza internazionale e i clienti sono sempre più esigenti il “carosello” finanziario sostiene aziende sempre più alla ricerca della quotazione di borsa più alta e attenta alla chiusura del trimestre, alle aspettative degli investitori. Per ricevere finanziamenti nel mondo delle startup può bastare un “pitch” di pochi minuti presentando un’idea bella e futuristica sulla base di business plan in alcuni casi immaginari e per ottenere un finanziamento in banca è necessario presentare articolati piani, offrire garanzie, dimostrare l’impossibile. Molti manager tradizionali negli USA si sono così indirizzati verso questo genere di startup che, d’altra parte, possono permettersi di pagare molto bene e le cui stock option valgono molto di più dei settori tradizionali.
I dubbi sulla sostenibilità del modello WeWork
È di qualche giorno fa l’annuncio che il fondatore di WeWork è stato messo da parte e sarà la JP Morgan a mettere in atto un piano di salvataggio dell’azienda che dovrebbe consentirgli di procedere con la IPO e rimettersi in sesto. Ma anche qui esistono forti dubbi sulla sostenibilità del modello WeWork, che affitta spazi per ufficio per lungo tempo e li vende come co-working. In una fase nella quale le principali banche centrali mettono in allarme per una possibile crisi internazionale, qualora dovesse verificarsi, i primi a pagarne il prezzo sarebbero proprio le aziende e i lavoratori che utilizzano i co-working e questo significa perdita di clienti e renderebbe ancora più difficile il traguardo di andare in utile per WeWork.
Negli Usa si cominciano anche a vedere fenomeni di giovani che non sono affatto interessati ad aprire una startup ma preferiscono lavorare in posti organizzati in modo più tradizionale, non sono disponibili ad orari e ritmi assurdi rinunciando al loro tempo di vita con la promessa di diventare ricchi. Negli anni post-crisi del 2008, quando non si trovava lavoro, molti hanno subito il fascino o sono stati costretti a sposare il modello delle startup ma ora preferiscono trovare occupazioni nel quale esiste un migliore bilanciamento tra vita privata e lavoro.
Il lato “positivo” del fenomeno startup
Tuttavia il fenomeno delle startup ha anche permesso a nuove aziende di potersi mostrare ed entrare nel mercato offrendo nuovi servizi o prodotti, alle grandi aziende di integrare attraverso la open innovation delle nuove soluzioni. Un modello che non di rado ha aiutato nuovi imprenditori ad inserirsi nel mercato, soprattutto ha aperto le grandi aziende all’ascolto dell’ecosistema che le circonda.
Certo, spesso le startup di giovani sono anche diventate un parcheggio per studenti overskilled per un mercato che non è in grado di assorbirli oppure una “gallina dalle uova d’oro” per chi ha messo in piedi il business dei servizi alle startup e che ha potuto intercettare sia finanziamenti pubblici sia introiti dalle startup. Almeno in Italia questo è spesso il tratto che ha connotato questo fenomeno.
Qualcosa sta cambiando
Ma, dicevamo, qualcosa sta cambiando, anche nella disponibilità dei finanziatori di lasciarsi “guidare” da un management composto da persone con poca o senza esperienza, eccentriche, piene di ego da esprimere che come unico merito hanno più quello di aver “incantato i serpenti della finanza di ventura” che di aver progettato e costruito un solido modello di business a prova di cliente.
Se questo si verificherà sarà sicuramente un bene: tornare a una managerialità più solida e concreta non può che essere positivo magari raccogliendo quella ventata di innovazione e entusiasmo che ha anche connotato il fenomeno delle startup. Quel senso di poter esprimere una propria idea e di concretizzarla in un progetto, di poter accedere ad un sistema di finanza in grado di promuovere anche chi non viene da una famiglia in grado di finanziare un investimento o di garantire al sistema bancario il prestito.